venerdì 10 maggio 2013

Il perdono del mattino

Foto by Leonora
Scriviamo "possedere" ma dovremmo leggere "affittare". Niente porteremo via, nulla ci appartiene per sempre e non esiste patrimonio materiale, pur imponente, che metta al riparo i nostri figli dall'avere un'esistenza infelice. La mia vita per fortuna è serena (la felicità è condizione instabile e mai costante: va a momenti) e sono grato ai miei genitori soprattutto per le lezioni che mi hanno dato, che sono poi le stesse che vorrei lasciare ai miei figli.
Ne scelgo due, per esigenze di sintesi.
La prima è che il dolore per la morte altrui, compresa quella delle persone più care, si supera. Me l'hanno insegnato, come per tutte le altre cose importanti, senza bisogno di parole, bensì con l'esempio, affrontandolo loro e dimostrando che dopo la rabbia, la paura, lo sgomento, la disperazione, le lacrime, torna sempre a splendere il sole e il sorriso, nel cuore.
E' tuttavia la seconda lezione di cui vorrei parlare qui, oggi. La riassumerei così: la capacità di saper voltare pagina e perdonare.
L'ho compreso qualche giorno fa, quando Giovanni ha fatto una sceneggiata per un nonnulla, un capriccio bell'e buono che ha rovinato una serata a tutta la famiglia, tanto che siamo andati a letto imbronciati con lui, che era la causa di quel temporale. Il mattino dopo, appena sveglio, Giovanni è entrato nella mia stanza, con la circospezione e la prudenza che hanno le zebre quando vanno ad abbeverarsi nel fiume in secca e c'è l'altissima probabilità che vi siano in agguato i coccodrilli. Io l'ho sentito avvicinarsi e ho tenuto gli occhi chiusi, pensando in quella frazione di secondo se continuare a tenere il broncio per fargli capire ulteriormente le conseguenze delle sue azioni oppure se concedere tregua e comportarmi normalmente. Ho scelto la seconda strada ricordandomi all'improvviso come mi si allargava il cuore e come ero grato ai miei genitori quando il bambino ero io e la combinavo grossa, proprio come Giovanni, ma al mattino dopo, magicamente, sia mio padre sia mia madre non portavano traccia dei rimproveri e tornavano a sorridermi, come se nulla fosse. La sensazione non è che si fossero dimenticati, semmai che avessero proprio scelto intenzionalmente di andare avanti, di voltare pagina appunto e di perdonare.
Credo che quelle mattine siano state il balsamo più efficace per farmi crescere responsabile sì, ma senza complessi. Così vorrei essere con i miei figli ma lo scrivo anche per gli altri genitori che conosco, affinché facciano mente locale sull'importanza del perdono del mattino e possano metterlo in pratica, quando occorre. Farlo non costa nulla ma posso assicurare che dà molti benefici. Fidatevi.

sabato 4 maggio 2013

Ineffabile mistero (i cambiamenti dell'età)

Foto by Leonora
Molte cose migliorano con l'età, di parecchie scorgo il senso del cambiamento, mentre di altre resto sorpreso. Io ad esempio starnutisco meno, ho più tolleranza per i pollini, persino alcune intolleranze alimentari che quando avevo trent'anni hanno fatto capolino (impedendomi di mangiar le carote crude, per esempio, o le mele, la frutta acerba, i finocchi sempre crudi, che adoravo) adesso sembrano diluirsi, permettendomi qualche assaggio. Inoltre ho maggiore resistenza sia alla sforzo fisico sia a quello mentale. Se a quindici anni avessi avuto la costanza e la concentrazione che ho adesso non avrei fatto tutta quella fatica al liceo. E corro. Quasi tutti i giorni. Tre volte la settimana per un'ora, il resto trenta minuti, appena sveglio. Me lo avessero chiesto tre anni fa avrei preferito impiccarmi subito, al primo albero. Tengo le dita incrociate e riconosco che sono fortunato, non avendo acciacchi, non conoscendo cosa sia il mal di testa e provando una volta all'anno quello di stomaco, con pressione arteriosa e colesterolo sempre sotto controllo (ma lo dico sottovoce, a labbra strette, perché so quanto sottile è il filo che sostiene la buona sorte e di solito i primi che se ne vanno sono proprio quelli di cui si dice: "Ma guarda un po'. E pensare che fino a ieri stava benissimo").
Molte cose migliorano con l'età, dicevo, e io ne sono testimone. Una sola cosa non comprenderò mai: come mai madre natura risarcisca la caduta dei capelli con la crescita dei peli nelle orecchie!
Ecco, questo rimane ai più un mistero. E ora vado, perché al mio aspetto ci tengo e le pinzette mi aspettano...

mercoledì 1 maggio 2013

Primo maggio

Foto by Leonora
Ieri ho conosciuto una persona carismatica, che senza essere invasata porta avanti la sua idea, testimoniando il valore della libertà non soltanto con le parole, ma con la vita.
Di Yoani Sanchez parlerò però un'altra volta: troppe sono ora le emozioni, i concetti, i sentimenti che rimbalzano tra cuore e testa. Farò un po' di silenzio, in modo da fare decantare il tutto e conservare il meglio di una visita straordinaria, qual è stata quella della giornalista cubana al Cittadino di Monza.

Oggi è il primo maggio, festa dei lavoratori, e qui voglio mettere in fila qualche idea sparsa proprio sul lavoro, su quella condizione umana necessaria da un lato e utile, dall'altro, non tanto per fare soldi, quanto per campare, per guadagnarsi pane e desideri di vita.
Penso a mio zio Emilio, classe 1924, diventato garzone di un'officina di fabbro a dieci anni e meccanico per il resto dell'esistenza. Penso a mio zio Gianni, classe 1937, a undici anni mandato in una piccola vetreria o a mio padre, anch'egli del '37, che neanche ebbe il tempo di concludere la quinta e già era per la campagna, a falciare l'erba e fare fieno e poi in stalla, a mungere mucche e dare da mangiare a polli e maiali. Penso a mia madre, anno di nascita 1940, che prima dei quattordici anni faceva andare i telai alla Clerici e Tessuto o a sua zia Angelina, venuta alla luce nel 1912, anch'essa impiegata in una filanda e la sera e la mattina presto a fare mestieri, in una casa privata.
Penso a tutti loro quando sento la retorica del lavoro e della dignità che esso aveva una volta. Ultimo in ordine di apparizione Riccardo Bonacina, con il suo raccontare di come un tempo l'importante era fare una cosa bene in sé, non per il salario né per lo stipendio che si riceveva.
Balle. Siamo figli di generazioni che hanno sacrificato i loro anni migliori, che si sono spezzate la schiena semplicemente per campare, per fare da respingente a una miseria nera. E anche se adesso è dura, se la crisi morde, se tante persone hanno nel cuore la pena di un'occupazione che manca (lo dico con rispetto e pure con empatia: ne conosco anche vicino a me, carne della mia carne), sono certo che siamo comunque anni luce avanti e in condizioni migliori di quelle in cui stavamo prima.
Non aggiungerò dunque retorica alla retorica del primo maggio, limitandomi a constatare che avere ricevuto in dote una fortuna non mette al riparo dal sciuparla, dal dilapidarla. Allora la giornata di oggi sarà di festa non in sé e per sé, bensì in segno di rispetto per chi non poteva (non può) fermarsi mai, per chi andava (o va) a lavorare da bambino, per chi non aveva (non ha) altra scelta.
Vivere senza lavorare per me è inconcepibile, ma parimenti non esiste dignità del lavoro quando la condizione del singolo individuo è disperata e si accetta di tutto, accada quel che accada. Sono questi i due estremi, inacettabili entrambi, mentre nel mezzo la discussione su quanto è determinante e utile il lavoro può esser fatta.