sabato 23 gennaio 2016

Famiglia al plurale (Contro gli steccati)

Foto by Leonora
Famiglia. Ne avevo una quando sono nato, la mantengo anche se nel frattempo ne ho formata un'altra e formandone un'altra mi sono intrecciato ad altre famiglie a cui sono legato.
Ed è proprio questo mischiarsi, questa gemmazione continua che esiste da che mondo e mondo, il tratto caratteristico della famiglia rispetto al singolo individuo. Non la chiusura, non l'idea di recinto, di steccato, che diamo quando la disegniamo delineandone i bordi in modo preciso, specialmente se lo facciamo per scopo propagandistico o politico.
La famiglia è un'istituzione naturale, prescinde e comprende tutto. "Senza famiglia" è il titolo di un libro (quanto ho pianto da ragazzo, vedendone in tv la versione cartone animato) ma senza famiglia non lo è nessuno.
Ecco perché oggi rifuggo le polemiche sia pro sia contro il Family Day, dichiarandomi fieramente neutro, non avendo bisogno di brandirlo come spada né di combatterlo ritenendolo un ipocrita feticcio.
Piuttosto sono lieto che Giacomo oggi, come dono per il suo compleanno, abbia chiesto di cenare tutti assieme, a casa, non soltanto noi cinque, ma anche nonna, zii, cugini, amici persino. Lui il Family Day non sa neppure cos'è, credo, però il significato positivo di famiglia lo ha stampato nel cuore ed è forse il più bel regalo che lui fa a me e a noi, ogni giorno.

P.S. Tanto per rimarcare il concetto, è famiglia quella a tinte pastello del Mulino Bianco e pure quella nero lutto evocata nel Padrino. C'è chi scrive che "famiglia" è dove ci sono persone felici e io obietto pure su questo, perché mai mi sono sentito parte di una famiglia più di quando volavano urla e c'erano attriti e dolore o pianto. Ognuno può chiamare "famiglia" ciò che vuole, però nulla cancella la sostanza di quella che è la famiglia davvero e che non ha mai pronome singolare, mia o tua o sua, ma soltanto plurale, nostra, vostra, loro.

domenica 17 gennaio 2016

Oltre la rete (La generazione delle attese)

Foto by Leonora
La partita è amichevole, tra ragazzini che hanno compiuto appena tredici anni. I genitori avversari sono ammassati alla rete di protezione e incitano, spronano, commentano, urlano, inveiscono. Colgo spezzoni di frasi qua e là. "Dai, si capiva che rimbalzava male!". "Corri, corri, altrimenti resta a casa a dormire!". "Passala, passala che è libero!". "Ma basta! Possibile che sbagli sempre l'appoggio!".
Ficco la testa nel cappuccio per ripararmi dal vento artico che arriva alle spalle, la bolla che si crea mi permette di assistere alla scena da perfetto spettatore e mi scopro un po' innervosito a pensare: "Perché non ci vai tu in campo? Perché non metti maglietta e calzoncini e prendi il posto di tuo figlio, lì in mezzo a quel terreno gelato, dove le scarpe coi tacchetti fanno un rumore da ballerino di tip tap che anche Maradona avrebbe difficoltà a non scivolare? Cosa facevi di così grande quando avevi la loro età per permetterti ora di giudicare e sbraitare? Hai mai provato a giocarla una partita, con il fiatone, mentre tutti ti corrono incontro e tutto è appiattito, che quando ti arriva la palla tra i piedi è già un miracolo non inciampare?".
Tolgo il cappuccio e con il tepore del sole sul volto la stizza lascia spazio alla comprensione, alla solidarietà tra coetanei, loro gridano meno e io li capisco di più, ammetto a me stesso che anche io - pur pacato - non sono esente da atteggiamenti simili, cerco persino giustificazioni: "Lo fanno per il loro bene. Lo facciamo per il loro bene".
No. Crediamo di fare il loro bene, invece accade esattamente il contrario: stiamo crescendo una generazione che ha caricato sulle spalle tutto il peso dei nostri sogni, delle nostre attese. Non soltanto rispetto all'orizzonte di vita, cioè la famiglia, il lavoro, gli affetti, ma anche e soprattutto in quelle riserve indiane che dovrebbero essere lo sport, il gioco, i passatempi.
Spazi di autonomia nei quali i miei genitori neppure si sognavano di interferire, limitandosi a una regola elementare: "Pensa a studiare oppure vai a lavorare, perché a fare niente di certo nella nostra casa non puoi stare". Punto. Nonostante fossi figlio unico e dunque discretamente coccolato, mio padre non è mai venuto a vedermi giocare, mia madre nemmeno la riteneva tra le possibilità remote, così pure i papà e le mamme dei miei compagni.
Trent'anni dopo è un mondo cambiato radicalmente. Io per primo non mi perdo una partita dei miei figli, figuriamoci un saggio di chitarra o di danza moderna, anche se in quel caso mi annoio maggiormente.
Parlo per me stesso, non vorrei generalizzare, tuttavia ho la sensazione che stiamo crescendo ragazzi a cui abbiamo tolto il desiderio, concedendo loro tutto, e che di rimbalzo rischiamo di schiacciare con il peso delle nostre aspettative.
Mi consolano e sollevano un'intuizione e una constatazione.
La constatazione è che l'essere umano riesce da milioni di anni a cambiare e adattarsi, superando gli ostacoli che di volta in volta ha di fronte: lo faranno anche i ragazzi di questo tempo.
L'intuizione è conseguente al fatto che i miei figli sorridono comunque. Anzi, spesso ridono proprio e dunque sospetto che al di là dell'amore e del rispetto che mi portano, in realtà quando guardano oltre la rete o sulle tribune, io e gli altri genitori dobbiamo sembrargli tanti scimpanzé o bestie curiose, che sbraitano, gesticolano, inveiscono credendosi tanti Maradona, mentre al più hanno vinto una volta a palla avvelenata, quando gli altri erano in bagno.

domenica 10 gennaio 2016

Il riflesso di Medusa (Raccontare storie)

Foto by Leonora
Ci sono mattine come questa, umide, con la nebbia, mattine di gennaio che sembra novembre, in cui il silenzio è come una mano che avvolge, mentre il tempo scorre lento, tanto che è quasi un rumore, l'unico che puoi percepire.
Mattine in cui penso al valore di raccontare storie, perché se vedo o leggo di un padre che sgrida il figlio mi commuovo, mentre se sono io quel padre resto indifferente.
Raccontare storie è il gesto di Perseo che uccide Medusa senza guardarla negli occhi, usando lo scudo per scorgerla attraverso il riflesso, evitando così di rimanere pietrificato.
Rimanere pietrificati è l'equivalente di quel restare indifferenti di cui scrivevo prima, quell'ostinazione nel compiere un'azione nonostante ci si renda conto che è sbagliata, senza però trovare la forza e il coraggio di cambiare registro. Mi accade nei piccoli gesti, come appunto sgridare esageratamente un figlio oppure discutere in famiglia su dettagli da niente o arroccarmi in un silenzio ostinato, ma pure in alcuni atteggiamenti a mente fredda: una certa pigrizia, ad esempio, evitando di fare qualcosa di utile, con costanza e medoto.
Oggi perciò chiedo perdono a Giovanni, per tutte le volte che lo prendo in giro sottolineando un suo difetto; a Isabella che deve sopportare i giorni in cui mi chiudo a riccio e ho i nervi a fior di pelle, tanto che è inutile sia trattarmi con riguardo sia prendermi di petto; alle persone povere che mi tendono la mano mentre passo oltre, con la scusa che non potendo aiutare tutti tanto vale preoccuparsi di nessuno; agli amici che non sento da parecchio e che spesso mi vengono in mente, ma con il proposito di voler dare loro molto non faccio neppure quel poco che basterebbe per far sentire che sono a loro vicino.
Chiedo perdono oggi, sapendo che domani tornerò ad essere in difetto, sollevato però dalla constatazione che non tutto è perduto, poiché riesco ancora a distinguere giusto e sbagliato.

P.S. Pioveva a dirotto nel primo pomeriggio di otto anni fa, quando camminavo accanto a mio padre per l'ultima volta, io mano nella mano ai miei figli, lui in una cassa di legno. Essendo negato nel ricordare le date è stata mia madre a fare memoria di questo anniversario, eppure io che non credo nei segni qualche segno - devo ammetterlo - lo avevo ricevuto, in sogno, ieri l'altro, quando nel dormiveglia mi sono trovato a pensare al grande nulla, che c'è dopo, come un buio intenso, un'assenza totale, un vuoto nero, in quel momento però non spaventevole, accogliente anzi, come una tregua dal tutto. Così mi sono trovato a pensare alla morte, con la consapevolezza tuttavia che essa non fosse la fine e che la pace che sentivo fosse dovuta alla sensazione che dietro quella barriera, quella bolla color pece, ci fosse qualcuno, per l'esattezza mio padre, che stava sorridendo.

venerdì 1 gennaio 2016

G di Gennaio (e Gentilezza)

Foto by Leonora
Gennaio. G. Gentilezza. Il primo aggettivo per associazione di idee, un buon proposito per l'anno appena cominciato e una virtù che apprezzo nei gesti di chi incontro sulla mia strada.
Gentilezza contrapposta all'arroganza, gentilezza come antidoto all'indifferenza, gentilezza nei modi, gentilezza che fa rima con dolcezza e va a braccetto con garbo, misura, eleganza. Gentilezza di cuore, spontanea, ma gentilezza anche della testa, ferma volontà nel guardare l'altro da pari a pari, senza sussiego, supponenza, falsità o piaggeria.
In un mondo di urlatori, di predicatori con la verità in tasca, ammetto di giudicare le ragioni altrui dalle enunciazioni senza foga, allenando l'orecchio ad escludere chi sbraita e ad ascoltare chi accompagna la schiettezza con il candore di un sorriso, con una simpatia che si coglie dagli occhi, nei quali non c'è ombra di cinismo o freddezza.
Gentilezza che premio, parlando bene dei luoghi in cui l'ho trovata. Ieri sera ad esempio, alla pizzeria Mamma Rita di Bulgarograsso. Oppure al supermercato di Massimo Gerolamo Augusto Ricca, sulla via che da San Lorenzo porta a Civezza, in Liguria. E ancora allo sportello dell'ufficio abbonamenti dell'Eco di Bergamo e della Provincia, le cui risposte mi capita di sentire mentre passo accanto alle scrivanie di chi se ne occupa (e non è un caso se gli abbonamenti aumentino, nonostante la crisi dell'editoria: gentilezza pure come lievito e motore della ripartenza).
Nella dedica su un libro che mi è stato regalato per Natale, uno dei colleghi che stimo di più ha scritto: "Manteniamo lo sguardo sulle stelle polari". Lo prendo in parola, augurandomi che non soltanto il nuovo anno, ma tutti quelli a venire, portino in dote una gentilezza rinnovata, nella consapevolezza che per chiederla agli altri devo essere per primo io a dimostrarla.