domenica 23 marzo 2014

Generazione Giorgia

Foto by Leonora
Giorgia ascolta musica nella stanza di fianco, sdraiata sul letto, a pancia in giù, con in mano il cellulare. Riconosco la canzone (Counting stars, dei OneRepublic), che lei intanto canta, spensierata come i suoi quattordici anni. "But baby, I’ve been, I’ve been playing hard. Sitting, no more counting dollars, we’ll be, we’ll be, counting stars". Non più contando dollari, conteremo le stelle.
Sorrido, notando la coincidenza con ciò che sto leggendo io, l'intervista a Mauro Moretti, amministratore delegato di Fs (Ferrovie dello Stato), sul rifiuto all'ipotizzato taglio degli stipendi ai manager di aziende pubbliche. Parole che non fanno una grinza: il mercato non riconosce Stato o privato, mira all'efficienza finalizzata al profitto. Mi turba lievimente il verbo "pigliare", che usa per indicare quanto prende lui e quanto invece i suoi colleghi all'estero e i vari politici ("pigliare" evoca colui che prende, arraffa, si accaparra) ma è una sottigliezza.
Ciò che invece stride, per come la vedo io, è il ricondurre tutto al denaro, il soldo come misura di tutte le cose, compreso il merito, il servizio, la bravura.
Non sono pauperista, non pretendo che si debba vivere in una società dove la livella è imposta dall'alto, non credo esista un giusto e un superfluo oggettivo e sono consapevole che ciascuno ha le proprie aspirazioni, desideri anche materiali per cui è disposto a fare sacrifici, a impegnarsi giorno e notte e guadagnare e spendere quanto per me è una follia oppure anche solo accumulare ricchezza, come zio Paperone, per il gusto di sedere sopra una fortuna, facendone il proprio dio, l'orizzonte di vita.
A Giorgia però, che intanto continua ad ascoltare musica (ora è il turno di Happy, di Pharrell Williams: un'altra coincidenza!) vorrei insegnare che nella vita c'è altro, che più di uno stipendio alto conta un lavoro che soddisfa, che ti fa andare a letto contento la sera, per il semplice motivo di averlo fatto bene. Vorrei dirle che essere appagati vale più di essere pagati, che per lei sogno un'esistenza piena, in cui ciò che vale conta più di quanto ha prezzo, che nessuno è più ricco di colui o colei che si accontenta di ciò che ha, che il poco desiderare è una fortuna maggiore del molto possedere.
Mi piacerebbe che fosse brava in ciò che farà e vorrei farle capire che oltre al denaro esiste un'altra moneta: la riconoscenza altrui, la stima, la soddisfazione personale, il mettersi al servizio per una causa che si ritiene buona, giusta. Vorrei che il "no profit" fosse per lei e per gli altri miei figli e per l'intera loro generazione, uno stile di vita, ribaltando la gerarchia che da decenni ci regola e, in molti casi, ci alliena, ci annienta.

domenica 2 marzo 2014

Gli occhi che non ridono

Foto by Leonora
Emilio non ride e non c'entrano l'ospedale, i dolori, sua moglie che dopo sessant'anni di matrimonio è appena morta, i novant'anni che forse arriverà a compiere, a maggio, o forse no.
Per quello ci sarebbe da piangere, ma Emilio neppure piange.
E' come se da anni si stesse ripiegando su sé stesso, come se stesse costruendo pian piano, inesorabilmente, un bozzolo entro cui rifugiarsi e nel contempo una corazza che lo metta al riparo, pur se per ciò che teme di più, il dolore, la morte, un riparo non esiste, non è mai esistito.
"Cosa c'è zio, a cosa pensi?" gli ho chiesto ieri, mentre con due occhi svegli, scuri e profondi quanto un abisso fissava da sdraiato il soffitto. "A niente, non penso a niente - mi ha risposto, ieratico - ho una gran confusione in testa e l'unica cosa che mi viene è pregare".
Non sono un esperto di comportamento, da anni non mi occupo più di anziani a tempo pieno, ricordo che sui libri dell'università avevo letto di una tendenza all'egoismo che si accentua con il passare degli anni, un istinto di sopravvivenza che seda il cuore e rende sempre meno empatico il cervello. Da profano lo considero un prepararsi al distacco e lo rispetto, cercando di immaginare se anche a me capiterà così, se avrò la fortuna e insieme la pena di diventare tanto vecchio. Anche se in teoria dovrebbe essere il contrario e man mano che ci si avvicina al capolinea ci si dovrebbe aprire al mondo, allontanarsi serenamente, lasciando un buon ricordo, è frequente accada il contrario.
Penso queste cose mentre gli tengo la mano e provo piacere a sentire quella pelle diafana, secca, liscia e sottile, così differente e insieme così simile a quella di un bimbo: entrambe sono l'involucro di un essere umano non autosufficiente, indifeso, pur se il secondo ha la morbidezza piena di chi si prepara a conquistare il mondo mentre il primo la morbidezza asciutta di chi è maturo per lasciarlo.
Emilio non ride e allora cerco di sorridere io per lui, ricordando i momenti lieti che abbiamo trascorso, le cose che mi ha insegnato (da usare il saldatore elettrico al significato della parola "demagogico", che avevo letto su un muro, a Loano, quando avevo sette anni e mi portava al mare, alla pensione da Orazio), i pomeriggi che mi teneva a balia a casa sua, quando facevo le elementari, perché mia madre lavorava e sua sorella - mia nonna - non aveva salute sufficiente per occuparsi di me.
Sono sempre rimasto incantato dall'abilità manuale che aveva, riuscendo a riparare tutto, e adoravo restare ad ascoltarlo quando raccontava il giro delle Alpi, Stelvio compreso, con la sua bicicletta con i freni a contropedale torpedo. O più ancora i suoi due anni prigioniero dei nazisti, in un campo di lavoro poco distante da Berlino, quando nascondeva le patate sotto terra e le mangiava crude, con i suoi compagni di sventura, perché non c'era altro. Credo che anche là, per sopravvivere, fosse necessaria una certa dose di egoismo e un'energia un cui lampo ritrovo ancora pggi, quando a fatica, ma con determinazione, afferra il cucchiaio e porta alla bocca il purè di carote o il semolino o la frutta frullata che all'ospedale gli portano.
Non so quanti giorni o mesi o anni rimarrà da questa parte del mondo, in ogni caso il meglio se l'è lasciato alle spalle e forse è per questo che non ride più e mi fissa con quei due occhi da animale ferito che mi inquietano e nel medesimo istante me lo fanno sentire vicino.