sabato 14 settembre 2013

Alice (qualcosa che so di lei)

Foto by Leonora
Scrivo molto qua, non tutto. Tutto non lo scriverò mai, e non soltanto per un limite oggettivo, essendo esclusiva proprietà di Dio quella di una "parola" che dice tutto.
Ci sono un sacco di cose di me che esistono soltanto in quanto mie, proprio come certi lumini che svanirebbero alla luce del sole o quegli organismi che al contatto con l'aria troverebbero morte invece che vita. Parlo anche di aspetti belli, nobili, non soltanto delle debolezze, delle bassezze, dei limiti che si accompagnano a qualsiasi natura umana e in ragione dei quali comprendo gli errori altrui, sapendo che in ciascuno di noi c'è ombra.
Ho già spiegato una volta che la sincerità in questo blog equivale all'assenza di bugie, ma l'assenza di bugie non combacia con la verità. Non sempre almeno, non su tutto.
Qualcosa ad esempio vorrei tenerlo per quando non ci sarò più, per quando si potranno leggere i pensieri senza dietrologia, spogliati dal pudore dei vivi o dal sospetto dell'ambizione, della presunzione, dell'ipocrisia. La morte infatti è anche questo, uno scanner che passa al setaccio le azioni e le fotografa senza più possibilità di mutamento, che poi è anche il limite della perfezione: non conosce movimento, è statica. Forse in questo senso la sua assenza è un dono per l'essere umano, mentre Dio (e dai che oggi ritorna) è unico proprio in quanto perfezione che si rinnova, che si moltiplica.
Quante parole. Ho tessuto volentieri il filo dei pensieri, anche a rischio che qualcuno commenti di non capirci nulla. L'ho fatto perché soltanto dando loro forma le intuizioni diventano chiare, perdendo forse un poco di originalità ma guadagnando in consistenza.
In verità avevo cominciato questo post per parlare di Alice ("Alice guarda i gatti" volevo intitolarlo), una persona che ho cara, una tra le ragazze più belle che conosca ma nel contempo uno dei ragazzi, al maschile (non come sessualità, come testa), più interessanti che ci sia.
La conosco da quando era una ragazzina alta alta e giocava a basket, perdendola poi di vista, ritrovandola grazie ai social network e apprezzando il suo esser caustica, ironica, sarcastica, passionale, pungente e candida, innocente insieme. Ci scambiamo non più di un paio di messaggi all'anno, non la vedo quasi mai, tranne ai battesimi e a qualche per fortuna raro funerale, scambiando a voce tre frasi in croce. Eppure lei dimostra che la frequentazione non è essenziale né alla conoscenza né alla stima reciproca. Amici ci potremmo definire, se dell'amicizia non mancasse quell'esserci a prescindere dalla presenza fisica, che significa essere un punto di riferimento, una spalla su cui piangere, un braccio a cui aggrapparsi, sguardi che si incrociano nella scintilla di una risata. A renderla speciale è che riesce a piacermi senza tuttavia la spinta dell'attrazione istintiva che sovente esiste tra maschio e femmina. Se mettessi in fila le cose che potrebbero far da frizione tra me e lei ne uscirebbe una pigna, eppure non ce n'è una che faccia da spina, che suoni stonata, rompendo l'armonia. Anche su di lei non posso né voglio scrivere tutto ciò che penso, ma ciò che ci unisce sento che è di un candore, di una tale pulizia da odorare di bucato e da permettere che una relazione privata diventi pubblica. Dovrei aggiungere che non vorrei averla messa in imbarazzo con questo post, ma so che come tutti i provocatori per timidezza lei non si offenderà se l'ho messa in mezzo e apprezzerà la genuinità di tutta questa confidenza.

mercoledì 11 settembre 2013

Gli occhi degli altri

Foto by Leonora
Quanti sbagli, quante meschinerie eviterei se solo guardassi a me stesso con gli occhi con cui osservo gli altri. L'ho scritto così, sinteticamente, un paio di giorni fa. Ci torno sopra ora, per spiegarmi meglio, per condividere una riflessione fatta su due piedi, vedendo una coppia che discuteva animatamente in mezzo alla strada. Quanta pena nell'essere spettatore di quella scena, quanto disagio nell'impotenza di non mettere becco tra un uomo e una donna che, pur senza passare la soglia della violenza fisica e neppure verbale, manifestavano senza pudore la rabbia, il rancore dell'uno verso l'altro.
Non è la prima volta che succede, spesso capita quando di mezzo ci vanno i bambini, rimproverati, spaventati, sballottati in nome di un'educazione corretta, giusta, sacrosanta.
"Perché lo fanno?" è la domanda che mi pongo io, dall'alto del muro che li divide, osservatore distaccato ma non disinteressato, sgomento nell'assistere a una reazione così prepotente per un motivo che visto al di sopra delle barriere divisorie appare minuscolo, superabile, banale persino.
Invece no, attorno a quell'appiglio si attorciglia l'edera dell'incomprensione, affonda le radici l'indignazione, la rabbia. Chi ragiona a senso unico non può comprendere come sia possibile e si limita al biasimo. Io tuttavia so che non di rado dalla parte del rompiscatole, dell'irriducibile caparbio, c'è il sottoscritto, incapace di tendere la mano per fare la pace e neppure dotato di quella sensibilità intelligente che si traduce nel rimandare a un tempo più propizio la discussione, pur senza tralasciare nulla.
E' capitato che con Isabella, pur essendo in pubblico (e per pubblico intendo in mezzo la gente, anche se non in compagnia di amici), il tono della voce si sia fatto aspro, alto, o che la mia parte offesa, invece di "essere tagliata" - come suggeriva ironicamente mio padre: "Ti sei offeso? Taglia via la parte offesa" - fosse esaltata, tenuta in gran conto. E lo stesso vale per i figli, per Giacomo, Giorgia, Giovanni, che quando mi fanno arrabbiare non hanno un padre quieto, pacato, tollerante, bensì una furia, soprattutto se il fatto in sé si somma alle tensioni di giornata, alle preoccupazioni contingenti, al nervosismo. Eppure quel Giorgio gretto è il medesimo Giorgio che a vedere gli altri comportarsi così resta basito, sconcertato.
Misteri della natura umana o debolezze dell'individuo, che indossa i panni del dottor Jeckyll ma ha sempre la biancheria di un mister Hyde sotto il vestito.