giovedì 1 gennaio 2015

Quattro tracce (per non smarrire il cammino)

Foto by Leonora
Sono fortunato e questo inizio d'anno l'ha confermato, trasformando alcune assenze (giustificate) in altrettante occasioni di incontro, in tavole allargate all'ultimo momento, in visite a sorpresa, gesti semplici, sorrisi spontanei, senza bisogno di infingimento.
Ogni anno è un mattone di vita che si aggiunge. Sta a noi far sì che sia utilizzato per issare muri oppure per allargare la campata di un ponte.
Nel mio caso vale ciò che congiunge ed è un'eredità che ho ricevuto, frutto di fondamenta antiche, non riguardanti soltanto il sottoscritto, ma generazioni intere e un popolo vasto, che in questa terra lombarda, italiana, ci ha preceduto e merita di essere ricordato.
"Cultura" sarebbe giusto definirla o "tradizione", se si preferiscono parole meno altisonanti e di significato egualmente profondo. Valori che - lo dico senza salire su un podio - andrebbero insegnati nello scuole o ancor meglio raccontati, lasciando alla narrazione un ruolo pedagocico spoglio da retoriche e leziosismo.
Ne lascio quattro tracce qua, svolgendo il mio compito di testimone, riportando ciò che io stesso ho ricevuto, affinché siano chiare a me, a chi mi vive accanto - parenti, amici, vicini di casa, concittadini, conoscenti e anche sconosciuti - e possano essere tramandate, evitando che l'inevitabile cambiamento comporti una perdita di ciò che dovremmo invece avere caro, assai più del potere, della fama, del denaro.
Se penso ai miei genitori, agli zii, ai nonni, ai loro coetanei, ai loro vezzi, alle abitudini di una classe sociale bassa ma dignitosa, distinguo nitidi alcuni stili di vita, di comportamento.
Il primo è l'attenzione ad evitare ogni spreco. Figli di un'era agra, essi badavano a non sciupare nulla, sia cibo, sia vestiti, scarpe, utensili... Abili ad aggiustare ogni cosa, è in cucina e conseguentemente a tavola che dimostravano attenzione, limitando all'osso gli avanzi e adoperando persino quelli, per nutrire quegli animali che nel ciclo della catena alimentare diventavano a loro volta nutrimento. Sorrido ora pensando alla raccolta differenziata, che altro non è di un ritorno alle origini, mentre mi intristisco quando noto l'esatto opposto, il buttar via senza ritegno, degenerazione dell'abbondanza, a calpestare anni, decenni, secoli di salita gradino su gradino. Ho in mente particolarmente mia zia Angelina, che riutilizzava le bustine del tè, venendo presa in giro da noi per quella sua esagerazione, che tuttavia traeva spunto da stagioni passate senza metter sotto i denti per giorni un boccone decente, andando a letto con i morsi della fame e ingurgitando di tutto pur di placare il borbottare dello stomaco. Meno drasticamente ricordo mia madre, che in pattumiera non ha mai gettato un pezzetto di pane o mio padre, che mangiava il grasso del prosciutto scartato dal sottoscritto e rosicchiava volentieri la carne che lasciavo attorno all'osso del pollo.
Il secondo è il senso di ordine, di pulizia, di decoro delle abitazioni, del giardino e anche dell'esterno, dei marciapiedi fronte casa e dello spazio pubblico limitrofo al proprio indirizzo. Augusto, il padre di alcuni tra i miei migliori amici, mi ha fatto sempre da esempio, ma potrei citare a memoria decine di uomini e donne di Lurate Caccivio - Gino, Luigi, Adele, Rosa... - che ramazzavano il cortile o il tratto di via a cui si accedeva dal loro portone.
Il terzo è un'innata propensione alla bellezza, smarrita a cavallo del Novecento, specie tra gli anni Sessanta e Ottanta, forieri di orribili case squadrate e elementi architettonici indegni di tal nome. Pure in quel tempo tuttavia un barlume di buon gusto si è conservato, forse perché secoli di "italianità" non si potevano cancellare del tutto e lo stile è ormai connaturato con questi luoghi e con chi vi abita. Un segno evidente c'è ad esempio nei giardini, nella disposizione di alberi ed arbusti, e persino nell'orto, in quella geometrica disciplina con cui vengono tuttora seminati ortaggi di ogni tipo. Vedere per credere il pezzo di terra che coltiva Sandro, a un passo da casa mia, oppure Giulio, il mio vicino, o ancora Ambrogio, così diversi dall'accozzaglia di certi spazi pubblici dati in concessione dal Comune e che non hanno né capo né coda, a dimostrazione che se un'arte c'era si è persa in troppi concittadini, sradicati in tutto e per tutto.
Il quarto è una disposizione naturale all'accoglienza, all'accettazione dell'altro, indipendentemente dalla condizione sociale, dal reddito. Mia bisnonna Lucia Baldelli in Bardaglio, ad esempio, era nota per non negare ad alcun vagabondo o mendicante o storpio una tazza di minestra, la stessa minestra che mangiavano loro, e un tozzo di pane, offrendo ospitalità nel fienile o d'inverno nella stalla, per dormire al caldo. Lo stesso faceva, poco lontano, il bisnonno di Isabella, "ul Nièl", e in ogni corte del paese, possiamo dire, c'era qualcuno che si incaricava di questo compito, una carità sostanziale, senza troppe domande, né lezioni di morale, così differente dalla pietà pomposa di parole e vuota di sostanza che offro in analoghe circostanze ora, io.

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