lunedì 30 giugno 2014

Storylab (siamo anelli di catena)

Foto by Leonora
"Aiutaci a creare il più grande archivio fotografico di Bergamo e provincia".
Storylab è tutto qua, in dodici parole e un'idea forte, quella di rendere disponibile e accessibile la memoria di una città, di una terra.
Oggi è il gran giorno, quello in cui il progetto ha preso il via, dopo una gestazione durata qualche mese e con le finiture in corso d'opera, come avviene sempre in quest'era digitale dove tutto è perennemente "beta".
Lo racconto perché proprio questo è l'aspetto che mi incuriosisce e affascina di più, come credo avvenga per il meccanico che registra il motore man mano che la gara avanza o il medico che si prende cura del paziente giorno per giorno, dosando farmaci e terapia.
Io tutto questo l'ho preso per la coda, essendo arrivato quando tutto era sulla rampa di lancio, dando un paio di spunti per la campagna di lancio sul giornale di carta e venendo coinvolto - come tutti a Mediaon - potendo dire la mia a ruota libera, scambiando opionioni e suggerimenti, cercando di remare tutti dalla stessa parte, senza mostrine sulla giacca e con un obiettivo comune: quello di fare meglio possibile, aprendo una strada.
Può darsi verrà un giorno in cui racconteremo nel dettaglio com'è nato il tutto, per ora mi accontento di sottolineare l'aspetto che più mi affasciana, quello appunto della partecipazione ("Aiutaci a creare il più grande archivio fotografico") e quello della memoria. Chi mi conosce sa che ne ho il culto, pur nella convizione che sia una battaglia persa. Tutto infatti verrà dimenticato, ogni cosa tra cento o mille anni sarà sparita, almeno nella forma e consistenza in cui la conosciamo ora. Però l'idea di spostare un po' più in là l'asticella, la possibilità di lasciare traccia dei nostri padri, dei nostri nonni, dei nostri borghi, delle nostre radici in definitiva, mi scalda il cuore. Se infatti il "per sempre" non ha dimora su questa terra, sono convinto che vedendo quelle immagini in bianco e nero qualcuno si farà qualche domanda e magari ai nostri figli o anche a noi stessi si accenderà una lampadina, ricordando che non siamo eterni, bensì provvisori anelli di catena. Ma proprio questo è il bello: non essere soli, sapere che ci sarà un dopo perché c'è stato un prima.
P.S. Questo post lo dedico al mio bisnonno Giovanni, alla sua faccia da cow-boy, con la camicia senza colletto, i baffi a manubrio e il cappello sulle ventitrè, che dalla lapide più alta del cimitero mi guarda, accanto alla bisnonna Lucia. Di lui so poco ma in quel poco c'è che gli assomiglio in altezza, "anche se lui stava più dritto di te" diceva mio padre, che quando era bambino lo riaccompagnava a casa, la domenica mattina, dopo che tornando da messa faceva un salto all'osteria e non abituato al vino forte di importazione si addormentava a metà strada, sotto un fico, sulla riva dove ora c'è casa mia.

domenica 29 giugno 2014

Postal Market (il papà di Amazon)

Il Postal Market ritrovato
Piove. Non so se ve ne siete accorti, ma se abitate a nord o anche a sud del Po, in questi giorni piove che è un piacere. O un dolore, se detestate la pioggia (che a "quasi luglio" può essere comprensibile).
Il meteo comunque c'entra soltanto accidentalmente con questo post, dedicato al papà di Amazon: il Postal Market.
Per i nativi digitali e anche per chi nativo digitale non lo è ma ha meno di trent'anni spiego velocemente di cosa si tratta: un modello di vendita per catalogo. In pratica compravi in edicola o ti arrivava a casa questo librone zeppo di foto di prodotti con relativi prezzi, tua madre poteva ordinarli e riceverli per posta.
Di questi cataloghi ne ho trovato uno, ieri, curiosando tra i libri nella casa che fu dello zio Emilio e della zia Angelina. Collezione autunno-inverno '84-85, con in copertina Isabella Ferrari che "indossa la nostra boutique". Mi si è aperto un mondo. Di ricordi, soprattutto. Dal ferro da stiro Simac (114.900 lire) al walkman Sony (289mila), dal giaccone spalle larghe gabardine per uomo (69.900) al tailleur foderato pura lana vergine per donna (168mila).
In un tempo in cui i canali della tv erano una dozzina e supermercati un paio in tutta la provincia, il Postal Market (e anche l'altro catalogo, Vestro) era un libro dei sogni per il ragazzo che la società consumistica anelava.
Personalmente non ricordo grandi acquisti. In famiglia eravamo morigerati e mia madre i pochi acquisti che faceva preferiva soppesarli, vederli di persona. Semmai, ma qui il discorso si fa più delicato, ricordo l'emozione nello sfogliare le pagine dedicate all'intimo femminile: non quei corsetti spessi e rigidi che credo portasse la zia Angelina e pure mia mamma, piuttosto quel florilegio di reggiseni e di mutandine semitrasparenti, indossate da avvenenti modelle, che se ci aggiungevi un po' di fantasia ti pareva di vedere cosa nascondessero e costituivano l'unica morbosità in un età per il resto candida.
Di tutti quei prodotti compravamo poco o nulla, dicevo, tuttavia ammirarli così, uno in fila all'altro, dai pigiami alle macchine per scrivere, dai cappotti agli orologi, dalle pentole al tritaghiaccio manuale per granite (5.950 lire), era una meraviglia, oltre che far venire l'acquolina (infatti un tritaghiacchio identico - arancione - lo comprammo, me lo ricordo, però alle bancarelle del mercato).
Ora che quel tempo è passato e del Postal Market è rimasta soltanto l'etichetta (credo sia uno delle decine di store on line), alla mia generazione restano i ricordi e, nei più romantici, la nostalgia. Con Internet, oltre alla velocità, si è aggiunta l'abbondanza, mentre lo stupore non è merce che si possa acquistare né mettere in vendita, però - e questa è una buona notizia - lo si trova dappertutto. Anche in cima a un armadio, tra i libri polverosi che ti ha lasciato in eredità la tua zia.

sabato 28 giugno 2014

Allenatori di uomini (Ciccio, Nello e Osvaldo)

Foto by Leonora
Insegnanti, maestri, amici, parenti, catechisti, istruttori... Non si educa mai da soli, pur se la responsabilità è la nostra, genitori di figli che accompagniamo ma non ci appartengono.
Quest'estate, ad esempio, Giacomo e Giovanni hanno preso concedo da allenatori di calcio che nei mesi precedenti li hanno formati, sul campo e nel carattere.
Antonello (Ghielmetti), Osvaldo (Braga), Ciccio (Signorello): li volevo ringraziare pubblicamente, perché hanno dato moltissimo ai miei ragazzi, arrivando là dove non potevo arrivare io e formando a tutto tondo, pur essendo diversi tra loro.
Ciccio ad esempio non lo scopro adesso. Negli ultimi due anni ha preso per mano Giovanni, ma in passato era stato mentore di Giacomo, con cui ha conservato uno splendido rapporto. Persona di cuore straordinario e dalla gestualità teatrale, mi è sempre piaciuto perché non è perfetto, incarnando in questo il ruolo paterno, che educa sia con l'esempio positivo, sia con quello negativo. Come quando si incavola, ad esempio, e smoccola. Oppure quando è duro. Non vizia i ragazzini, li abitua a stare al mondo.
Di identica tempra, anche se differente nell'atteggiamento, è Antonello, che con il Parè '97 ha condotto Giacomo. Il verbo non l'ho scelto a caso, trattandosi di un vero condottiero, un marine prestato all'atletismo, un sergente di ferro che però sa trovare energia con la meditazione, alla maniera di un monaco buddista. A metà dell'anno scorso si affiancò a una squadra allo sbando, mio figlio compreso, e seppe darle un'identità passando per il sudore, la fatica, il sacrificio. Prendete un adolescente e fatelo correre carponi nel fango: se non vi manda al diavolo lo avete conquistato. E Nello, per non farsi mandare al diavolo, nel fango o nella polvere, in discesa come in salita, al gelo o nel buio di un bosco, era sempre il primo, a dare l'esempio, con i suoi sessant'anni portati da dio.
Ugualmente tenace, anche se meno istrionico, Osvaldo, "master and commander" del Parè '96, come istruttore di calcio il mio preferito: con lui Giacomo non ha mai sbagliato una partita, sapendolo sia motivare che ritagliargli il ruolo perfetto. Uomo dalle parole misurate, Osvaldo è un leader naturale, oltre che un uomo serio, abituato a dirti le cose in faccia, guardandoti negli occhi. Dei tre è quello che mi spiace più dover salutare, perché come allenatore lo stimo davvero, anche se non do torto a Giacomo che avendo diciasette anni vuole mettersi alla prova, cambiando squadra e facendo un passetto in più, lui che di solito è abitudinario. Tutti e tre, ad ogni modo, avranno sempre la mia riconoscenza, oltre che stima ed affetto. Se Giacomo e Giovanni e tutti i loro compagni diventeranno uomini o comunque un po' migliori di ciò che erano lo dovranno anche a loro.
P.S. Non voglio dimenticare neppure Luca Sassaroli, che ha affiancato Ciccio, e Francesco Nigro, allenatore del Parè '97 con Nello. Senza fare grandi discorsi, sono stati preziosissimi e non saranno dimenticati.

venerdì 27 giugno 2014

L'uomo che sono, il vecchio che sarò, il bambino che ero

Foto by Leonora
Stasera ho visto "Dear John", che a parte le lacrime, la bellezza dei protagonisti e il ritmo lento, riporta una frase più vera del vero: "Che siano le due settimane che ho passato con te o gli ultimi due mesi trascorsi con lui, ho imparato che il tempo si esaurisce sempre".
Brutta faccenda quella del tempo, delle lancette che girano, dei granelli di sabbia che cascano senza possibilità alcuna di tornare indietro. A volte mi sorprendo a scrutare il volto delle persone che ho accanto o che semplicemente conosco, i mutamenti percettibili del viso, la trasformazione fisica che avviene in loro. Fissandoli con attenzione noto quanto sono diversi, con lo stupore di non avervi fatto caso prima, di scoprire soltanto in quell'istante che sono cambiati, alcuni non somigliando affatto ai ragazzi che erano, altri diventando in modo altrettanto sorprendente simili a chi li ha preceduti, al loro padre, alla loro madre, ai nonni, quando li avevano.
Un esercizio che pratico talvolta su me stesso, inquadrandomi allo specchio, notando le rughe, la pelle meno elastica, i capelli e la barba spruzzata di bianco. E' allora che mi torna in mente quando ero bambino, il piacere che provavo a guardarmi negli occhi, sempre allo specchio, e a realizzare che quelle pupille erano proprio mie, che quel bimbo era un essere pensante, unico, con un volto, un corpo, un nome: Giorgio. Giorgio... Giorgio... Giorgio... lo ripetevo spesso. Scandendo bene le sillabe, osservando le labbra che si aprivano e chiudevano, la lingua che trillava sulla r.
Di quei momenti privati mi vergognavo, mi parevano un'esagerazione, un vizio, anche se mi facevano stare bene, mi infondevano sicurezza, mi facevano sentire vivo. Scoprii molti anni dopo, all'università, durante un seminario di filosofia del diritto, che quel gioco in realtà era normalissimo e portava alla realizzazione di sé, alla comprensione e alla consapevolezza che c'ero, che ero davvero io, unico, appunto.
Quell'essere sta diventando vecchio, eppure se mi concentro a guardare le pupille, mi pare di vedere ancora il bambino che ero, che da qualche parte è cambiato e da qualche altra è rimasto.
Il tempo si esaurisce sempre, ha ragione la protagonista di "Dear John". Non c'è scampo, semmai una consolazione: averlo vissuto, quel tempo, in modo pieno, non al risparmio, pur senza imprese eroiche, nella normalità del giorno dopo giorno, sapendo di non poter vedere, sapere, provare tutto ma quel poco o tanto gustandoselo.
P.S. Il professore di filosofia del diritto di cui ho scritto fece poi scandalo e fu cacciato dall'università Cattolica, per ragioni non attinenti alla realizzazione del sé, bensì per il suo insegnamento non giudicato eterodosso rispetto ai principi cristiani. Il suo nome è Luigi Lombardi Vallauri e a parte certe divagazioni eccentriche sulla materia con cui sosteneva erano fatti gli spettri non mi era parso così malvagio. Volevo dirlo.

giovedì 26 giugno 2014

Anni Ottanta: la musica che gira intorno

Foto by Leonora
Per Giulia sono i giorni della maturità (come per Federico, Martina, Micaela, Andrea "Zwooby" e molti altri) e vedo in lei la mia trepidazione di allora. Formidabili quegli anni ma anche no. Cioè, non tornerei indietro, anche se sono contento di averli vissuti appieno, con tutto il candore e lo stupore di un adolescente che sta sbocciando nella speranza di non essere bocciato.
Mi tornano in mente oggi perché David mi ha segnalato un bel post di Luca Sofri sui trent'anni esatti dall'uscita di Purple Rain, di Prince: era il 25 giugno 1984. Quella canzone per me e per David è legata a filo doppio a diverse stagioni più tardi, quando la sentimmo cantare nella via centrale di Copenaghen, accompagnata da una ragazza che ballava in un modo da togliere il fiato. L'articolo di Sofri invece mi ha catapultato di nuovo sui banchi del liceo, con Michele Bignami, Antonio Giamminola detto Marco, Gianluca Gazzolo, Rodolfo Sonzogni, Mauro Colombo, Carla Molteni, Patrizia Mattaboni, Simona Bettarello e molti altri, di cui ometto i nomi per non trasformare queste righe in elenco.
Proprio per non divagare, potendo ciascuno di noi scrivere un libro sui propri anni alle superiori, oggi mi limito alla musica, che aveva in Antonio detto Marco il mio mentore, colui che mi teneva aggiornato, anticipando le tendenze, con una sensibilità direttamente proporzionale al metro novanta e passa che lo distingueva dal resto del gruppo. Il citato Prince, ad esempio, me lo fece scoprire lui, così come altri suoi artisti preferiti, da Paul Young ai Prefab Sproud.
Non ero un ragazzo da discoteca (quella arrivò, di striscio, ma più tardi, che i vent'anni li avevo superati da un pezzo), preferivo e frequentavo l'oratorio, però di musica ne ascoltavo un sacco, anche in tv. Erano i tempi di Deejay Television, con Claudio Cecchetto ma anche Jovanotti, Sandy Marton, Tracy Spencer, Kay Rush, , Fiorello, Linus, Albertino, Amadeus, Gerry Scotti e persino Leonardo Pieraccioni. Qualcuno di loro - penso appunto a Pieraccioni, Fiorello, Gerry Scotti, ma soprattutto Linus - è tra i personaggi che più piacciono a Giacomo, che con i suoi diciassette anni non si perde una puntata che sia una di Deejay chiama Italia, e di ciò lo ringrazio: mi fa sentire meno vecchio.
Concludo con un pensiero che mi consola sul destino del mondo. Allora sembrava che la musica contemporanea (quella degli anni Ottanta) fosse un obbrobrio, poverissima rispetto allo splendore degli anni Sessanta e anche dei Settanta, con i Beatles, i Rolling Stones, Elvis Presley e tutto il resto. Invece ora i vari Terence Trent D'Arby, Guns N' Roses, Kim Wilde, Nick Kamen, Samantha Fox, Wendy and Lisa, Sheila B, Afrika Bambaataa, Run DMC e Public Enemy, Debbie Gibson, Bon Jovi, Mandy Smith, Bryan Ferry, Boy George, George Michael, Duran Duran, Spandau Ballet sono rivalutati e si tende a sputare nel piatto, anzi, sugli Mp3 dei cantanti attuali, che sicuramente saranno osannati dai critici tra qualche decennio. Così va il mondo: basta aspettare e non agitarsi troppo. Buon ascolto.
P.S. Poi ci sono ancora in giro i Rolling Stones, con Mike Jagger che per due ore canta, incanta e corre come un centometrista sul palco, ma questo è un altro discorso...

lunedì 23 giugno 2014

Tanta felicità

Foto by Leonora
Prima di cambiare gli altri devo cambiare io. Più semplice a dirsi che a farsi, pur avendo chiaro ciò che non devo perdere, il nocciolo essenziale che mi distingue nel mondo, quel miscuglio che rende unico e speciale ciascuno, me compreso.
Il resto è lampada di Diogene che avanza nel buio, barba di Socrate che si accarezza di fronte al dubbio.
Per gestire l'ignoto traccio linee d'orizzonte, pianifico, studio, cerco di definire una meta, così da rendere più sicuro e spedito il cammino. In più do una mano come posso, mettendo a disposizione le competenze di trent'anni di onorato servizio, sperando di essere utile e venendo ripagato in modo sorprendente, ogni giorno.
La scorsa settimana, ad esempio, ho conosciuto Baldovino. Conosciuto è una parola grossa: diciamo che l'ho sfiorato, scambiando con lui un paio di mail e risalendo alla sua storia usando vecchie fotografie come briciole di Pollicino.
Baldovino di cognome fa Midali, abita a Branzi, di mestiere è panettiere e per passione fotografo, di quella specie paziente che sa rimanere immobile per ore, al gelo o al caldo, con la pioggia o il sole a picco, per immortalare il muso di un furetto o l'apertura d'ali maestosa di un falco. In pratica, quanto di più lontano c'è dal sottoscritto, che perde la pazienza pure ad aspettare un secondo l'ascensore o mentre il digitale terrestre passa da un canale all'altro.
Baldovino è il testimonial che abbiamo scelto per lanciare Storylab, il "progetto di raccolta di fotografie per raccontare la storia dei luoghi, le loro trasformazioni, le tradizioni, le vicende pubbliche e private, per ricordare da dove veniamo e non dimenticare ciò che siamo stati". L'idea è di spiegare questo strumento non a parole, ma con l'esempio, raccontando la storia di una persona attraverso le vecchie fotografie che ha in casa, da quella della prima comunione ai nonni messi in posa durante il fascismo, dalle cartoline d'epoca del paese dov'è nato agli amici con cui negli anni Settanta aveva messo in piedi un complessino, che non erano i Beatles né i Rolling Stones, con però uno spirito identico.
Baldovino "con le braghe alla sciatora"
Lascio perdere i dettagli, che verranno pubblicati in questi giorni sull'Eco di Bergamo e a breve saranno consultabili da chiunque, sul sito, concentrandomi su un pensiero che Baldovino ci ha scritto. Questo: "La mia prima giacca a vento azzurra me l'hanno comperata a quattordici anni, ma ero fortunato perché le braghe alla sciatora le avevo già, le mettevo anche quando andavo a scuola perché l'indumento piu bello faceva parte di quanto ci donavano le persone piu benestanti di noi. Peccato non avere gli sci, quelli non sono mai arrivati. Allora mi viene un dubbio, ma forse mi é sfuggito qualcosa! Una cosa però vedo in questa foto dell'aprile 1970: tanta felicità".

Già. Tanta felicità. E' la stessa che ricordo io, sfogliando l'album di famiglia, vedendo le immagini in bianco e nero o a colori sbiatidi di quel tempo in cui si conviveva con il poco, ma quel poco ce lo gustavamo tutto e non era una sciugura, un freno, bensì uno sprone a fare meglio, e anche ad addormentarsi la sera con un progetto, un sogno, un obiettivo. Vorrei che per i miei figli fosse lo stesso, anche se hanno di più rispetto al bambino che sono stato e quasi tutto in confronto ai loro nonni, agli zii, cresciuti nel gramo. Ma ad essere onesto vorrei che tornasse a valere pure per me, che troppo spesso confondo ciò che ho e che non voglio perdere con quello che conta davvero.

domenica 15 giugno 2014

Mani avanti e due post scriptum

Foto by Leonora
"Come va?". Me lo chiedono in molti, con la premura di coloro che si preoccupano, che hanno a cuore il mio bene e non si fidano delle apparenze, vogliono scavare a fondo, per accorgersi che ciò che appare sia anche vero.
"A volte quando ti leggo ho il dubbio che tu voglia comunicare al mondo VA TUTTO BENE perché poi questo si rifletta su di te" mi scrive Lara, che pur da distanze siderali coglie spesso il bersaglio. Può darsi. Ma tutto bene va davvero. Sono stato catapultato dagli eventi in una dimensione completamente nuova, con il vantaggio di un paracadute ampio ma comunque il vuoto sotto i piedi e anche sopra, come quei pulcini d'aquila o di corvo che la madre spinge con il becco giù dal nido, sapendo che l'unica possibilità per sopravvivere è quella di volare, solo che il balzo all'inizio fa spavento e mancare il fiato. Il salto di cui scrivo non è il lavoro mio, alla Sesaab, bensì il futuro dell'informazione, la capacità di autotrasformazione di un mondo che deve adattarsi per non rischiare l'estinzione nel volgere di qualche anno.
Premesso ciò, quando dico che va tutto bene non esagero. Il gruppo di persone con cui lavoro è splendido, rivedo in loro ciò che ero e che in definitiva sono: persone che si appassionano a quello che fanno, non distinguendo la vita dal lavoro, in modo che la prima sia piena e il secondo niente affatto pesante, monotono. Ciò che apprezzo di più è il clima, molto "smart", assai professionale, senza disdegnare l'aspetto gogliardico. Ed io, che in questo senso sono impagliato come un gufo, rischio di sbatterci il muso.
Ad esempio, è consuetudine in ufficio non lasciare mai il pc in uso quando lo si abbandona, anche soltanto per qualche secondo. Se lo si fa, se non lo si blocca con ctrl+alt+canc, il rischio concreto è che qualcuno acceda alla tua pagina Facebook e posti una frase sconcia oppure che combini uno scherzo, com'è capitato a Silvia, che si è ritrovata incinta senza saperlo, con tanto di test di gravidanza annesso. Divertente, penserete voi, ma provate a spiegarlo al fidanzato di Silvia o anche a lei, che a distanza di settimane (ne sono testimone!) viene tuttora avvicinata da conoscenti che le dicono con trasporto: "Silvia! Ma complimenti!!!".
P.S. Scrivo tutto ciò a futura memoria, perché evitarlo sarà imposssibile, lo so, e allora tanto vale mettere le mani avanti, tentando di attutirne le conseguenze in qualche modo. Non essendo io sveglio quanto loro, cerco di adattarmi come posso. Quando capiterà infatti potrò inserire tra i commenti questo post, rendendo credibile ciò che credibile non lo sembrerebbe affatto.
P.P.S. "Ma come? Non c'è proprio rispetto" penserà qualcuno. Invece c'è. Proprio perché ho qualche anno in più di loro e vengo da un incarico di generale col pennacchio, mi sono stati concessi tre giorni di tempo per allenarmi a bloccare il computer. "Ultimo avvertimento" c'era scritto su un post-it appiccicato al monitor, ieri l'altro, mentre mi ero allontanato per un amen, il tempo di fare otto metri, prendere un foglio dalla stampante e tornare indietro. Lì ho capito che non ce l'avrei mai fatta, che la sciabola si sarebbe abbattuta inesorabile, prima o dopo. Così ho pensato a questo post, che non mi mette al riparo ma spero sia un salvacondotto.

venerdì 13 giugno 2014

Lo State of the Net secondo me (mancava Marco)

Foto by Leonora
È cambiato lo State of the Net e cambiato sono pure io, che l'anno scorso ero a Trieste ritagliando uno spicchio di tempo e di energie al lavoro principale, mentre oggi il mio lavoro principale è questo. Lo premetto, in modo che chi legge accetti il giudizio che ne do, magari non condividendolo, ma sapendo quanto mi sta a cuore il futuro e l'innovazione come strumento per vivere meglio.
Mancava Marco Zamperini (riposi in pace, anche se avendolo conosciuto scommetto che dov'è andato in pace non lascerà nessuno) e si è sentito. Il salone del Molo IV m'è parso un ambiente ugualmente elegante, efficiente, ma più freddo (non solo per l'aria condizionata a palla del mattino), asettico, come se l'equilibrio fra testa e cuore fosse compromesso. Non è una sentenza, né un giudizio lapidario, bensì una sensazione, che affido agli organizzatori storici, che stimo per quanto fanno e proprio per questa ammirazione cerco di aiutare come posso: essendo sincero.
Non darò voti analitici, relatore per relatore, come l'anno scorso. Mi limiterò a segnalare le cose che nella giornata di oggi mi sono piaciute e quelle meno.
Curiosa (voto 8) la presentazione fatta da Carola Frediani sull'internet profondo, quello che non conosciamo, quello dei servizi nascosti, dei protocolli fatti apposta per non esser rintracciabili, utilizzato da chi non vuole esser controllato. Ottima (voto 9) la condivisione di conoscenze di Marilena Pellegrini e Antonella La Carpia su come realizzare un buon video e renderne virale la diffusione. Mi aspettavo di più (voto 6) dall'incontro sulla geolocalizzazione e sulle opportunità di narrazione, promozione e rappresentazione di un territorio attraverso l'uso di dispositivi mobili, internet e mappe. Molto interessanti (voto 9) gli argomenti di Benedetta Arese Lucini, general manager di Uber, l'applicazione che sta cambiando il modo di spostarsi nelle grandi città. Sempre bravo (ma non gli assegno un voto, perché professionalmente per lui ho un debole e non sarei obiettivo) Massimo Russo, direttore di Wired Italia, che riesce sempre a distinguere lo strumento dal fine e orienta la discussione sapendo cogliere il senso generale, partendo dal dettaglio. Professionale ma non trascinante (voto 6) Anna Masera, che apprezzavo più quando tentava di trovare una nuova strade all'informazione digitale al servizio della Stampa, scritto maiuscolo ma anche minuscolo.
Mortificante (voto 3) l'ostinazione nella scelta della lingua inglese nella salone principale. Non discuto le motivazioni pro e contro, avendolo già fatto sul post dell'anno scorso e non avendo cambiato idea di un millimetro. Mi limito a constatare questo. Alle tre e mezza del pomeriggio ho contato cento sette persone tra il pubblico, in una sala con trecento sessanta posti a sedere. Nell'atrio, dove gli argomenti erano diversi ma si discuteva in italiano, le sedute non bastavano e c'erano decine di persone che ascoltavano in piedi. Ora, se per rispetto al dieci per cento degli ospiti stranieri non ci sono i soldi di affittare una trentina di cuffie - per la traduzione simultanea non servirebbe personale esterno, basterebbe uno degli organizzatori - almeno fate in modo di prevedere una distribuzione migliore delle sedie (scherzo, tranquilli: so che non è un problema di costi delle cuffie, ma una precisa scelta culturale, e la contesto proprio per questo. E comunque le sedie devo davvero esser distribuite meglio).
Non classificabile (voto N.C.) l'incontro che in fondo mi interessava di più, quello su "Informazione locale e civic media". I relatori erano qualificatissimi, provenienti dal gruppo Espresso, ma è stato l'incontro con meno pubblico (compreso il sottoscritto ad ascoltare eravamo una ventina in tutto). Eppure sono state dette cose essenziali per il futuro di un settore (quello dell'informazione) da cui non soltanto dipendono migliaia di persone che vi lavorano, ma l'esistenza civile di tutti gli altri, milioni e milioni di uomini e donne. 
Encomiabile (voto 8) lo State of the Net nel suo complesso. Ci possono esser annate superlative, altre meno, ma lo sforzo che viene fatto per comprendere ciò che sta accadendo e condividere conoscenze e competenze per affrontare al meglio il futuro è sempre lodevole, tanto che mi toglierei il capello, se ne portassi uno. Grazie dunque a Beniamino Pagliaro, Paolo Valdemarin e Sergio Maistrello per rifarlo, ogni anno.

Io ci sono

Foto by Leonora
È inutile girarci attorno, mi sento un poco in colpa in questi giorni, poiché al mio lavoro e al passar tante ore fuori casa, capitando pure spesso di non tornare la sera, si aggiungono gli impegni di Isabella, che finora pur lavorando era stata della famiglia il fulcro.
Non è tanto una questione di ore, ma di testa: entrambi siamo concentrati sulle sfide che abbiamo scelto e il timore - sono sincero - è che ad andarci di mezzo siano i nostri figli, Giovanni, Giorgia e Giacomo. Due sono adolescenti, uno è ragazzino, grazie al cielo non sono perfetti ma finora siamo stati davvero fortunati, avendo ciascuno di loro molti talenti e un carattere solare, positivo. Vorrei che non cambiassero, se non in meglio, vivendo anni pieni, sereni. Ecco perché temo una distanza emotiva, prima ancora che fisica, e dovrò impegnarmi, prestare attenzione affinché ci sentano presenti, come siamo sempre stati.
Scrivo queste cose non per caso, abbinando una preoccuoazioni alla lacrima che non sono riuscito a trattenere, oggi, mentre veniva proiettato questo video, che racconta le mamme di chi ha successo nello sport, partendo proprio dalla vicinanza quando le cose non giravano per il verso giusto, eppure loro potevano dire: "Io c'ero".

lunedì 9 giugno 2014

L'alieno (il primo giorno del nuovo lavoro)

Foto by Leonora
Ed eccomi qui, in una stanza sette metri per cinque, luminosa e affollata di ragazzi giovani, brillanti, che è un piacere ascoltarli e anche soltanto vederli, concentrati ciascuno sul computer e con una finestra aperta sul mondo. Il clima mi ricorda quello della redazione cronaca quando lavoravo alla Provincia di Como, anche se lì conoscevo già tutti mentre oggi sono straniero.
Ricominciare a quarantasette anni, quasi quarantotto. Con l'imbarazzo e l'emozione di essere un marziano, capitato nel luogo giusto al tempo sbagliato: una generazione in ritardo. Però il maestro Manzi aveva ragione e non è mai troppo tardi per imparare, così da oggi sono operativo a tutti gli effetti, come "amministratore con delega alle attività editoriali" di Mediaon, la società del gruppo Sesaab che si occupa dello sviluppo web. Nei prossimi mesi la base operativa sarà qui, a Bergamo, anche se avrò un punto di appoggio pure a Como e se girerò parecchio, per esplorare le nuove frontiere di tecnologia ed informazione, formando a mia volta chi tra i colleghi avrà il desiderio di farlo. In più continuerò a scrivere articoli, a fare il giornalista insomma, che è poi ciò che sono.
"Ma cosa è andato a fare il Giorgio?" ha chiesto l'amica e coetanea Carla a mia mamma, ieri l'altro, sentendosi rispondere da mia mamma medesima: "Boh, guarda, non l'ho ben capito e mi sa che bene bene non l'ha capito anche lui". Mi ha fatto sorridere, sentendoli raccontare, sia per il tono che ha usato sia perché tutti i torti non li ha, avendo intrapreso una strada che in buona parte è da disegnare, dal principio.
Quel che è certo è che mi metterò al servizio di tutti i colleghi del gruppo e che baderò principalmente a non creare divisioni, ad essere elemento di unione, di alleanza, nella convinzione che soltanto insieme (giornalisti e tecnici, tradizione e innovazione, informazione e comunicazione…) potremo superare questa doppia crisi, economica e del settore editoriale.
Bene, per il primo giorno sulla plancia di Star Trek è tutto. Data astrale 20140609, non è il comandante Kirk che vi saluta, né il signor Spock, però mi piace già un sacco.

sabato 7 giugno 2014

Naxos, Castelmola, Letojanni: dove mangiar bene (e spendere giusto)

Foto by Leonora
Non c'ero mai stato e il motivo è semplice: temevo di restare deluso. Siciliani sono molti degli scrittori che preferisco (Pirandello, Verga, De Roberto, Quasimodo, Formisano, Bufalino, Sciascia, Maraini, Camilleri, Cacopardo...) ed ero certo che all'arcadia letteraria corrispondesse la disillusione del reale. Mi sbagliavo. Quattro giorni in Sicilia sono bastati per sommare al gusto del raccontato quello dello sguardo, pur se il raggio di visita era limitato: Acireale, Taormina, Castelmola, Letojanni e Messina, con fulcro i Giardini Naxos, in uno splendido scorcio di giugno, forse troppo nuvolo ma né caldo né freddo: giusto. E quattro sere un posto dove mangiare diverso. Li annoto qui, alla buona, che mi fido del passaparola altrui e per sdebitarmi appena posso lo faccio io. Con una premessa: non sono un gourmet, mangio alla buona, con una predilezione per i posti che assomigliano alla trattoria da Calogero, quella dove si rimpinza il commissario Montalbano.
Prima sera: Trattoria di Za Mela, Naxos. Pochi piatti, prezzi contenuti. Ottimo e vario l'antipasto, buoni ma non eccezionali i primi (pasta alla Norma e linguine al nero di seppia), squisito il filetto di sogliola alla siciliana.
Seconda sera: Ristorante da Nino, Letojanni. Posto più caro ma anche assai più assortito, con una terrazza a sbalzo sulla spiaggia. Ottimo il pesce, freschissimo, deliziosi i primi, un risotto ai frutti di mare e spaghetti alle vongole.
Terza sera: Bar Gallo Cedrone, Castelmola. Locale caratteristico, di quelli che appunto si leggono nei libri di Camilleri, con un'anziana signora a servire in tavola e un cuoco tuttofare che cucina "en plein air" (fuor di metafora: in una minuscola cucina, affacciata allo stretto balcone dove sedevamo). Vista incantevole, sull'Etna e sul mare che lambisce la costa. Menù casalingo, squisito per palati non sofisticati come il mio. Ottima pure la pizza, anche se cotta nel forno elettrico. Consiglio ogni pietanza contentente le melanzane, divine, cotte in padella con olio cambiato ogni volta e lasciate a sgocciolare, prima di essere messe nei sughi e fatte saltare in padella.
Quarta sera: Enoteca 'A Putia, Naxos. Un paradiso. Sterminata scelta di vini, di tutti i prezzi (io ho optato per un Etna Rosso, ma con dieci euro si potevano avere bottiglie di pregiato Sirah, Nero d'Avola, Cerasuolo). Piatti cucinati benissimo e presentati al meglio. Sublime, al punto che mi sono quasi commosso nell'assaggiarla, la caponata con pesce spada, che il titolare aveva preparato quello stesso pomeriggio. Ne sono rimasto tanto contento che invece del dolce me ne sono fatto servire un'altro piatto, sapendo che difficilmente vi tornerò presto.
P.S. Per quest'ultimo posto ringrazio la segnalazione del collega Vito, che a Naxos è nato e cresciuto.

venerdì 6 giugno 2014

Parentesi chiusa (grazie, zia Angelina)


Foto by Leonora
Prima di aprire una nuova parentesi tento di chiudere quella vecchia, anche se chiusa chiusa non la sarà mai. Sull'esperienza di Monza, al Cittadino, ho ricevuto telefonate, lettere, messaggi, mail. Tutte affettuose, qualcuna simpatica, altre commoventi: come al solito mi sono ripromesso di rispondere una ad una ma sarà un'operazione complessa. Un po' mi sono pentito di non aver organizzato cene o rinfreschi di commiato (ho sempre il timore di arrivar lungo e sfociare nel melodramma o, peggio, nell'operetta), è stato piuttosto un saluto semplice, alla spicciolata, però caloroso, con tutti. Così ho evitato quei congedi mesti, se non tristi, che racconta anche Feltri nel suo ultimo (e gustosissimo) libro, sui "Buoni e cattivi", quando a pagina 249 scrive: "Vuotare i cassetti della scrivania, percorrere in solitudine un'ultima volta i corridoi, nessuno che ti aiuti a portare via gli effetti personali: è come assistere al proprio funerale. In quel momento, comprendi con amarezza i limiti tuoi e altrui. Gli uomini nel peggio sono tutti uguali. Il direttore di un giornale, e in genere ogni capo, un minuto dopo che non lo è più viene considerato solo un poveraccio e come tale lo trattano. E' già un miracolo se non gli sputano addosso".
Ecco, io non credo di averlo rischiato. Forse perché al Cittadino ci sono soprattutto brave persone, certo perché non sono un capo nel senso pieno come lo è Feltri, magari perché io per primo cerco di essere attento a non ferire gratuitamente, a esercitare il potere senza prepotenze, né con i vicini di scrivania né con i lettori. Qualche volta mi è capitato di dover prendere decisioni dolorose, persino interrompere il contratto di collaborazione con qualche collega, ma l'ho fatto sempre motivando il provvedimento e cercando di usare quella sensibilità che avrei voluto fosse usata a parti inverse, memore che le scale si salgono ma anche si scendono. Non solo. La frase che mi ha accompagnato incessantemente negli anni al Cittadino è quella della zia Angelina, pace all'anima sua, quando per la prima volta le ho mostrato un tablet. Ero da poco diventato direttore a Monza e volevo farle un filmato per poi mostrarglielo in tempo reale. Lei, sulla soglia dei novant'anni, alla richiesta di saluto mi aveva detto "di fare il bravo", aggiungendo in dialetto: "rùga minga i gent", non trattare male le persone. La prova provata di quanto scrivo la trovate in questo video e l'ho considerato fin da subito un segno del destino, un monito da appuntarmi e tenere come stella polare. Un'eredità che mi porterò, ne sono certo, oltre Monza.