sabato 23 febbraio 2013

Le elezioni di Giacomo

Foto by Leonora
Devo essere un inguaribile romantico, poiché se un mese di bombardamento elettorale mi ha gettato nello sconforto più totale, sono invece bastate poche ore di silenzio per sgombrare la mente dalle ombre e declinare al sereno le nubi nere.
Sarà che tanto peggio di così difficilmente potrà andare, sarà che qualsiasi cosa accada sarà un parlamento rinnovato per oltre la metà di deputati e senatori, sarà che in molte componenti - da destra a sinistra e viceversa - noto tanti cani sciolti (sciolti l'ho aggiunto per pudore, potevo fermarmi ai cani) ma altrettante persone degne, sta di fatto che sono più ottimista oggi di ieri.
Così ho preso una decisione: per la Camera dei deputati farò votare mio figlio Giacomo, sedici anni appena compiuti. Ci ho pensato e ripensato, l'ho visto interessarsi ed essere partecipe delle vicende elettorali, ci siamo confrontati a viso aperto e l'ho sentito scambiare opinioni articolate con i suoi coetanei, ha un'età che in America puoi già andare in auto e lo considero responsabile, continuo a ripetere che dei giovani ci si dovrebbe fidare, non trovo una sola ragione per cui non dovrei cominciare nel mio piccolo a cambiare le cose. Oggi, a pranzo, gliel'ho detto. "Giacomo, mi ha fatto molto piacere vederti attento a quanto accade nel nostro Paese, domani dimmi per chi voteresti tu e io prometto di mettere la croce dove lo desideri". Non ha fatto salti di gioia, non ha esultato come quando segna la Juve, ma mi è parso soddisfatto e cosciente che non si tratta affatto di uno scherzo, che è una delega in bianco che può spendere come meglio crede. Per il Senato darò dunque retta alle ragioni della testa o del cuore, per la Regione uguale, ma alla Camera il mio voto sarà il suo, perché siamo una famiglia, siamo un Paese che gioca non soltanto la propria partita, ma pure quella dei nostri figli, ed è giusto che se li riteniamo maturi possano dire la loro, anche se è potenzialmente dissimile dalla nostra, da quella di noi adulti.

giovedì 21 febbraio 2013

La marcia indietro

Foto by Leonora
E' soltanto questione di tempo. Non sempre, spesso. Me ne accorgo ascoltando le canzoni anni Settanta di Renato Zero, che biasimavo e persino irridevo quando ero ragazzino e mi piacciono adesso. Non è l'unica musica che ho rivalutato. Quella degli anni Ottanta, ad esempio. O i film di Verdone. Chissà se il vintage ridarà lustro anche a questo nostro tempo magro. O forse è grasso senza che ce ne accorgiamo, semplicemente perché ci siamo seduti, abituati al comodo, diventati un tutt'uno col divano. Parlo della testa, non del corpo. C'è intanto un uomo che invidio: il papa. Papa, maiuscolo. Ma non è lui, non è Benedetto Decimo Sesto, bensì l'uomo, Joseph Ratzinger, il teologo che per il bene della Chiesa s'è tirato da parte, rimettendo Dio e la fede al centro. Sì, la fede, poiché soltanto chi crede profondamente sa che è facendosi piccoli che si diventa grandi davvero e che la preghiera dell'umile cristiano vale più di tutti i simboli e i paramenti di prezioso broccato. Lo invidio perché tra pochi giorni potrà dedicarsi ai suoi libri, agli studi, alla passione che ha sempre avuto. Mi pare, nella sua banale straordinarietà, un gesto profetico. Il segno che il potere, il denaro, il dominio dei beni materiali hanno un limite e che anche quando il senso sembra unico, c'è sempre una possibilità: mettere la marcia indietro.

domenica 10 febbraio 2013

Un segno di vita (dall'hotel Mille Flebo)

Foto by Leonora
Raffaele tace spesso e lo rispetto ancora di più per questo suo comprimere emozioni e parole. Rosy, sua moglie, è più sanguigna, passionale, entusiasta. Discutiamo di politica con opinioni differenti ma senza arroccarci su partiti, schierimenti, bandiere da sventolare o da bruciare, bensì confrontandoci sui problemi concreti: scuola pubblica e privata, sanità, amministrazione comunale... Ci animiamo, talvolta alziamo pure la voce eppure l'amicizia, il rispetto per l'opinione altrui fa sempre premio sulle convinzioni personali e ci incontriamo sempre, anche quando restiamo distanti. Merito dell'estrema pulizia che distingue entrambi, con zero interessi e un solo interesse: il bene comune, le scelte migliori per una società più giusta, fraterna, libera.
Debbo a loro - oltre che a mia moglie Isabella e a mio figlio Giacomo - il cordone ombelicale che ancora mi tiene legato all'amministrazione del mio paese, che in tre anni mi ha visto passare da una cordiale accettazione del vincitore (il sindaco Palamara) a una siderale distanza fino all'insofferenza di questi tempi, poiché l'uomo tutto sommato mite d'inizio mandato s'è trasformato in un despota, che non sente ragioni altrui e fila dritto per la sua strada. Non discuto la facolta che ha di scegliere (è un suo diritto) ma il rifiuto del dialogo e la prepotenza con cui nei fatti cancella il dissenso. Raramente ho incontrato una persona che nei fatti nega così palesemente ciò che professa a parole: dice di essere il sindaco di tutti, non lo è. Non è il mio, ad esempio, e non lo è dal momento in cui dice: "Ascolto tutti ma ho già deciso". Mi spiace non tanto per il paese dove abito (ne ha viste delle brutte, sopravviverà anche a questo) bensì per lui, perché aveva un'occasione di riscatto politico e personale e invece ha preferito il bastone del comando all'arte del governo. Pazienza.

P.S. A proposito di amministrazione. Ieri l'altro, spulciando tra vecchie mail, ho trovato questo messaggio di auguri (tutto in minuscolo) dell'allora vice sindaco, Renato Riva. Era il 24 dicembre del 2008. Mi sono commosso nel rileggerla, poiché non ha avuto scampo dalla malattia di cui accenna lì (l'hotel Mille Flebo, come chiamava lui - ironico fino alla fine - l'ospedale di Pavia). Allora non lo immaginavo, ma ora che so com'è andata mi sembra ancor più ricca, pur nell'estrema semplicità dei contenuti. La trascrivo qui, per l'attuale sindaco Palamara, per i consiglieri di maggioranza e opposizione, per i tanti abitanti di Lurate Caccivio che l'hanno conosciuto e anche per chi non sa chi sia e soprattutto per me, orfano di un'amicizia. Finché ha vissuto Renato è stato un tessitore di reti, un costruttore di ponti e mai di muri. Nel suo piccolo, è questo il segno di vita che mi ha lasciato. Non lo ringrazierò mai abbastanza.

carissimi tutti,
ogni natale nasconde qualche regalo inaspettato e inatteso.
alcuni sono belli e riempiono la vita come il bimbo che nasce e porta la vita, quest'anno il mio è un po' diverso, ma lo stesso spero riporti alla vita di tutti i giorni con lo stesso entusiasmo di sempre e la stessa corroborata voglia di fare e di esserci per lasciare, nel nostro piccolo,. un segno di vita .
e allora ancora con tutto il cuore buon natale.

dall'hotel mille flebo  pavia          renato

giovedì 7 febbraio 2013

2013 (Il cruccio)

Foto by Leonora
Compleanni, anniversari, San Silvestro, capodanno, feste comandate e ferie rinviate, mattine, pomeriggi, giorni di sole, neve, pioggia, nuvole assortite, cene con gli amici, pranzi, partite di calcio, tutto il mese di gennaio, la fine di dicembre, l’inizio di febbraio… Ho saltato a piè pari tutto questo, ritrovandomi qui, quaranta giorni dopo l’ultimo post, troppo pigro per lasciare traccia e abbastanza egocentrico da considerarlo un cruccio.
Tutto scorre, passo anch’io, acqua agitata in un bicchiere mezzo vuoto, corridore tra milioni, consapevole che non esiste altro traguardo del baratro che prima o poi incontreremo e non risparmia nessuno, né chi ci seguirà né quanti ci hanno preceduto. Non c’è sgomento in me per tutto questo, accettazione piuttosto, forse perché nulla lascia immaginare che il prossimo giro di giostra sarà il mio e tale pensiero non smuove ancora le viscere, semmai e a malapena il cervello.
Mi spiace aver abdicato all’appuntamento fisso della parola, qui, perché so che molti sono coloro che ogni tanto passavano e vuoi sorridendo, vuoi arricciando il naso, trovavano uno spunto per tirare qualche somma e magari farsi venire un dubbio. Di dubbi sono al colmo anch’io, che non ho altre certezze oltre quelle familiari e dei molti amici e amiche che mi considerano tale, nonostante sia spesso più impalpabile di uno spettro.
Non mi piace il 2013. Ne detesto il numero. Nella mente inquadrata e zelante da ragioniere piccolo borghese che mi ritrovo è una cifra troppo dispari per prenderla in simpatia da subito. Lo associo a un quadro sbilenco di Picasso, alla confusione in una piazza di Città del Capo, ai rottami di un aereo… Non so perché. Mi sta sull’anima e non è all’anima che pensavo. Forse è per questo che ho aspettato oltre un mese qui, prima di inaugurarlo. Rompo l’indugio essendo un convinto assertore delle profezie che si auto avverano, nel timore irrazionale ma veritiero che più lo prendo di buzzo cattivo, più quest’anno si rivelerà antipatico davvero. Così, per esorcizzarlo, lo blandisco, tributandogli un moderno sacrificio: confessare una delle (poche) cose di cui in vita mia sono pentito e di cui profondamente mi vergogno: un anno, alle elezioni, ho votato Rutelli Francesco. Possano i miei figli perdonarmi per questo, di avere un padre che a volte non sa distinguere la polpa dal sottovuoto.