giovedì 29 gennaio 2015

Immaginazione (Il mare calmo dei pensieri fuggenti)

Foto by Leonora
Stamattina mi sono svegliato pensando a quanto poco do respiro alle mie capacità di immaginazione. Pur se credo di avere il dono di notare percorsi là dove altri gli ignorano, di creare ponti mentali, di unire puntini chiari al sottoscritto e che una volta divenute linee appaiono come disegni, figure nitide, distinte anche per chi mi sta accanto.
Queste però sono abilità da tecnico, mentre l'immaginazione è altro, è sprazzo di genio, talento d'artista: non soltanto vedere i puntini ma segnarli proprio, sollevarsi da sé senza bisogno di leve, avendo come unico appiglio l'orizzonte, il cielo.
Ci sono esseri umani che immaginando un mondo l'hanno creato, uomini e donne che ignorando la barriera dell'impossibile l'hanno superata.
Gli scrittori di fantascienza. Verne, Asimov... Ma anche gli sceneggiatori di Star Trek, una delle maggiori fucine di invenzioni (ogni volta che chiamo in causa Siri sul telefonino o sul tablet e attendo le sue traballanti risposte non posso fare a meno di andare con la mente a colui che il riconoscimento vocale l'ha pensato per primo). Gli inventori. Leonardo, con le sue macchine volanti. I grandi filosofi. Platone, Hegel.
Teste ispirate, che non coglievano soltanto l'intuizione: la coltivavano.
Lo scrivo qui per Barbara, che fa la maestra e conta trentanove alunni di sette anni, menti da aprire, come suggeriva Einstein, un altro cultore dell'immaginazione. E lo scrivo altresì per me, genitore esigente del fare (fai i compiti, fai bene a scuola, fai musica, fai ginnastica, fai calcio, fai catechismo, fai danza) e distratto se non ostile verso quei momenti in cui corpo e mente sembrano in stallo. Scordo facilmente che le scintille scoccano proprio lì, nel mare calmo dei pensieri fuggenti.
P.S. Per chi è curioso metto qui un articolo di Wired, con dieci retroscena gustosi su altrettante invenzioni.

venerdì 23 gennaio 2015

Diciotto (auguri, Giacomo)

Foto by Leonora
La notte in cui sei nato; il pianto che non arrivava; tua madre che ti teneva in grembo e sorrideva, il mattino dopo; la faccia di tuo nonno e gli occhi lucidi quando per la prima volta ti ha visto; la culla con il fasciatoio accanto, con una trapuntina patchwork sul blu; il primo bagnetto; la maglietta verdina di Winnie Pooh con la faccia davanti e la coda pon pon sulla schiena che ti aveva regalato Simona; la sera in cui avevi la febbre alta e hai perso conoscenza e io ero al Pianella a vedere una partita di coppa Korac di Cantù contro una squadra albanese; la sera di qualche mese dopo in cui l'episodio s'è ripetuto e io ero a casa perché Zambrotta esordiva in nazionale e dovevo scrivere un articolo per il Corriere di Como ma non l'ho mai scritto, perché hai smesso di respirare e sembravi morto e l'ambulanza non arrivava mai e stranamente non sono svenuto e poi quando finalmente ho sentito la sirena nel nostro cortile hai aperto gli occhi ed eri vivo; il primo giorno di asilo; il pomeriggio del tuo quarto compleanno, quando mi hai visto dall'altra parte della strada e all'improvviso ti sei divincolato dalla stretta di mano di tua mamma e hai fatto per attraversare la Varesina e ti sei fermato di colpo e a un centimetro del tuo naso è sfrecciato un camion a sessanta all'ora e tutto l'universo mi pareva avesse trattenuto per un istante il respiro (ho avuto allora la percezione esatta, certa, che l'angelo custode esistesse davvero); le innumerevoli visite al Pronto soccorso per tagli, zecche, bronchiti; le tue gambe ad archetto che sembravi John Wayne a cavallo, mentre oggi sono dritte come un fuso; la gallina che hai lanciato facendo canestro, in giardino (deve esserci ancora da qualche parte il video); la camicia scozzese di flanella e la foto con il nonno, in Valtellina, al Prato Maslino; la tua passione di cercatore di funghi; le moltissime sere trascorse al circolo delle bocce, sempre con il nonno, e i gelati e la gazzosa che ti facevi comprare ogni volta; la prima gita che hai fatto senza di noi, a Grosio, con Angelo e Raffaele e rispettive famiglie e ci hanno telefonato a mezzogiorno dicendo che c'era stato un piccolo guaio e alla sera sei tornato con il braccio ingessato, dopo averlo rotto cadendo da un masso; le mille costine che hai mangiato, spolpandole fino all'osso; i mille Magnum ma sottomarca Bennet - all'anno - che ti sei sbafato e che ti sbafi tuttora, con una media di tre al giorno; i mille barattoli di Nutella, anch'essi divorati in prevalenza sul divano; la mille partite a pallone; la vittoria del torneo di Lurate del Csi; il trofeo come miglior giocatore al torneo di Cirimido; i campionati alla Faloppiese; la prima e unica volta in cui hai detto una parolaccia in campo (eravamo a Legnano, ci rimasi malissimo, l'arbitro ti ammonì e da allora sei tornato a essere quasi un lord, in campo); la semifinale del Gianni Brera a Cantù, che per me resta la tua partita migliore, perché trascinavi tutto il gruppo; le tue lacrime trattenute dopo il campionato perso all'ultima giornata, lo scorso anno, con il Parè; i film visti insieme; le puntate del tuo programma preferito, DeeJay chiama Italia in tv; l'ammirazione per Sconcerti e i racconti di Buffa; tutte le partite viste in tv della Juventus; la gare dal vivo allo Juventus Stadium; la gita soli, io e te, a Madrid, e la visita al Santiago Bernabeu; le delusioni del Terragni; la maturità con cui hai affrontato quelle delusioni e ne sei uscito più forte, migliore, maturo; le tue decine e decine di amici; gli auguri che ti hanno fatto, oggi; il carattere che hai, solare, aperto; l'educazione e quel tuo salutare sempre tutti, per primo; la richiesta che a casa nostra, a tavola, si pranzi o si ceni sempre con qualcuno, parenti o amici che siano; la tua faccia triste ai funerali dei nonni; le discussioni di politica e la tua pacatezza, non disgiunta dall'entusiasmo e dal credere fortemente che le cose possano cambiare, nonostante il vecchio, il marcio; i quattro o cinque episodi che indirettamente mi hanno fatto capire che potevo fidarmi di te, che non ti fai facilmente trascinare dagli altri, che sei dolce ma altrettanto inflessibile quando ti impunti; l'ingenuità e il senso di colpa per sbagli che fanno tutti anche se tu non lo sai; le discussioni con tua madre, quando rispondi indolente e lei giustamente va in bestia e io non prendo mai abbastanza la sua parte perché in fondo penso che sei già bravino e poteva andarci peggio; il vederti crescere così alto, robusto; le risate; soprattutto le risate, limpide, squillanti, quella voglia e quel gusto di ridere, senza preoccupazioni, senza tempo...
Oggi compi diciott'anni Giacomo e per quanto mi sforzi di ricordare i momenti belli trascorsi insieme sono troppi, così come troppe sono le raccomandazioni che vorrei farti. Rinuncio in partenza, evitando di ribadire ciò che già sai e che le parole d'altra parte non possono esprimere compiutamente. Averti, vederti crescere, insieme ai tuoi fratelli, è un privilegio, oltre che il dono più bello che abbia mai ricevuto. E lo è ancora di più perché pur intuendomi radice sento che sei altro da me, un essere inimitabile, unico.
Che la vita sia generosa con te, ma che tu sappia sorridere anche nei tempi grami, che certo arriveranno, senza spezzarti, se saprai restare un po' del bambino che eri pur diventando un uomo.

martedì 20 gennaio 2015

Purezza (Si sta come del limone nel microonde le scorze)

Foto by Leonora
Purezza. Un concetto che Francesco Piccolo nel libro "Il desiderio di essere come tutti" prende a pretesto per parlare di sè, di noi, di una parte consistente della generazione a cui appartengo, divisa in due come una mela: con me o contro di me, senza spazio di tollerenza alcuna, dallo sport alla politica.
Una questione di appartenenza e di esclusione, in cui il dettaglio (simpatizzare per la sinistra o votare per Berlusconi, ad esempio; considerare l'immigrazione una sciagura o una risorsa; tifare Juventus o credere che calciopoli sia ancora attuale...) smette di essere una parte e diventa totale, classificatorio, discriminante.
Un etichettamento seducente quanto contradditorio e pericoloso, a cui io stesso devo prestare attenzione, per non restarne invischiato. Mi aiutano a non cadere in tentazione la consapevolezza dei miei torti e la vicinanza di persone, amici compresi, che su alcuni argomenti hanno posizioni distanti anni luce dalle mie, mentre per il resto sono uguali o persino migliori. Sono loro che mi ammaestrano, come la volpe con il piccolo principe, evitando che la virtù del (presunto) giusto sfoci in un vizio.
Non so perché sono arrivato a scrivere questo. Ero partito con il proposito assai meno ambizioso di raccontare un episodio domestico, una scoperta da nulla, che sul Giorgio di un anno fa sarebbe scivolato via invece al Giorgio che sono diventato pare d'un certo rilievo.
Occorre tuttavia un preambolo. Da qualche mese, per non fare tutti i giorni avanti e indietro da Bergamo, mi fermo qui, in due locali che mi fanno da appartamento e che sono diventati per me casa e tana, in tutto e per tutto. Così io, che fino a settembre non svuotavo nemmeno il sacchetto dell'immondizia e guardavo il fornello come un curioso strumento alieno, ora mi rifaccio il letto, ogni dieci giorni cambio le lenzuola, tengo in ordine il bagno, lavo i piatti, talvolta cucino... Sì, cucino. Per lo più scaldo vivande, ad essere onesto. Con la conseguenza per me insopportabile dell'odore di cibo che poi rimane, a volte pure dopo aver tenuto le finestre spalancate lungo tempo. Ebbene, oggi, con un'alzata d'ingegno degna di mastro Lindo ho risolto brillantemente la questione, prendendo un bicchiere d'acqua, immergendoci la scorsa di mezzo limone e facendo bollire il tutto. Tre minuti di micronde e già dopo una manciata di secondi sembrava di essere a mezza costa, sul mare, in mezzo a un agrumeto. E' purezza anche questa, dell'aria che respiro (e così mi sono ricordato il motivo per cui avevo iniziato questo post, mi sto ingentilendo ma non sono rincitrullito proprio del tutto).

giovedì 15 gennaio 2015

Il presidente che vorrei

Foto by Leonora
Il presidente della Repubblica che vorrei è un'idea, mentre io preferisco le persone, con tutti i loro limiti e orizzonti, capaci di errori, riconoscendoli, e di gesti nobili, senza vantarsene troppo.
Tutti fanno identikit in questi giorni e la tentazione ce l'ho anch'io. Vorrei ad esempio che avesse l'intelligenza e la competenza del mio amico Angelo, che è come Wolf e risolve problemi, ma non della gente che spara, bensì delle aziende in crisi, tagliando ciò che deve essere tagliato e salvando il salvabile. Cinquant'anni tra l'altro li compirà tra una settimana dunque avrebbe pure i requisiti per essere eletto (io l'imbeccata l'ho data, non dite che non faccio proposte di alternativa democratica). Non mi dispiacerebbe altresì che il prossimo presidente fosse una donna (e qui Angelo, lo ammetto, latita) perché negli anni ho imparato a non fare differenze ma delle differenze ci sono, delle pecularietà che noi maschi non abbiamo, mentre nel genere femminile abbondano. Alcuni hanno un'accezione poco positiva. Per dire: una certa tendenza alla pignoleria, e una propensione alla buona memoria che in certi casi ostacola il perdono, che invece è fatto anche di questo, di svagatezza, di una distrazione sana. In compenso il più delle volte dimostrano una serietà e un'integrità che io mi sogno, al pari di una disposizione a "mandare avanti le cose", facendo di necessità virtù.
Sull'età non ho riserve, poiché ammiro la saggezza portata in dote dalla vecchiaia e al tempo stesso il coraggio ai limiti della sfrontatezza che viene dall'inconscienza di chi è giovane, di chi non si è scottato mettendo le dita sulla stufa, di chi non sa che quella cosa è impossibile e la fa. Non ho riserve sull'età, piuttosto un desiderio contingente: reduce dai Ciampi e dai Napolitano, se fosse un "cinquantino" - per dirla con Camilleri - preferirei (Angelo li compie settimana prossima: si è capito?).
Il carattere, quello sì, un presidente deve averlo. Non brutto. Schietto. Sincero, di parola, coerente senza essere ottuso, che sia disposto ogni tanto a chiudere un'occhio e abbia in casi estremi il volo alto del ripensamento. E che sia l'incarnazione del senso dello Stato. Non della ragione di Stato, del senso: di un bene più grande di ogni singolo individuo ma proprio per questo incapace di ignorare la libertà, la sicurezza, la felicità di ciascun cittadino, non come entità astratta, bensì con un nome e cognome, Alberto, Ludovico, Anna, Spreafico, Colombo, Caruso, uomo, donna, bambino.
Ma se c'è una caratteristica che proprio dovrebbe avere, che se mancasse sarebbe un disastro, è questa: essere il presidente di tutti. Non di una parte, neanche della migliore o di quella che pensa di essere tale o che tale reputo io. No. Dovrebbe essere una persona a cui l'avversario, qualunque avversario, o chi semplicemente la pensa diversamente da lui, non fa schifo.
Sarebbe già sufficiente questo. Sempre che non vogliano eleggere Angelo.

martedì 13 gennaio 2015

Ottocento (e dimenticarseli quasi tutti)

Foto by Leonora
Ottocento. Anche se visibile ce n'è qualcuno meno. Con questo sono ottocento i post che ho scritto, dal primo ottobre del 2007 ad oggi, quasi duemila giorni, una media di un post ogni due giorni e mezzo, sedicimila righe in tutto se avessi tenuto fede al titolo del blog, in realtà molte di più, poiché non di rado tradisco il motto iniziale e vado lungo.
Tantissimo, visto da quassù, una pigna di parole da far spavento, anche se mica mi sono accorto di avere prodotto tanto e mi stupisco ogni volta che incappo in ciò che avevo messo nero su bianco tre o quattro anni fa o anche il mese scorso.
"Ma è possibile che l'abbia scritto io?". Una sensazione da straniero a casa propria che dà la misura di un esperimento riguardante la memoria umana e la percezione del cambiamento.
E' raro, per non dire impossibile che rinneghi qualcosa, anzi, in tutti i passaggi noto un'impronta digitale unica, personalissima, mia, eppure al contempo, scopro un tratto di me diverso, che avevo dimenticato. Credo che tutto ciò abbia a che fare con l'originalità dell'atto creativo ma è un'intuizione che andrebbe sviluppata e mi porterebbe lontano, mentre io vorrei fermarmi qui, adesso.
Ottocento post. Un blog cominciato per il desiderio di cambiare, di stare al passo con i tempi, di migliorare nel mio mestiere, pian piano trasformandosi in una sorta di diario, di taccuino per gli appunti, a futura memoria dei pochi intimi interessati alla mia persona e a un punto di osservazione da questo angolo di mondo.
Se mi ostino a continuarlo è per almeno tre ragioni. La prima è il bisogno quasi fisico di un filo d'Arianna che sappia cucire le varie esperienze di vita e lavorative che mi riguardano. La seconda è il piacere di condividere qualcosa di personale, un sorta di anelito alla socialità dell'orso. La terza consiste nell'opportunità di smentire un fatto altrimenti acclarato, cioè il mio essere assai scostante, essendo questa la prova provata che in un aspetto almeno sono capace di tenere duro, maratoneta della memoria, seppur in formato Lilliput.
P.S. I post non sono visibili sono una dozzina. Alcuni tra questi - ad esempio quelli riguardanti la solitudine, le incertezze dei momenti bui, la vicinanza di certi amici - diventeranno pubblici tra qualche tempo, quando gli anni saranno barriera sufficiente per non mettermi in imbarazzo. Altri invece non li pubblicherò mai, poiché li ho buttati giù di getto, come sfogo, per un torto subito, e anche tra dieci o vent'anni metterebbero in imbarazzo le persone di cui ho scritto. Incapace di covare rancore, sono orgoglioso di riuscire tuttora a provare pudore.
P.P.S. Questo è il post in assoluto più letto.

lunedì 12 gennaio 2015

Il milite noto (del senso civico)

Foto by Leonora
L'ultima riga delle favole è più scontata della penultima dei fatti di cronaca, che vanno raccontati fino in fondo, altrimenti prendere abbagli è un lampo.
Due settimane fa correvo lungo una via sterrata dietro casa e come al solito provavo un misto di rabbia e desolazione notando l'abitudine di qualche incivile, che abbandona ogni sorta di rifiuto al bordo della strada, rivelando un disprezzo per la natura e per la civiltà pari soltanto all'ignoranza dimostrata. Quel giorno però, in lontananza, c'era pure un'auto accostata sul ciglio della carreggiata e un signore con un sacco in mano, così aumentando il passo e sbuffando quando un toro che vede rosso pensavo: "E vai! 'Mo l'ho beccato!". Becato un cavolo. Era infatti una persona che conosco, che abita a mezzo chilometro da lì e che aveva deciso spontaneamente di passare la mattinata ripulendo e riparando il danno che essere meschini fanno.
Un errore di valutazione commesso non soltanto dal sottoscritto. Un'ora più tardi, tornando sui miei passi, quell'uomo stava ancora facendo pulizia mentre un signore anziano con giacca di montone, cappello e due nipotini per mano si accalorava, urlando e inveendo ("Si vergogni!!!") prima di rendersi anch'egli conto che colui con cui se l'era presa era un angelo, non il diavolo. Nello stesso fraintendimento è occorso pure un amico, che nel pomeriggio, notando la pigna di immondizia più alta del solito e non sapendo cosa fosse accaduto ha postato una foto su Facebook commentando: "Che tristezza".
Che tristezza, è vero, ma pure un cuore sollevato per l'impegno di quel cittadino, milite ignoto ai più ma non al sottoscritto, che gli è grato per aver dimostrato nei fatti ciò che nei giorni scorsi ho riportato a parole sul senso civico, sul gusto disinteressato per l'ordine, per il decoro, la pulizia.
Non credo si tratti di un eroe, bensì di un cittadino normale, come ce ne sono molti, ed è proprio per questo che l'episodio non va passato sotto silenzio. Come sostiene caparbia Isabella, ciascuno di noi può far qualcosa ed è così che il paese diventa comunità, un luogo migliore dove vivere, nonostante tutto.
P.S. Il nome e cognome della persona che si è preso cura della via è Domenico Agostinacchio. Gli sia dato merito.

venerdì 9 gennaio 2015

Onorina (a ciglio asciutto)

Foto by Leonora
La telefonata è arrivata inaspettata, perché se è vero che da un anno era costretta su una carrozzina e aveva perso lucidità, non c'erano aggravamenti che indicassero un peggiormento estremo.
Onorina Bongiolatti in Bardaglio, vedova dello zio Lino e ultima di una stirpe coriacea quanto antica, è morta ieri, in casa di sua figlia Luisella e di suo genero Basco, in quel Berbenno di Valtellina dove era nata e infine è tornata, per l'ultimo tratto di cammino.
L'ultima volta che l'ho vista, qualche settimana prima di Natale, non mi aveva riconosciuto, conservando tuttavia quel modo di osservarmi di sguincio, con occhi furbi, come colei che sta soppensando chi ha di fronte, comunicandogli nel contempo che chi sta guardando non è affatto stupido. Uno sguardo di attacco e difesa insieme, che le ho visto fare mille volte, specialmente quando ero piccolo e mio padre tornava ogni giorno nella casa di famiglia per prendere il bottiglione di latte appena munto e lasciato su un tavolo appena fuori dalla stalla e lei, la zia Onorina, mia prozia per la verità, se ne sbucava fuori di soppiatto, tirando fuori dalle tasche del suo grembiule azzurro con fiorellini bianchi un uovo, ancora caldo. Me lo dava dicendo "apri le mani" e osservandomi con quegli occhi d'arguzia, come se in quello scambio vi fosse un'intesa, un patto.
Amava gli animali, la zia Onorina, pur se non esitava a tirar loro il collo, quando giungeva il momento. Nata a metà degli anni Venti e cresciuta nel gramo, apparteneva a quella generazione in cui la necessità faceva premio sul sentimento. Il suo pollaio è sempre stato una meraviglia, così come le gabbie dove teneva i conigli o il porcile dove, fino a non molti anni fa, ingrassava il maiale, per non parlare dell'orto e della piante da frutto, che grazie alle sue cure erano rigogliose e d'una generosità senza confronto.
Per quanto mi riguarda la ricorderò sempre con quel suo grembiule azzurro punteggiato di fiorellini bianchi, seduta sotto il salice piangente, all'angolo della corte, mentre tiene in grembo un gatto. Da ieri Onorina è tornata lì, tra le persone che ha amato o comunque del suo mondo, com'è giusto che sia. Ed è così che la saluterò, domani - il giorno del settimo anniversario della morte di mio padre - al suo funerale, in Valtellina, senza sceneggiate, a ciglio asciutto, come avrebbe voluto.
P.S. La foto che vedete non è di Onorina, ma il gatto poteva essere suo.

giovedì 8 gennaio 2015

Charlie Ground

Foto by Leonora
Si dice che siamo tutti Charlie, ma non è vero. Non lo siamo o lo siamo in modo ipocrita quando per timore delle conseguenze non difendiamo ciò in cui crediamo, quando per opportunismo scegliamo la via comoda, quando alla brutalità, invece dell'ironia o anche del sarcasmo sferzante di una battuta, opponiamo la medesima violenza.
Non siamo tutti Charlie. Loro lo erano e sono morti per questo. Un martirio che è nostro dovere rispettare, evitando il fuoco di paglia delle reazioni isteriche e attuando un cambio di stile vero, riconoscendo il male ovvero ciò che sporca, divide, divora, scinde, macchia, soffoca, uccide. Ed evitandolo.
Alle analisi frettolose, ai giudizi lapidari, al desiderio di crociata e a quello di jihad, ("Non c'è niente di intelligente da dire a proposito di un massacro", è una frase di Kurt Vonnegut, ringrazio Luca Corsolini per avermela ricordata) preferisco l'azione mite del fare memoria. Raccontare con onestà quanto avvenuto a Parigi e che ogni giorno accade in qualche parte del mondo, è una sorta di fotosintesi clorofilliana sociale, l'azione capace di trasformare qualsiasi anidride carbonica in ossigeno.
P.S. La penna non vince sulla spada quando si alza verso il cielo, bensì quando scrive, quando lascia sulla carta e nell'anima un segno, un tratto. Un articolo che esprime gli stessi concetti di questo post, meglio, è questo, di Fabio Chiusi, su Wired. E aggiungo pure l'editroriale sull'Eco di Giorgio Gandola, un giornalista che stimo, perché sa scegliere sempre le parole giuste, senza mai andare sopra le righe

domenica 4 gennaio 2015

La quinta traccia (disciplina e lavoro)

Foto by Leonora
Abitudini, stili di vita, tradizioni che appartengono a chi mi ha preceduto, di cui sono testimone diretto e che meritano di essere tramandate, per ricordare chi siamo, la radice da cui proveniamo.
Quattro esempi li ho già fatti l'altro giorno, oggi ne aggiungo un quinto: la disciplina del lavoro.
Potrei citare i miei genitori, che non si curavano particolarmente del rendimento scolastico, ma erano irremovibili sul fatto di non farmi saltare le lezioni. "Io vado a lavorare, tu vai a scuola. Punto" sosteneva mia madre, incurante delle mie lamentele per presunti mal di pancia mirati a saltare qualche interrogazione o un compito in classe. Pure le rare volte in cui la sceneggiata riusciva benissimo e potevo restarmene a letto il suo rammarico era tale che mi condizionava, facendomi sentire un poco di buono, impedendomi di gustare quella vacanza inaspettata, inducendomi ad evitare un tale espediente meschino nei mesi a venire.
Potrei ricordare Ambrogio, il socio di mio padre, che si ostinava a guidare il camion e a caricare e scaricare rottami anche con il piede ingessato o con le gambe ustionate dall'acido. Mio padre stesso in un solo giorno riusci a tagliarsi un polpaccio, andare al pronto soccorso, farsi dare una quindicina di punti di sutura, tornare a casa, dare una mano al suddetto Ambrogio, che fece improvvidamente cadere un ferro, che colpì mio padre al capo, così da doverlo far tornare per altri sette punti al pronto soccorso (avrò avuto quindici anni ed era estate, per cui al pomeriggio andavo all'oratorio ma al mattino ero con loro e ricordo nitidamente l'espressione del medico che ci accolse per la seconda volta esclamando sbalordito: "Ma come? E' ancora lei?").
Mio padre non era un eroe e neppure Stakanov. Semplicemente funzionava così.
Il papà della mia amica Anna, che faceva il barista, sei giorni su sette si alzava all'alba e tornava a casa che era sera da un pezzo. Così Angelo, che ha dato i natali a Stefania e Antonello e aveva un distributore di carburante a Lipomo.
Non era una prerogativa di chi lavorava in proprio, pure i dipendenti erano della stessa pasta, sia nel privato, sia nel pubblico. A Lurate ad esempio c'era una maestra elementare, Daniela Ortelli, che abitava sul lago, ad Argegno, e non mancava mai un giorno: persino quando nevicava forte, chissà come, lei era sempre puntuale, imperturbabile come Mary Poppins quando arriva con l'ombrello.
Potrei continuare a lungo, mi fermo qua, poiché ciò che volevo dire (e far capire) l'ho già detto.
Mi preme soltanto aggiungere che pur se quel senso del dovere in troppi casi si è smarrito, in molti è tuttora presente, anche se fanno più notizia gli sciagurati otto vigili ogni dieci che a Roma danno forfait per malattia la notte di Capodanno e gli altri mille casi di "lavativismo" cronico.
A Natale, ad esempio, mio cugino Fabrizio è arrivato leggermente tardi al pranzo in famiglia, poiché invece di addentare lui qualche prelibatezza era stato a sua volta morso, al braccio. Cose che capitano quando si fa l'operatore socio assistenziale e si lavora con ragazzi problematici, ma dopo esser stato medicato, senza fare drammi ha finito il turno e il giorno dopo si è regolamente presentato. L'ha fatto senza fanfare, né pretendendo che gli fosse appuntata una medaglia al petto, semmai in silenzio e con un filo di ironia, come avrebbe fatto suo padre e prima ancora nostro nonno, non per costrizione, per paura o per brama di denaro, bensì per senso del dovere, qualcosa di innato. Un'etica potrei anche definirla, che prescinde la punizione per chi non la rispetta e riguarda più la coscienza, lo stare in pace con se stessi, il sentirsi "a posto". Una moneta che non ha prezzo ma per chi la possiede vale moltissimo.

giovedì 1 gennaio 2015

Quattro tracce (per non smarrire il cammino)

Foto by Leonora
Sono fortunato e questo inizio d'anno l'ha confermato, trasformando alcune assenze (giustificate) in altrettante occasioni di incontro, in tavole allargate all'ultimo momento, in visite a sorpresa, gesti semplici, sorrisi spontanei, senza bisogno di infingimento.
Ogni anno è un mattone di vita che si aggiunge. Sta a noi far sì che sia utilizzato per issare muri oppure per allargare la campata di un ponte.
Nel mio caso vale ciò che congiunge ed è un'eredità che ho ricevuto, frutto di fondamenta antiche, non riguardanti soltanto il sottoscritto, ma generazioni intere e un popolo vasto, che in questa terra lombarda, italiana, ci ha preceduto e merita di essere ricordato.
"Cultura" sarebbe giusto definirla o "tradizione", se si preferiscono parole meno altisonanti e di significato egualmente profondo. Valori che - lo dico senza salire su un podio - andrebbero insegnati nello scuole o ancor meglio raccontati, lasciando alla narrazione un ruolo pedagocico spoglio da retoriche e leziosismo.
Ne lascio quattro tracce qua, svolgendo il mio compito di testimone, riportando ciò che io stesso ho ricevuto, affinché siano chiare a me, a chi mi vive accanto - parenti, amici, vicini di casa, concittadini, conoscenti e anche sconosciuti - e possano essere tramandate, evitando che l'inevitabile cambiamento comporti una perdita di ciò che dovremmo invece avere caro, assai più del potere, della fama, del denaro.
Se penso ai miei genitori, agli zii, ai nonni, ai loro coetanei, ai loro vezzi, alle abitudini di una classe sociale bassa ma dignitosa, distinguo nitidi alcuni stili di vita, di comportamento.
Il primo è l'attenzione ad evitare ogni spreco. Figli di un'era agra, essi badavano a non sciupare nulla, sia cibo, sia vestiti, scarpe, utensili... Abili ad aggiustare ogni cosa, è in cucina e conseguentemente a tavola che dimostravano attenzione, limitando all'osso gli avanzi e adoperando persino quelli, per nutrire quegli animali che nel ciclo della catena alimentare diventavano a loro volta nutrimento. Sorrido ora pensando alla raccolta differenziata, che altro non è di un ritorno alle origini, mentre mi intristisco quando noto l'esatto opposto, il buttar via senza ritegno, degenerazione dell'abbondanza, a calpestare anni, decenni, secoli di salita gradino su gradino. Ho in mente particolarmente mia zia Angelina, che riutilizzava le bustine del tè, venendo presa in giro da noi per quella sua esagerazione, che tuttavia traeva spunto da stagioni passate senza metter sotto i denti per giorni un boccone decente, andando a letto con i morsi della fame e ingurgitando di tutto pur di placare il borbottare dello stomaco. Meno drasticamente ricordo mia madre, che in pattumiera non ha mai gettato un pezzetto di pane o mio padre, che mangiava il grasso del prosciutto scartato dal sottoscritto e rosicchiava volentieri la carne che lasciavo attorno all'osso del pollo.
Il secondo è il senso di ordine, di pulizia, di decoro delle abitazioni, del giardino e anche dell'esterno, dei marciapiedi fronte casa e dello spazio pubblico limitrofo al proprio indirizzo. Augusto, il padre di alcuni tra i miei migliori amici, mi ha fatto sempre da esempio, ma potrei citare a memoria decine di uomini e donne di Lurate Caccivio - Gino, Luigi, Adele, Rosa... - che ramazzavano il cortile o il tratto di via a cui si accedeva dal loro portone.
Il terzo è un'innata propensione alla bellezza, smarrita a cavallo del Novecento, specie tra gli anni Sessanta e Ottanta, forieri di orribili case squadrate e elementi architettonici indegni di tal nome. Pure in quel tempo tuttavia un barlume di buon gusto si è conservato, forse perché secoli di "italianità" non si potevano cancellare del tutto e lo stile è ormai connaturato con questi luoghi e con chi vi abita. Un segno evidente c'è ad esempio nei giardini, nella disposizione di alberi ed arbusti, e persino nell'orto, in quella geometrica disciplina con cui vengono tuttora seminati ortaggi di ogni tipo. Vedere per credere il pezzo di terra che coltiva Sandro, a un passo da casa mia, oppure Giulio, il mio vicino, o ancora Ambrogio, così diversi dall'accozzaglia di certi spazi pubblici dati in concessione dal Comune e che non hanno né capo né coda, a dimostrazione che se un'arte c'era si è persa in troppi concittadini, sradicati in tutto e per tutto.
Il quarto è una disposizione naturale all'accoglienza, all'accettazione dell'altro, indipendentemente dalla condizione sociale, dal reddito. Mia bisnonna Lucia Baldelli in Bardaglio, ad esempio, era nota per non negare ad alcun vagabondo o mendicante o storpio una tazza di minestra, la stessa minestra che mangiavano loro, e un tozzo di pane, offrendo ospitalità nel fienile o d'inverno nella stalla, per dormire al caldo. Lo stesso faceva, poco lontano, il bisnonno di Isabella, "ul Nièl", e in ogni corte del paese, possiamo dire, c'era qualcuno che si incaricava di questo compito, una carità sostanziale, senza troppe domande, né lezioni di morale, così differente dalla pietà pomposa di parole e vuota di sostanza che offro in analoghe circostanze ora, io.