martedì 23 giugno 2015

Eight Is Enough (La pazienza di Enrichetta)

Foto by Leonora
Otto non erano abbastanza. Infatti c'ero io.
In queste sere che sembrano finire mai, con un cielo che ha i colori del fuoco, Enrichetta attende di raggiungere il suo Matteo e resta aggrappata alla vita, con quella pazienza ostinata - ma non ostentata - che è un tutt'uno con la fibra forte che il buon Dio le ha dato in dono. 
Enrichetta è la mamma del mio migliore amico, Angelo, e pure di Domenico, Giacomo, Elisabetta, Maria, Paolo, Giorgio, Giovanna. Otto figli in tutto, proprio come la famiglia Bradford ("Eight Is Enough" il titolo originale, Otto è abbastanza, appunto), il cui attore principale se n'è andato oggi, all'età di ottantasei anni.
Enrichetta ha qualche mese di più di Dick Van Patten, ma da qualche giorno l'arco disegnato dal destino pare esser teso a dismisura e figli e nipoti sono preparati al peggio, ammesso e non concesso che sia un "peggio" il riposo dei giusti, quale sarà certamente il suo.
Quando ero un ragazzo la loro casa era la mia, poiché da figlio unico cercavo compagnia dai vicini e Angelo mi trattava proprio come un fratello. Campassi cento anni riuscirei a stento a ripagare la discrezione con cui sua madre mi accoglieva a casa loro. In tanti anni non le ho mai sentito dire una parola fuori posto, né alzare la voce, né fare un gesto di stizza o anche soltanto di disappunto. Al massimo scuoteva il capo e alzava gli occhi al cielo, riprendendosi subito celiando, con una battuta, un moto di spirito, sussurrato e accompagnato da un sorriso scaltro e insieme buono.
Della sua pazienza infinita ho già scritto. Pari alla pazienza Enrichetta ha però l'intelligenza, acutissima, che trasmette con gli occhi, parlando il giusto. L'episodio che più le piaceva raccontare era quando aveva vinto un tal premio scolastico ed era andata fuori Grosio per ritirarlo: se chiudo gli occhi rivedo i suoi, mentre lo diceva, come brillavano.
Raccontare la vita che ha vissuto alla dozzina abbondante di nipoti che ha, oppure ai miei figli, sarebbe un esercizio meritevole quanto vano: chi non ha vissuto quel tempo ignora quanto era gramo il gramo. Eppure il basto di fatiche e dolori portati a mo' di giogo non le hanno impedito di avere una vita felice, piena, a dimostrazione che i beni materiali e ciò che riteniamo generalmente come ricchezze non sono tutto. Ed è forse questa la lezione più bella che mi ha dato e di cui le sarò per sempre grato.

sabato 13 giugno 2015

Dieci giusti (nella scuola voglio ostinarmi a credere)

Foto by Leonora
Passano gli anni, mi stupisco di rado ma quando accade l'emozione è più forte.
Deve essere il germoglio di ciò che accade agli anziani, che ne hanno viste troppe per sorprendersi ma non è raro si commuovano, talvolta persino rigando il volto di lacrime.
Abituato per mestiere a incontrare i potenti, mai ne resto ammaliato, scorgendo nove volte su dieci il dettaglio che ai miei occhi li rende deboli e distinguendo sì il loro punto forte con ammirazione, però un'ammirazione lucida, di testa, senza calore. Di contro mi viene un groppo in gola e diventano lucidi gli occhi quando mi trovo d'innanzi una persona normalissima, ma di spessore umano che fa eccezione.
M'è capitato pure stamattina, parlando con un insegnante, una persona della mia età, che in ciò che fa mette cuore.
In tempi in cui sono parecchio critico sulla scuola, irritato dal rifiuto da parte del corpo docente ad accettare qualsiasi riforma che porti a un cambiamento sostanziale, mi riconcilio con quel mondo quando sento una persona assennata, che accetta di dialogare e soprattutto di mettersi in discussione. Mi torna in mente l'episodio biblico di Abramo, che di fronte a Dio finisce con il perorare la salvezza di Sodoma, ingaggiando una trattativa in base al numero dei "giusti". Prima chiede che la città sia risparmiata se se ne troveranno almeno cinquanta e poi insiste ed insiste fino a che la cifra richiesta di assottiglia sensibilmente, scendendo infine a dieci.
Così vale per me, disposto ogni volta a concedere credito ai molti in forza della virtù dei pochi.
Al di là della preparazione e delle competenze conoscitive - condizione minima per insegnare in una scuola qualsiasi - ciò che conta maggiormente per me è lo spessore umano, la capacità di guardare al ragazzo nel suo insieme, aiutandolo a sviluppare i talenti che ha, senza negarne i limiti, aiutandolo tuttavia a superarli: questa è la vera sfida. Se altrimenti si va in classe come si entrerebbe in un ufficio ministeriale deputato ai protocolli, è ovvio che oltre a non cavar sangue dalle rape si otterrà un'aridità generale, con gli ultimi, i meno talentuosi, più penalizzati.

sabato 6 giugno 2015

Trent'anni, un giorno

Foto by Leonora
Trent'anni, un giorno. Quelli che sono passati da quando ho fatto la maturità, da quando mi sono fidanzato con Isabella, da quando ho preso la patente, da quando su una bancarella di Porto Ferraio all'isola d'Elba ho comprato "Il nome della rosa" e ho cominciato a leggere sul serio, non per obbligo, senza fermarmi più.
Trent'anni, un giorno. Tanto sono trascorsi in fretta, almeno a guardarli da quassù, in cima alla salita (o forse è soltanto mezza costa, ma fino al prossimo passo ogni spuntone dell'esistenza è vetta).
Il ragazzo che ero fatico a riconoscerlo pure in fotografia, cambiato nella fisionomia dentro e fuori, anche se fuori che si è cambiati lo si capisce prima.
Trent'anni, un giorno. Da quel 1985 che allora non mi pareva nulla di che, preso com'ero nel prendere la rincorsa, a spiccare il volo, con una paura di cadere fottuta ma altresì un entusiasmo che avrei spostato a spinta una montagna e il timore di non farcela era nulla al confronto del desiderio di salire la scala.
"Trent'anni, un giorno" è anche il nome che ho dato al gruppo di WhatsApp e riservato ai compagni del liceo che mi piacerebbe ritrovare, per una sera o due, prima che l'anno finisca. Nulla di nostalgico, men che meno l'occasione riveduta e corretta di mettersi in fila, di ricomporre i giudizi dati allora sul registro e che poi ha scompaginato la vita. Semplicemente il desiderio di ritrovarsi attorno a un tavolo, guardarsi negli occhi, sentirsi parte per un istante di una storia più lunga, vasta, in cui siamo rimasti soli, lontani gli uni dagli altri, dovendo andare avanti, come ciascuno meglio poteva.
"Trent'anni, un giorno" l'ho pensato ieri l'altro, quando da uno scaffale, impolverato, ho recuperato quell'edizione ormai smunta e ingiallita del Nome della Rosa e ho cominciato a rileggerla, cosa che per nessun libro ho mai fatto finora. Sfogliando le pagine e tornando a immergermi nella lettura, al vago sentimento di riconoscenza che avevo per quel testo ho aggiunto il piacere di riscoprirne i dettagli, la ricchezza, comprendendo aspetti che certo mi erano sfuggiti allora, perché differente era colui che lo leggeva. Ho rammentato così ciò che molti già sanno, cioè che esiste una stagione per ogni cosa e ogni stagione ha una sua ricchezza. Importante è non immalinconirsi per ciò che è stato o non è stato, e viverla, qui ed ora.