mercoledì 31 dicembre 2014

Il dono più bello (fatto e ricevuto)

Foto by Leonora
Pèrdono e perdóno: in un accento tutta la differenza del mondo. Lo sperimento ogni volta che nei rapporti umani scelgo le forbici che recidono o la leva che divarica invece delle asole che ricuciono, uniscono.
È così che tutti pèrdono, io per primo, mentre accade il contrario quando scelgo il perdóno, cioè un gesto di bene assoluto, incondizionato, che spazza via malintesi, fraintendimenti e mancanze.
Un gesto deciso, risoluto, opposto alla contabilità minuta di torti e ragioni, che ha il vantaggio di poter esser fatto d'impeto, come quando si salta in mare da uno scoglio o in piscina, dal trampolino.
Possiamo infatti trascorrere giorni e notti e mesi, in qualche caso addirittura anni, covando un rancore o alimentando un cruccio, mentre basta un istante per gettarsi tutto alle spalle e ricominciare da capo.
Quell'istante potrebbe essere oggi, sfruttando l'occasione della festa, del cambio tra l'anno vecchio e il nuovo, per tendere la mano, per preferire l'abbraccio alle distanze, una parola dolce al silenzio.
P.S. Non esistono persone perfette né famiglie modello. Nei giorni scorsi, ad esempio, casa mia è stata tutta un risonar di sciabole e di silenzi, pesanti quanto piombo. Ringrazio chi infine mi ha abbracciato, nonostante tutto, dimostrando nei fatti ciò che qui ho soltanto scritto.

mercoledì 17 dicembre 2014

I bambini lo sanno (e noi pure)

Foto by Leonora
C'è una lettura che mi regalo spesso, un blog di un giornalista che fa onore a questo mestiere, rendendolo attuale al di là di ogni crisi, contratto o posto fisso e rassicurandomi sul fatto che i giornali - a prescindere da dove li leggeremo - esisteranno a lungo. Si chiama Alessio Brunialti, ogni giorno scrive sulla Provincia di Como e questa mattina, questa notte meglio, visto che non erano ancora le quattro, ha pubblicato un articolo che merita di essere condiviso. Lo trovate cliccando qui e non occorre che aggiunga altro, se non le parole con cui lui stesso lo ha presentato: "Buongiorno, oggi invece di cercare (invano) di strapparvi un sorriso, m'è scappato uno spunto di riflessione serio. Me ne scuso anticipatamente con chi, di mattina, vuol solo rilassarsi e anche con tutti quelli che non vogliono riflettere mai".

martedì 16 dicembre 2014

Educare al bello (eleganza, stile, fascino e dintorni)

Foto by Leonora

Ho sempre ritenuto la bellezza un dono ricevuto, mentre lo stile, il fascino, l'eleganza caratteristiche connesse alla cultura, agli ideali di riferimento, al contesto in cui si cresce e che creiamo, dunque che si potessero "costruire". Un dilemma che ha diviso nel corso dei secoli parecchi filosofi, sociologi, studiosi del comportamento umano, scrittori e registi (compreso un film che sotto Natale viene riproposto spesso, "Una poltrona per due") e su cui ho poche certezze anch'io. Specialmente dopo esser stato messo alla prova, qualche giorno fa, grazie a diversi pareri raccolti su Facebook.
In particolare hanno marcato una differenza Lara ("Lo stile te lo puoi anche creare, ma l'eleganza e il fascino sono doti innate. Nessuno può imparare e insegnare il fascino perché se lo hai non ne sei nemmeno conscio, in quanto è un'aura che diffondi e solo chi ti sta attorno percepisce), Mariagrazia , Elda, Marianna, Patrizia, Oriana ("Il fascino è innato, è qualcosa che attrae come una calamita già da quando sei piccolo e non scompare con l'avanzare dell'età), Grazia ("L’eleganza ce l’hai o no, puoi costruirla ma non ha lo stesso risultato. Lo si nota camminando per le strade, in qualsiasi ambiente, le persone si assomigliano tutte, e come vedere una bellissima cucciolata di cagnolini, li guardi e tra tanti noti quello più prepotente o più simpatico") e Silvia ("Forse un po' di eleganza la puoi "imparare" ma, essendo uno stile di vita e di comportamento, è difficile... nasce da una lavoro di ricerca interiore. Il fascino è una malia, un modo di guardare, di camminare, un gesto. Impossibile definirlo ma certamente è tale proprio perché istintivo e quindi assolutamente spontaneo").
 Altri invece sono d'accordo con la tesi iniziale. In particolare Lisa ("L'eleganza è un'attitudine di poche delicate anime che può certamente manifestarsi anche col tempo, con la maturazione del gusto, delle esperienze, dell'osservazione. Non credo si nasca necessariamente eleganti, credo più nel processo che conduce all'acquisizione della consapevolezza di qualcosa che sta già dentro se stessi, come per molte cose della vita) e Serena ("Secondo me esiste un'educazione allo stile, al buon gusto ed all'eleganza. I nostri genitori ci hanno insegnato a stare a tavola, a salutare, a cedere il posto sui mezzi pubblici, a vestirci, a leggere un libro piuttosto che un'altro, etc. Alla base c'è un'educazione che si arricchisce con qualcosa d'innato e con gli esempi dell'ambiente che ci circonda").
Personalmente, pur rispettando le idee di tutti, mi trovo d'accordo con questi ultimi due commenti. Ipotizzare che non si tratti soltanto di un dono naturale, bensì che ci si possa formare, educare al bello (così come al "buono") mi fa stare più tranquillo, generando la speranza che possa realizzarsi una società migliore in base alle scelte che si fanno, al contesto in cui si vive - e che creiamo - e non per una bizza del destino.
Non discuto che esistano persone che, per talento naturale, abbiano una propensione maggiore all'eleganza, allo stile, al buon gusto, persino al fascino, ma resto altrettanto convinto che tutti possano incrementarlo. Sia direttamente, cioè pensandoci, razionalmente, consciamente, sia semplicemente vivendo in un ambiente piuttosto che in un altro.
Comunque sia, coltivando per forma mentale il dubbio, nelle prossime settimane cercherò di osservare con più attenzione le persone che conosco e che considero belle o eleganti, affascianti, di stile, per capire se "ci fanno" o "ci sono".
P.S. Di bellezza avevo scritto anche qui, un paio d'anni addietro. L'ho trovato oggi, per caso.

domenica 14 dicembre 2014

Gli occhi rivelatori

Foto by Leonora
C'è un aspetto, apparentemente un dettaglio, che tuttavia mi aiuta a distinguere le persone che conosco; un dettaglio a cui io stesso presto cura, non sempre riuscendoci, quando incontro qualcuno: gli occhi, lo sguardo. La capacità di "posarlo", di scrutare veramente e non in modo distratto, per cercare di capire chi mi trovo di fronte e, di contro, per comprendere se l'interlocutore è interessato a me oppure è indifferente, distratto, distante o supponente, superbo.
Una cartina di Tornasole per ciascuno, evidente soprattutto - ma non soltanto - quando mi trovo con qualcuno che nella scala della vita sta salendo i gradini e si trova in una posizione di potere, di prestigio. Lo sguardo sfuggente, il sorriso ammiccante ma freddo, la stretta di mano sbrigativa, sono indicatori di quanto ci possa interessare l'altro, a prescindere dai bei discorsi e dalla retorica delle parole.
Viceversa, ci sono uomini e donne che quando ti guardano sembrano leggerti dentro, facendoti sentire unico, anche soltanto per un istante, il tempo per un saluto veloce o un cenno del capo. Ho sempre pensato che quella sia una capacità, un carisma anzi, legato al divino, forse per la frase del vangelo di Luca che il cardinal Martini utilizzo per la lettera di presentazione di un sinodo diocesano: "Firmavit faciem suam". Letteralmente "Ha stabilito il suo volto", nella traduzione classica, "rese il suo volto duro come pietra", ma per me quelle parole hanno sempre avuto un significato diverso, di colui che si fa serio per indagare, per scorgere nell'altro ciò che c'è di vero, la sua essenza, l'intimo.
In questi giorni che ci separano dal Natale e anche in quelli delle feste, al di là dei regali, dei banchetti, degli auguri, vorrei essere diverso, ancor più attento, meno distratto, così che i volti altrui non mi scivolino via e si fissino nei miei, fosse pure per un decimo di secondo che però, nella sua intensità, si dilata all'infinito. Un'attenzione che ci fa sentire considerati, stimati, accolti da chi la riceviamo e, a specchio, non passa indifferente quando siamo noi a metterla in atto.

lunedì 8 dicembre 2014

L'arte di raccontare (consigli pratici)

Foto by Leonora
"Se qualcosa non viene raccontato, non esiste". L'ha detto Alessandro Baricco ed è una verità tanto ovvia quanto spiazzante.
Mi piace chi racconta - l'ho scritto qualche giorno fa - e pure coloro che sanno mettersi in ascolto, senza interrompere continuamente, scegliendo le domande giuste, i modi e soprattutto i tempi nel porle. Uno dei momenti che preferisco è quello della narrazione in un contesto conviviale, quale può essere la tavola, che concilia il nutrirsi, l'assaporare, il gustare sia i cibi sia le parole, i pensieri. Per questo apprezzo il Natale e in generale tutte le feste e le occasioni per un pranzo o una cena insieme, con un anedotto che tira l'altro, storie intrecciate, collegamenti che portano lontano, riesumando ricordi sovente abbandonati.
Una consuetudine di cui si è persa traccia, sostituita dalle varie radio, poi tv e adesso Internet, è quella in cui sono cresciuti i nostri nonni, che avevano pochi svaghi e la sera, dopo il rosario, si riunivano attorno al camino o addirittura nella stalla, al caldo, compiendo azioni manuali utili e per cui non occorreva concentrazione e raccontando storie, a volte reali, a volte fantastiche, nella maggior parte dei casi metà vere e metà inventate. Lo stesso vale per le fiabe, lette prima di andare a letto, ai bambini, nelle case più agiate.
Tornare indietro è impossibile, tuttavia potremmo trovare il modo di ripristinare alcune buone abitudini, magari prendendo un paio di accorgimenti. Invitare più gente a cena, ad esempio, senza curarci di sembrare concorrenti di Masterchef, sapendo che conta più la compagnia e meno i manicaretti prelibati. Oppure tenere come regola ferrea il divieto, mentre si mangia, di tenere acceso il televisore e tra le mani i cellulari.
Espedienti validi, ma in sé pre condizioni, a cui va aggiunta la facoltà determinante, quell'abilità nel raccontare che alcuni hanno innata, ma che si può anche apprendere. In modo semplice, che rimanda all'inizio di queste poche righe: imparando ad ascoltare.

lunedì 1 dicembre 2014

Il Sessantotto rivalutato (ma solo la parte buona)

Foto by Leonora
Sono nato a metà degli anni Sessanta del secolo scorso e ho sempre considerato una sciagura il Sessantotto, associato a sentimenti e ad immagini che turbavano il bambino che ero e che tuttora, per molti aspetti, rimango: le manifestazioni, lo scontro generazionale, gli studenti in piazza, la violenza con la polizia, i manganelli, le molotov, le occupazioni di scuole e fabbriche, il sei politico, gli esami di gruppo, le assemblee infinite, il rifiuto dell'ordine costituito... Un sentimento misto di stupore e disincanto, anche perché poi molti dei protagonisti di quella stagione me li sono trovati davanti, a cavallo del nuovo millennio, cinici e spietati, ammaliati più dal potere e dal denaro che dagli ideali che professavano. Un'evoluzione che ha confermato il giudizio sommario dato a suo tempo, aggravata pure da un'altra tipologia di sopravvissuto, quella dei radical chic, che hanno mantenuto di quella rivoluzione l'involucro esterno, trasformandolo però in freddo simulacro.
Faccio un salto in avanti. Oggi. Con davanti la boa dei cinquant'anni, uomo, padre, marito.
Viaggio in auto con accanto mio figlio, maggiorenne tra poco. Non dice nulla, guarda la strada, mi domando cosa possa pensare ma non glielo chiedo: ho imparato a mio tempo che è inutile forzare lo scrigno e provo rispetto per il suo silenzio, per quello smarcarsi da me, da sua madre, persino dal ragazzo che è, per diventare un adulto.
Lui un Sessantotto alle spalle non ce l'ha avuto. In teoria è ancora in tempo per farne uno, ma non so se capiterà. Non sono un indovino e non ho le competenze né la saggezza necessaria per leggere i segni dei tempi, per capire se un tale fenomeno o qualcosa di simile potrebbe ripetersi.
Imnmaginarlo, fino a un paio di mesi fa, mi avrebbe scosso, avrei incrociato le dita o scacciato il pensiero, come avviene per evitare qualcosa di brutto.
Ora non so. A volte ho l'impressione di aver gettato con l'acqua sporca pure il bambino. C'erano sì le manifestazioni, le occupazioni, gli scontri, i figli che rinnegavano i padri, però era anche un tempo di ideali alti, di principi forti, di personaggi che hanno segnato, nel bene, la mia formazione, il modello culturale di riferimento. Non è un caso che i grandi discorsi, quelli memorabili, siano riconducibili a quegli anni. Martin Luther King, John Fitzgerald e Robert Kennedy, il Mahatma Gandhi, papa Giovanni XXIII, don Milani... Nel mio pantheon, come lo chiamerebbe David, ci sono ancora loro e fatico a trovare, nei decenni successivi, qualcun altro degno di essere associato.
Il viaggio è terminato, la meta raggiunta, parcheggio l'auto, saluto mio figlio, che prende la borsa della squadra di calcio e scende. Lo osservo camminare, grande e grosso, sorrido di sollievo pensando che è un ragazzo sensibile, a cui piace confrontarsi, capire, discutere, e mi scopro a pensare che di rivoluzione si può morire o vivere male, ma senza ideali, senza sogni, senza aspirazioni per cambiare in meglio questo nostro mondo, rendendolo più bello, più giusto, vivere alla fine è triste, noioso.
Forse ho fatto male ad archiviare il Sessantotto e più in genarale quel periodo, gettandogli sopra una colata di cemento. Forse è tempo di separare il grano dal loglio e di pensare agli ideali, a qualcosa di straordinario, a una rivoluzione non violenta, o almeno a un'evoluzione non banale, di nuovo.