sabato 28 febbraio 2015

Si stava peggio (quando si stava peggio)

Foto by Leonora
Ci lamentiamo troppo, specie a casa nostra. La colpa per la maggior parte è mia, che d'istinto me la prendo per cose da nulla, insegnando ai figli la reazione più sbagliata. Una sensazione che ho da qualche tempo, un errore di cui mi sono accorto con lucidità ieri sera.
Andiamo con ordine.
C'erano pochi ragazzi ed è un peccato, perché l'incontro sarebbe stato ancor più interessante per loro, come mi  ha detto Davide (Passoni), ma la cinquantina di persone presenti e lo spirito con cui si è tenuto hanno ripagato con abbondanza l'impegno per prepararla da parte di Isabella e di chi l'ha aiutata.
Il tema del dibattito erano le nostre radici contadine. Titolo scelto: "Sotto la neve pane", anche se sotto la neve - abbiamo scoperto - di pane ce n'era poco e anche quel poco era giallo, gramo, raffermo, spesso ammuffito, accompagnato a un companatico di stenti, debiti, fame, malattie, miseria...
E' stato bravo Luigi Clerici a spiegarlo e mentre parlava riflettevo su quanto corta e vaga sia la nostra memoria. Anche quella in buona fede, alimentata dai ricordi dei più anziani e dei racconti di genitori e nonni, nati tutti però nel Novecento e dunque con una visione limitata.
Ieri ho realizzato con chiarezza che le difficoltà della generazione che mi ha preceduto e che pur mi sembrano terribili quando le sento dalla voce di mia mamma (classe 1940) sono blande in paragone a chi c'era prima. Vessazioni, carestie, cibo scarso e sempre quello, sofferenze erano la norma.
E' vero, come insegna Primo Levi, che non esiste una forma di infelicità perfetta e persino nel lager nazista esisteva una normalità che comprendeva gioie e soddisfazioni, ma se osservate con i nostri occhi e immaginate sulla nostra pelle quelle condizioni risultano d'uno spavento tale che si rizzano i capelli in testa (chi li ha).
La locandina della serata
Due i sentimenti che ho provato, mentre ascoltavo il resoconto puntale dell'esistenza di chi mi ha preceduto, degli uomini e donne sulle cui spalle siamo saliti per arrivare al punto in cui siamo ora.
Primo: siamo davvero fortunati, una buona sorte paragonabile all'aver vinto il superenalotto ogni mattina, giuro che prima di lamentarmi di qualcosa che non va, di alzare il sopracciglio per un torto nelle mancanze materiali, ci penserò dieci volti. E anche quando lo farò sarò consapevole della pochezza di quanto vado dicendo, aggiungendo al brontolare un sorriso d'ironia.
Secondo: davvero erano tipi tosti i nostri avi, gente forgiata d'una tempra di cui oggi s'è persa traccia ma a cui in altri ambiti, in differenti situazioni, noi assomigliamo, perché i cromosomi sono identici e dunque alla memoria per quanto sono riusciti a fare loro va a braccetto la speranza, la certezza anzi, che qualsiasi cosa capiti - crisi economiche, maggior tasse da pagare, diritti ritenuti fondamentali che vacillano... - sapremo reagire anche noi, sopravvivere. Cavarcela insomma.
Ed ora mi preparo alla solita filippica di Giovanni che quando si sveglierà e non troverà i frollini della sua marca preferita metterà in piedi un pianto greco che Eschilo o Sofocle sarebbero fieri di lui o di Giorgia, che monterà su tutte le furie perché alla brioche fresca portata a casa ieri sera da suo fratello non può aggiungere la Nutella (d'accordo, lo ammetto, l'ho finita io!), o di Giacomo che invece di tre simil Magnum di gelato potrò mangiarne soltanto due e imprecherà contro il cielo e gli uomini: e il dramma è che non posso incolpare loro, poiché il primo re della lagnanza per quisquiglie sono io, che per la pasta leggermente scotta o per un sugo che non è quello che mi ero immaginato posso andare avanti a menarla per mezz'ora.
Se esiste una vita dopo la morte, siano clementi coloro che mi hanno preceduto e che avrebbero tutto il diritto di farmi passare qualche secolo di purgatorio a calci nelle terga (e scrivo terga ma meriterei espressione più volgare e consona).
P.S. Devo delle scuse pubbliche a Luigi Clerici, perché per molto tempo ho sottovalutato il lavoro che faceva. Non che ne parlassi male, non ne avevo l'occasione del resto. Il mio torto è stato peggiore di colui che sparla ma a ragion veduta, poiché conoscendolo in altro ambito (lui si occupava della comunicazione del Comune di Como quando io lavoravo prima a Etv poi a La Provincia) avevo la presunzione di conoscere i suoi scritti senza averli letti. Un due più due sciocco prima ancora che sbagliato, di cui mi pento e chiedo scusa. L'anno scorso poi, quasi obbligato per non ricordo quale evenienza, mi sono trovato a leggere una sua pubblicazione e l'ho trovata eccellente, capace di coniugare il rigore storico appunto alla divulgazione semplice, lineare diretta. Una qualità che ho avuto modo di riscontrare di nuovo ieri sera.

mercoledì 25 febbraio 2015

Il futuro è loro (Yes they can work)

Foto by Leonora
Il mondo che ci sembra più scuro, grigio, in verità i colori li ha: siamo noi adulti a non accorgercene, perché con l'età si guadagna in saggezza ma si perdono diottrie. Anche quelle del cuore.
Mi dico spesso che i nostri ragazzi se la caveranno, che il pianeta continua a girare da millenni e non deciderà certo di prendersi una pausa in coincidenza con il nostro passaggio. Un atto di fede più che una concessione alla speranza, mentre ieri no, ieri ne ho avuto una conferma tangibile, reale.
Merito di Edoardo, Valentina, Oscar, tre ragazzi di quarta superiore dell'Istituto Caniana di Bergamo (che è un po' l'equivalente della Ripamonti, a Como). Sono loro ad avermi rincorso per le scale e contattato, dopo che con centinaia di altri studenti erano rimasti in silenzio ad ascoltare alcuni responsabili del gruppo Sesaab, compreso il sottoscritto, sul mondo del lavoro e la scelta da fare, dopo che avranno concluso il loro corso scolastico.
Da me volevano il permesso di fare visita a Mediaon e fino a qui ci siamo: accade spesso.
Il bello è invece ciò che mi hanno spiegato dopo, cioè che sono una ventina e fanno parte di un progetto chiamato Yes We Can Work. L'obiettivo è di abbinare alle lezioni la possibilità di apprendere metodi, tempi e modi del lavoro, perciò si sono dati una struttura aziendale, con tanto di ruoli definiti. Edoardo ad esempio è il general manager, Oscar è lo "sviluppatore grafico multimediale", Valentina la responsabile delle risorse umane.
Mi ha fatto tenerezza e insieme suscitato ammirazione Valentina, dicendomi che stava parlando con me poiché il compito che le è stato assegnato è quello di ampliare le competenze in suo possesso: si occupa di grafica, ma deve imparare a relazionarsi con gli altri, a tessere rapporti. L'ascoltavo parlare e sentivo di assistere a qualcosa di immenso: non erano soltanto parole, era il passo del tempo, il rumore che fa il futuro quando irrompe sulla scena e segna un cambiamento.
Ignoro il loro destino, però da ieri la clessidra s'è ribaltata e mentre prima ero preoccupato per l'avvenire dei miei figli, coetanei di Oscar, Edoardo e Valentina, oggi ho la consapevolezza che sarà più dura per il sottoscritto e per tutti quelli della mia generazione, abituati a giocare con il futuro in difesa, mentre i ragazzi lo attaccano.
Una foto dell'incontro di ieri
P.S. Non conosco chi sia l'insegnante che sta seguendo i ragazzi di "Yes we can work" ma bisognerebbe farle un monumento o quanto meno un articolo. Il post scriptum riguarda tuttavia un episodio che la dice lunga sul ruolo ribaltato. Dopo aver parlato con i tre ragazzi, io ho estratto dalla tasca il mio telefono e ho detto: "Bene, lasciatemi un contatto. Va bene la mail, Twitter, Facebook...". "Guardi - mi ha risposto serio e inappuntabile come un vero professionista Edoardo, con la sua giacca di taglio moderno e la camicia bianca - innanzi tutto le lascio il mio biglietto da visita" e zac, mi mette tra le mani un rettangolo nero con scritto in positivo nome, qualifica, mail, telefono... E io, che i bigliettini li dimentico sempre a casa e li ritengo inutili, mi sono sentito per un'istante fuori luogo ma non ho detto nulla perché in realtà mi veniva da abbracciarlo. Guardavo lui ma vedevo Giacomo, Giorgia, Giovanni, Alberto, Silvia, tutti i ragazzi che conosco e mi sentivo contento, sereno.


lunedì 23 febbraio 2015

No alla pizza nei capannoni (fate obiezione di coscienza)

Foto by Leonora
Il bello si nutre di bello ed per questo che siamo fortunati, abitando un Paese che da millenni lo crea, lo custodisce, lo affina.
Poi sono arrivati gli anni Sessanta e Settanta - quelli in cui tra l'altro sono nato e cresciuto - con una crescita rapida e smisurata, Faust che ha pagato dazio al proprio Mefistofele, ricevendo prosperità in cambio del brutto. Non c'è città, paese, quartiere, appezzamento, borgo esente da palazzoni grigi, da rappezzi osceni, da caseggiati smunti e magri, dove il buon gusto non trova spiraglio nemmeno a cercarlo con il lanternino.
Le cose oggi sono migliorate, non v'è dubbio, non tanto per la qualità, visto che certi obbrobri tuttora spuntano, bensì per la quantità, molto minore rispetto al passato, vuoi perché il suole disponibile è stato in gran parte occupato, vuoi per la crisi economica che spingi a comprare con giudizio.
E allora? Qual è la morale di questo discorso scontato?
Questa: io nelle pizzerie e nei ristoranti piazzati nei capannoni industriali non entro.
Chiamatemi snob (non lo sono), ditemi che sono uno con la puzza sotto il naso (se ce l'ho, non sono stato io), ridete di questa mia forma personalissima di resistenza civica, additatemi come un Don Chisciotte del calzone farcito, però manterrò fermo il mio proposito.
Datemi una trattoria in una bettola, una pizzeria in un buco, un'osteria piazzata in un vicolo senza ombra di parcheggio per un chilometro quadro, una tavola calda in un autogrill della Cisa, un piatto e posate di plastica alla festa del patrono, un bar senza coperto e con le sedie malmesse, persino un fast-food in una casetta tipo Lego nel parcheggio di un supermercato e non proferirò verbo, accettando qualsiasi invito o portandovi io.
Ma se mi accompagnate in uno di quei locali ricavati in un capannone rettangolare, prefabbricato, specie quelli arredati dentro in modo da fingere che invece sia uno chalet di montagna o una raffinata terrazza con vista sul lago, dovrò congedarmi in anticipo.
Di bello ci si nutre e io lì non digerisco. Punto.
P.S. Dedicato ai tanti amici (uomini e donne) architetti, ingegneri, geometri, periti edili, maestri del lavoro, capomastri, muratori, manovali: fate obiezione di coscienza anche voi. So che è dura, con la crisi che c'è, ma la Storia di questo paese ve ne renderà merito.

sabato 21 febbraio 2015

Il contagio del male (e come evitarlo)


Foto by Leonora
Ci sono uomini e donne che vengono abbattute dalle delusioni, dai torti, dai dispiaceri.
Altre invece che le trasformano in benzina, carburante per reagire, ripartire, rialzarsi più forti e determinati di prima.
E ci sono infine persone - la maggior parte credo - che stanno sul crinale, che vorrebbero usare dispiaceri, delusioni, torti subiti come leva, invece ne restano schiacciati o invischiati, rovinandosi la vita o per lo meno cancellando la serenità e dunque in qualche modo ingigantendo e amplificando gli effetti dannosi, il male che già di per sé, spoglio, è una ferita.
Non permettiamolo. Non lasciamo che la cattiveria diventi come la pioggia di oggi nei prati, penetrandoci a fondo, colmandoci il cuore fino a traboccare, occupando il posto che dovrebbe essere dei pensieri sereni, luminosi, positivi. Lo dico ad Isabella, che viene messa a dura prova in questi giorni, per vicende privatissime, ma lo ricordo soprattutto a me stesso.
La tentazione di reagire alla prepotenza con la prepotenza, di opporre all'offesa il dispetto, alla vigliaccheria lo sgarbo, il gesto vendicatore al colpo a tradimento è forte, seducente, normale direi. Mi è capitato cento volte e cento volte ho dovuto scegliere tra l'assecondare l'istinto, dare fuoco alla pira del risentimento, oppure farmi scivolare le cose addosso, ricordando il male subìto, ma senza assecondarlo. "Non diventerò come loro" mi ripeto in quelle circostanze, confidando che il fissare alle parole un proposito mi aiuti a scegliere la strada giusta, a serrare sì la mascella e stringere i pugni, ma per uscirne più forte, non per farmi trascinare a fondo (anche perché, nove volte su nove, chi provoca, offende e ferisce, in quel fondo si trova a suo agio e lì quasi sempre ha la meglio, mentre se portato in superficie, dove c'è aria, è come quegli organismi - anaerobi - vengono annientati, scompaiono).
Non diventerò come loro. Una consolazione niente affatto magra, perché è la stessa che quando poi al mattino mi guardo allo specchio o quando la sera appoggio la testa sul cuscino mi fa essere in pace con me stesso, mentre i prepotenti, i vigliacchi, i subdoli friggono e si consumano, impagati del male che hanno fatto e consapevoli di non avermelo neanche un po' trasmesso, infettato.

giovedì 19 febbraio 2015

Una sfumatura di grigio (la pornografia del cervello)

Foto by Leonora
A chi domanda come faccio a scrivere qui di vicende intime e personalissime, rispondo che questa è la parte più pubblica della mia vita meno privata. Sono sempre io, ma non tutto, soltanto una parte, quella che scelgo di esporre, omettendo le mancanze, le meschinità e le ombre che distinguono ciascun essere umano, me compreso.
È questa la ragione per cui quando qualcuno in buona fede eccede nei complimenti (“Come sono fortunate le persone che ti sono accanto!”) lo stoppo subito: non per falsa modestia, bensì con la consapevolezza di essere ben peggiore di come sembro, oppure migliore, visto che in genere diffido dei tipi troppo per bene, che sembrano usciti dalla casa del Mulino Bianco, lindi e splendidi, senza nemmeno un grammo di farina o una stilla di sudore, una macchia di sugo...
Del resto, basterebbe chiedere a chi mi è a fianco davvero – Isabella, mia madre, Giacomo, Giorgia, Giovanni… - per scoprire limiti e bassezze che stridono come unghie sul vetro e, se rese pubbliche, mi farebbero diventar paonazzo.
In queste settimane mi è capitato di dialogare con un paio di persone che esprimono anch'esse una parte di loro stesse, celandosi però con il velo dell'anonimato, per "appagare un po' di voglia di esibizionismo e provocazione" soprattutto. Di solito glisso e passo oltre, non perché sia un bacchettone, piuttosto poiché le carte scoperte sono l'unica condizione che pretendo per dare sincerità e riceverla indietro. Esistono tuttavia delle eccezioni che meritano, perché mi aiutano a comprendere non soltanto loro, ma anche me stesso.
A tali persone sono grato per tutte le volte che abbandonano le maschere e rivelano il lato più intimo, che non ha nulla a che vedere con un lembo di pelle nuda o con le fantasie piccanti, ma con l'essenza più vera di ogni essere umano, con il bisogno di entrare in relazione, di capire e capirsi, aprendo la testa, il cuore e null'altro. Una pornografia ben più potente di quella adesso a disposizione ad ogni ora del giorno e per qualsiasi gusto (tanto che persino lo scabroso non sa cosa inventarsi per recuperare un briciolo dell'interesse perduto).
Qui ci starebbe bene un bel "O tempora, o mores" sul bombordamento che subiscono ragazzi e adolescenti della Internet generation, a cui nulla è celato e che prima o poi dovranno fare i conti con questo eccesso di esposizione, a differenza di chi ha la mia età, per cui sbirciare un reggiseno sul Postal Market era un evento. Non lo farò. Non aggiungerò una riga per rimpiangere i bei tempi passati, che poi tanto belli nemmeno erano. Siamo campati noi con il gramo, camperanno pure loro con il molto, forse anche l'esagerato.
P.S. Una postilla, per "Porcellina premurosa" e "Meraviglioso padrone": tranquilli, non stavo parlando di voi.

mercoledì 18 febbraio 2015

La grande bolla (i debiti, i filibustieri e il sistema)

Foto by Leonora
Mai fermarsi nel mezzo, nel tennis come nella vita. C'è una lunga lista di saggi che lo consigliano (San Giovanni, ad esempio, nella sua Apocalisse, terzo capitolo, versetto 15: " Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca") e l'ho sperimentato più volte, sia sulla mia pelle sia osservando le cicatrici altrui, a volte spesse due dita.
Una regola che vale pure per l'economia spicciola, come mi ha spiegato Catia ieri sera, illustrandomi la sua ricetta per quanto riguarda i debiti. "Se devi farli - mi ha detto - fanne per importi giganteschi, perchè se fai così il problema non è più tuo ma della banca, che a questo punto ti darà tutta l'attenzione necessaria. I debiti piccoli invece ti mandano sotto i ponti. Se stai nel mezzo il sistema ti stritola".
Già, il sistema. E il buon senso? La ragionevolezza per cui meno danni faccio meno dovrei pagare? Nulla. Carta straccia, cenere al vento: le leggi della finanza somigliano poco a quelle delle natura ed esserne consapevoli, evitare di illudersi, scampa il pericolo, oltre a mettere il cuore in pace.
Comunque sia, non appartenendo io alla categoria dei filibustieri, l'alternativa si sbriciola e mi resta unicamente la via oculata e previdente della formichina, che rinunciando a molto non si fa mancare nulla.
(Qui ci starebbe bene una riflessione sull'importanza che diamo al denaro, ma sarebbe l'ennesima, senza aggiungere nulla di originale a ciò che ho già scritto altre volte. Ad esempio in un post di quattro anni fa, tuttora attuale, che avevo intitolato "Il valore dell'aria").

martedì 17 febbraio 2015

Il mondo di Agnese (contro la guerra)

Foto by Leonora
Oggi penso ad Agnese, che ha occhi furbi di bambina cresciuta presto e bene. Il mondo è suo e di Giovanni e di Gaia, Filippo, Marcello, Luca, Elisa, Alessandro, Cristiano, Giada, Martino, Giacomo... Il mondo è loro, anche se spesso ce ne scordiamo, dimenticando che nostro dovere non è semplicemente godercelo, ma consegnarlo, pulito, libero, in ordine, possibilmente migliore di come l'abbiamo trovato.
Non è facile, me ne rendo conto. A differenza dei nostri padri e del loro tempo in bianco e nero, abbiamo a che fare con ben più di cinquanta sfumature di grigio. Il bene e il male, il buono e il gramo, il bello e il brutto, le vittime e gli oppressori non sono distinti, facilmente riconoscibili, per cui gran parte dell'energia se ne va nel tentativo di rimanere lucidi, di distinguere le strada da intraprendere. Spesso non ci riusciamo e andiamo a tentoni, nel buio, affidandoci alle sensazioni pià che a delle certezze.
E' il dilemma di cui in principio degli anni Settanta scriveva Natalia Ginzburg ("I più vecchi di noi hanno ben chiara la memoria di un tempo non molto lontano in cui schierarsi da una parte o dell'altra e identificare nel mondo all'intorno il giusto e l'ingiusto era una cosa di una semplicità estrema. In quel tempo, l'immagine della verità era chiara, inconfondibile e incrollabile davanti a noi e si sapeva dove era situata. Mai avremmo pensato allora che ci potesse apparire un giorno segreta e sfuggente"). Un disorientamento - lo scrivo per mio figlio Giovanni, così sono certo che ci intendiamo - che è poi lo stesso di Capitan America, nel film "The winter soldier", quando si accorge che amici e nemici non hanno un volto chiaro, definito, riconoscibile, marcato.
P.S. In questi giorni, seppur velati e attutiti, si odono clangori di battaglia, con origine il Medio Oriente, l'Ucraina, la Libia e che tirano per la giacca noi. Anche in questo caso, il giusto e lo sbagliato non hanno contorni nitidi ed è per questo che se dovessi scegliere mi affiderei alla saggezza di Gianni Rodari e a una delle filastrocche che più amo:

Ci sono cose da fare ogni giorno:
lavarsi, studiare, giocare
preparare la tavola,
a mezzogiorno.
Ci sono cose da fare di notte:
chiudere gli occhi, dormire,
avere sogni da sognare,
orecchie per sentire.
Ci sono cose da non fare mai,
né di giorno né di notte
né per mare né per terra:
per esempio, la guerra


martedì 10 febbraio 2015

Immagini e parole (io, nel mezzo)

Foto by Leonora
"È un periodo della mia vita nel quale le cose mi consumano anzichè nutrirmi, e così anche per la scrittura". Lo dice un amico, una delle persone che più stimo e a cui sono legato, nel profondo.
Provo a riflettermi a specchio nelle sue parole, scoprendo che per me non è così, che anche nei periodi bui, quelli in cui il cielo non ha bordi ed è grigio, scrivere per me resta uno squarcio d'azzurro, un pozzo d'acqua miracoloso, perché attingo pure buttandoci le cose dentro. Posso astenermi, rimanere a lungo in silenzio, ma mai di fronte al bianco del computer acceso provo smarrimento. Semmai l'ostacolo è nel principio, nel mettere in fila le prime sillabe, poi procedo spedito.
Lo spunto, l'occasione, è tutto.
Anche perciò sono grato al lavoro che sto facendo e in particolare a uno dei progetti che seguo meglio. Si chiama Storylab, per ora è circoscritto a Bergamo e provincia, ma già così è fonte d'spirazione ricchissimo. Ne avevo già parlato (questo il post), la novità è che da un mese a questa parte c'è un blog ed è lì che in pratica ogni giorno mi cimento, proponendo una foto e appiccicandoci accanto un pensiero, di cui vado fiero, con l'incoscienza e la faziosità indulgente che ha un genitore di fronte alla creatura che porta in grembo. Una debolezza di cui chiedo scusa, ma senza rimorso. Delle molte tracce che lasciamo, nessuna delle quali destinata a durare in eterno, questa è tra quelle che mi fa sentire più utile, non un perditempo.
P.S. Per chi volesse appuntarselo, qui trovate tutti i post del blog di Storylab

venerdì 6 febbraio 2015

Quindici (auguri, Giorgia)

Foto by Leonora
Sei arrivata un mese prima, perdonerai il giorno di ritardo con cui ti scrivo, per ricordare i tuoi quindici anni, che cadevano ieri ma si sono rialzati subito, ironici e sorridenti come sai essere tu.
Ciò che dovevamo dirci ce lo siamo detti, ieri, con gli occhi soprattutto. Non te li ho regalati verdi, splendidi e un poco malinconici, come quelli della mamma. Assomigliano piuttosto ai miei, scuri e profondi, anche nel saper scrutare, guardare dentro se stessi e gli altri. Un dono che fa bene e male insieme, perché a volte si trova ciò che non piace, mentre di te mi piace tutto, persino le tue bizze, che riesco ancora ad ammansire, prendendoti per quel risvolto di bambina che oramai non sei più e che per me non svanisce mai.
Dettagli. Per raccontare il nocciolo di ciò che provo per te dovrei essere un pittore o un poeta, non sono né uno né l'altro e ti devi accontentare dei miei silenzi, di quegli istanti di sospensione del tempo in cui sgorga un bene sincero, puro, una scintilla d'amore sconfnato, un fuoco che scalda senza bruciare, dentro.
"Ti voglio bene" mi dici e io immancabilmente rispondo: "Vuoimene meno", scherzando pur dicendo il vero, storpiando l'italiano, non il senso. Un modo per difenderti, per impedire che il male dell'assenza possa un giorno ferirti, lacerarti come io sono stato lacerato, quando mi sono reso conto che nulla dura per sempre e le persone a cui tenevo di più mi avrebbero abbandonato. Non è così. Il tempo e l'esperienza mi hanno insegnato che nulla vive più a lungo di un attimo vissuto intensamente e coloro che amiamo restano sempre con noi, in ogni respiro che facciamo, non in una pallida idea, nel concreto. Un segreto che scoprirai da te, che non ho la pretesa di insegnarti, che lascio qui a futura memoria, uscita di sicurezza quando il dolore ti gonfierà il petto.
Posso permetterlo, avendo tu un carattere solare, allegro, forte persino, nonostante la tenerezza dei tuoi anni. La tristezza pare scivolarti addosso e anche questo è un dono ricevuto, avendo io fatto poco o nulla, se non arrabattarmi in qualche modo per garantirti quella serenità ch'è come l'acqua per i pesci, l'azzurro per il cielo.
Buoni quindici anni allora. Che siano capaci di sorprenderti, come tu hai sorpreso me, il sabato in cui sei nata, qualche settimana prima sul termine indicato per il parto, e a tenerti tra le braccia, così piccina, mi sentivo l'uomo più fortunato del mondo.