domenica 30 dicembre 2012

Il destino delle talpe

Foto by Leonora
Faccio cose, vedo gente... Scrivo meno qui anche per quello, per un incontro più personale che astratto, anche se aggiungere questi sassolini di Pollicino mi aiuta a fare chiarezza, a trovare di ogni matassa il bandolo. Il pensiero che più mi accompagna è quello della decadenza, del perenne equilibrio tra ordine e caos, tra bene e male.
In questi giorni è nelle sale "Lo Hobbit" e con Pietro, il figlio di Angelo, ho rispolverato miti e leggende del Silmarillion. Il filo conduttore di Tolkien mi pare proprio questo: non esiste regno né giusto che possa aspirare a rimanerlo a lungo, per sempre men che meno. Tutto si corrompe, tutto si corrode e più delle grandi imprese servono i piccoli gesti, le buone azioni nel quotidiano. Vale per gli stati, per le civiltà, le generazioni, gli individui, gli eroi. Vale anche per noi, che corriamo tutto il giorno come per acciuffare la coda di volpe che ci viene fatta ballare sotto il naso e quando finalmente l'afferriamo comprendiamo che la giostra non si ferma, che il momento della soddisfazione è un attimo, che ricominciare da capo è il nostro destino.
Non è un pensiero negativo: basta accettarlo. Che il senso sia nello scorrere lo intuivano gli antichi greci, così come il Buddha e la maggior parte delle religioni che conosciamo. Ciò che mi preme non è la teoria, bensì come posso metterla in pratica io. A tutto questo pensavo oggi pomeriggio, appena tornato dalla zia Silvana a Milano e dopo aver accompagnato Giorgia a pattinare. Rimesso piede oltre il cancello la prima cosa che ho fatto è stata armarmi di scopa e andare a disperdere nell'erba gli enormi cumoli di terra lasciati dalle talpe nel prato. Non è la lotta tra il bene e il male ma ci assomiglia, almeno nel puntiglio con cui loro scavano e io rimetto a posto. Prima adottavo metodi più drastici, ora sono sceso a patti con madre natura, convincendomi che al mondo ci sia posto per entrambi, per me e per loro, per quei trapanatori senza ritegno che pure hanno un musino dolce dolce e ci si spezza il cuore quando si prova a eliminarlo. Così le lascio fare, sperando che magari sia utile anche per lo stesso prato (magari così le radici respirano) e provando compassione per loro, che dopotutto ci assomigliano: anche noi infatti, pur armati di vista e di occhiali e di tutta la nostra sapienza, in fatto di senso della vita non sappiamo scorgere più in là del nostro naso.
P.S. Ieri, all'improvviso, se n'è andata una delle persone dal volto più buono che io abbia mai incontrato. Si chiamava Marino ed era il papà del mio amico Davide. Aveva appena sessantacinque anni e dei nipotini da tirare grandi, come desidera ogni nonno. Anche di fronte a loro, a Davide, vorrei avere vista di falco, per poter dare un senso, una spiegazione al dolore più profondo. Invece resto sempre un talpa e non posso fare niente altro che stringermi a loro, in un abbraccio...

lunedì 24 dicembre 2012

Ho voluto la bicicletta

Foto by Leonora
Saluto Marco e Sonia, Simona e Francesco, che mi hanno regalato un antivigilia degna del miglior capodanno. In più sono riuscito a parlare via Skype con Mauro, che da un mese ha fatto un balzo di mezzo mondo e viaggia dieci ore avanti, di nome e di fatto. Finora il Natale non ha deluso, anche grazie alle tante persone che si sono fatte sentire, alle amicizie storiche e a quelle appena sbocciate, che mi portano in dote doni preziosi: calore e sorriso. O forse a non aver tradito questo Natale sono io, zuccone per troppo tempo, convinto com'ero di bastare a me stesso, mentre non c'è gioia senza condivisione, senza un mettersi in moto e andare incontro. Non che adesso avverta meno il desiderio di starmene per conto mio, di ritagliarmi spazi e minuti senza nessuno attorno, però do meno sponde alla pigrizia e cerco più un equilibrio. Nello scorrere dei giorni fatico a trovare un bandolo ma ho una stella polare, una linea d'orizzonte che inseguo. E' questa: aprire porte invece di chiuderle, lasciare la comodità del certo per avventurarsi un metro più in là, dove tutto è ignoto tranne la speranza del meglio. La staticità infatti logora persino il regno più solido e guai a crogiolarsi nella grandezza o nella pienezza del tempo. Una lezione che ho imparato da Tolkien e che condivido, utilizzando la metafora della bicicletta: per stare in piedi è necessario pedalare, prendere velocità, non fermarsi, altrimenti il destino è cadere e, bene che vada, sbucciarsi un ginocchio.

sabato 22 dicembre 2012

Cambiare il mondo

Foto by Leonora
Nessun Natale ha la rincorsa lunga di quando cade di martedì, con una vigilia che a volerla spremere dura tre giorni. Una manna, specie per i tiratardi come me, anche se non bisogna abbassare la guardia perché il tempo vola e inciampare è un attimo. Tra i buoni propositi che faccio ogni anno c'è quello di godermelo appieno, di dare valore e priorità alle cose che contano, come lo stare insieme agli altri, la convivialità, il dono inteso come sorpresa, pensiero per l'altro, ma mi accontenterei di non esagerare con il carattere ostico e gli sbalzi d'umore da nervosismo. Come tutte le vette, infatti, Natale può altresì rappresentare un abisso. Forse è per questo che a molti non piace e alcuni proprio lo detestano: il Natale amplifica tutto, nel bene e pure nel male.
La solitudine ad esempio. Immagino che nessun altro giorno possa essere triste come un Natale passato senza affetti, qualcuno da poter invitare o essere invitato. Ma anche la malinconia, il dolore per le persone care che non ci sono più. Nelle altre settimane dell'anno è una ferita con cui coesistiamo mentre in queste feste torna a bruciare, sale sparso sulla carne, fitta che si insinua inesorabile sotto pelle e stringe il cuore, desiderio di tornare ai momenti sereni che invece non ritorneranno più, così come l'abbraccio di una madre, il sorriso di un padre, l'allegria di un figlio, certe tavolate che via via si sono spolpate, lasciando ora soltanto pareti grigie e il chiasso gelido di un televisore acceso.
Persino nella compagnia però il Natale può fare da apice alle tensioni, ai contrasti magari rimandati per assenza di incontro. La litigata più feroce tra mio padre e mia madre fu la mattina di un Natale di moltissimi anni fa. Avrò avuto otto anni e ricordo le urla che mi svegliarono nel sonno, i rimbrotti vicendevoli, le accuse, le offese, la rabbia che montava e io impotente, appena oltre la soglia della cucina, con gli occhi e i pugni chiusi, insieme al terrore che fosse la fine di tutto e l'unico desiderio che la smettessero, che facessero la pace, che tornasse l'armonia. L'armonia tornò, non ho memoria se già nel pomeriggio di quella giornata o a Santo Stefano o la settimana dopo.
Mio padre e mia madre erano caparbi e nessuno dei due sottomesso all'altro, si fronteggiavano come leoni nella savana, rizzando la criniera e mostrando denti ed artigli (senza tuttavia che mai una mano fosse alzata o che l'aggressività delle parole sfociasse nella violenza del contatto). Li detestavo per questo, giuravo a me stesso che sarei stato differente, invece sono cresciuto a loro immagine e somiglianza. Me ne accorgo da una mezza frase di Giovanni, oggi, dopo una banale seppur vivace discussione tra me e Isabella, di quelle che hanno tutti i mariti e le mogli, credo. "Litigate sempre" sussurra, quasi tra sé e sé, e a me si scioglie il cuore, ripiombando quarant'anni addietro, quando alto un metro e cinquanta e preoccupato ero io. Spero che lui sia migliore di me, che non ripeta i miei errori, anche se ne dubito. Più dai bei discorsi come questo, infatti, i nostri figli imparano dall'esempio. Perciò, invece di ostinarmi nell'ottenere ragione, faccio leva su me stesso e stacco il piede dall'acceleratore, facendo spuntare un sorriso. Ci vuole così poco a cambiare il mondo. Peccato me ne ricordi e lo metta in pratica così poche volte all'anno.

sabato 15 dicembre 2012

Manifesto (domestico) contro il populismo

Foto by Leonora
Onestà intellettuale. Ragion di Stato. Populismo.
Parole che restano vuote in assenza di un significato, di una comprensione che vada un passo più in là della definizione sul vocabolario. Provo a farlo, pescando nelle vicende domestiche e nei discorsi a spizzichi e bocconi di stamattina.
Onestà intellettuale è quando assaggio il purè di patate e pur trovandolo gustoso mi pare che manchi qualcosa, forse più burro, o il latte, e lo chiedo a Isabella, che l'ha fatto, e subito mi risponde risentita - proprio come faceva mia madre - dicendo che è normale, che l'ha fatto come al solito, che sono io il difficile, il mai contento, che lei è stufa, che insomma, in più che lo fa, deve sentire anche lagnanze e sbuffi. Generalmente, quando accade, ci mandiamo a quel paese reciprocamente, senza ascoltare minimamente le ragioni dell'altro. Oggi no, oggi evito di offendermi e con l'aiuto di Giorgia convinco Isabella ad abbandonare la difesa istintiva e a provare a sua volta, ad assaggiarlo, a dire cosa ne pensa. "Mmmhhh, è vero, può darsi, c'è qualcosa... è, come dire, è... farinoso. Sono le patate". Oh, finalmente! Posso rimettere il cucchiaio di legno nella pentola e tornare a servirmelo a cazzuolate, senza ritegno. E' farinoso, è vero - e io che non riuscivo a trovare la parola, ad abbinare la sensazione a un aggettivo - ma è tremendamente buono lo stesso. E Isabella mi è stata di conforto, dimostrando "onestà intellettuale" appunto.
La "ragion di Stato" invece me la spiega lo zio Emilio, ottant'otto anni lo scorso mese di maggio, raccontandomi di quando era prigioniero in un campo di lavoro tedesco, durante la seconda guerra mondiale. Non ne parla spesso, o meglio, di questi tempi lo fa assai più volentieri mentre per una vita intera è stato sfuggente, evasivo. Vai a capire le reazioni dell'essere umano. Comunque oggi, non so perché, incappiamo nel discorso e lui dice che quando il Duce venne liberato dal Gran Sasso e portato in Germania il governo di Hitler concesse ai prigionieri italiani un trattamento migliore, che si tradusse come prima cosa nel togliere i lucchetti alle baracche, permettendo loro di andare avanti e indietro. "Io ero un ragazzotto - mi dice in dialetto - ma c'erano uomini di trenta, trentacinque anni che si fecero una vita. Di tedeschi in giro ce n'erano pochi, erano tutti al fronte, lì rimanevano le donne. Senza uomini". Un sorrisetto malizioso ma non ostentato, come pensando tra sé e sé, fa da chiosa all'ultima frase. Ci penso un secondo e lo incalzo: "Zio, tu mi hai insegnato a essere antifascista, ma allora il Duce qualcosa di buono l'ha fatto". E lì l'Emilio si anima, drizza il busto, ti fissa dritto negli occhi e a voce più alta di prima dice: "Certo! Per noi lì la vita era cambiata!". Ora sono io a sorridere, vedendolo ringalluzzito, e penso alle tante volte in cui critichiamo quel tale presidente perché ha ricevuto o non ha ricevuto il Dalai Lama oppure il Papa, quando fece visita al Cile dei Colonnelli. Un gesto incomprensibile nel due più due fa quattro della logica, ma che probabilmente ha comportato (o non comportato) conseguenze per decine di migliaia di persone.
Ecco, populismo è quando si grida alla vergogna, allo scandalo, o viceversa al plauso, senza badare con onestà intellettuale alla ragion di Stato che induce a comportarsi o non comportarsi in un certo modo.
P.S. Tanto per chiarire, controllare i rimborsi spese dei consiglieri regionali e renderne pubblico il rendiconto, anche attraverso i giornali, è sintomo di trasparenza e senso civico. Dire che sono dei furbi, dei vigliacchi, allorché si scopre che hanno usato i nostri soldi per farsi i porci comodi loro non è populismo, bensì un sano e consapevole rifiuto di farci prendere per il c...

sabato 8 dicembre 2012

Allargare la tavola

Foto by Leonora
"E quando mi verrà in mente di non invitare questo amico o quel parente perché la casa è già piena, scaccerò il pensiero: importante non è la comodità, bensì la compagnia". L'editoriale sul giornale che oggi è in edicola lo concludo così, pro memoria per me stesso e per chi il Natale imminente non vuole che sfugga via, giorno qualsiasi o addirittura da scavalcare a piè pari, fastidio senza gioia.
Aggiungi un posto a tavola era anche un musical degli anni Settanta, con Johnny Dorelli. Mi pareva retorica invece conteneva un seme buono, che riscopro ora, eleggendolo a motto per i giorni che arrivano e segnando tre buoni propositi da mettere in pratica.
  • Invitare o farsi invitare a Natale e a Santo Stefano (ma vale anche la vigilia), facendo esercizio di generosità e, se è il caso, di faccia tosta.
  • Mettere da parte la pigrizia e rinunciare a qualche sera al calduccio, davanti alla tv, andando a bussare alla porta di chi non vediamo da un pezzo, contando sul fatto che la sorpresa scioglierà qualsiasi imbarazzo o reticenza.
  • Pensare più al biglietto che al regalo, scrivendo per ciascuna delle persone care e anche ai semplici conoscenti una vera lettera, in cui ricordare la prima volta che ci si è visti e il pregio che si riconosce all'altro (c'è sempre un pregio nell'altro, persino in coloro che sono simpatici quanto una falange dell'alluce spezzata contro lo spigolo di una porta). Le parole buone sono una medicina doppia: per chi le riceve e per chi le dona.
Natale, più di ogni altra cosa, è un'occasione. Cogliamola.

sabato 1 dicembre 2012

Le quattro forze


Foto by Leonora
Eccolo, l'ho ritrovato, il ritaglio di giornale che mi aveva messo di buon umore, qualche settimana fa. Un articolo del giornalista americano Steven Kotler, controcorrente rispetto al pessimismo dominante, con la prospettiva di un nuovo tempo di serenità ed abbondanza. E' stato pubblicato sulle pagine di cultura del Corriere della Sera, il 17 ottobre scorso, con il titolo "Quattro forze salveranno il mondo". Signore e signori, eccole: high tech, innovazione fai da te, tecnofilantropia (i soldi investiti in opere umanitarie da chi con la tecnologia somma guadagni stratosferici) e nuovi popoli emergenti.
Ora che lo rileggo però mi pare non mi lasci convinto come quando gli ho dato una sbirciata la prima volta. Forse sono io più scettico oppure contava l'effetto sorpresa. Ad ogni modo, che il futuro possa essere migliore di come spesso lo si dipinge credo dipenda non da fattori esterni, bensì dall'approccio che abbiamo noi verso la vita. La ristrettezza dei beni materiali raramente incide sulla felicità, che invece è alimentata dalla relazioni, dagli affetti, dal benessere più che dal "benavere". Le tecnologie in questo possono essere un conduttore straordinario, pur se sbaglia chi si illude che da sole possano colmare il vuoto, la solitudine, il senso di disorientamento che spesso ci accompagna. Sono un mezzo, appunto, non il fine. Posso essere in contatto tramite Facebook, Twitter, Wazzup con mezzo mondo, ma se con nessuno si crea un rapporto di affetto, di scambio, di empatia, rimango la bollicina di acqua Lete, sola e sperduta.

domenica 11 novembre 2012

Casa Bardaglio

Foto by Leonora
Quarant'anni, un giorno. Era l'11 novembre 1972 e (come ho già raccontato cinque anni fa, in questo post) ci trasferimmo nella casa dove tuttora abito e che è sempre stata la mia, anche nei dieci anni in cui - appena sposato - abitai in via Varesina, a quella giusta distanza che secondo i vecchi occorre mettere tra nuora e suocera, "non troppo lontano, non troppo vicino, abbastanza per vedere il fumo dell'altrui camino".
Le mura sono le stesse di allora ma molto è cambiato, interpretando i tempi e marcando le differenze con il mondo rurale in cui i miei genitori sono cresciuti e che è scomparso da un pezzo. Mio padre poi non c'è più e con lui, oltre alle braccia che l'avevano creata, se n'è andato lo spirito autentico, quel bisogno di avere un posto tutto per sé, dove se vuoi mettere un chiodo nella parete nessuno può impedirtelo. Un orgoglio che io mantengo, perché l'ho vissuto sulla mia pelle, che mi ha marchiato a fuoco, ma capisco di essere comunque anni luci distante dall'ostinazione, dalla caparbietà che aveva lui, uomo di un'altra stoffa e di un altro tempo. Una determinazione che i miei figli - lo so - avranno ancor più diluita e i figli dei miei figli probabilmente neppure avvertiranno ed è per questo che due giorni prima di morire, in uno di quei dialoghi che abbiamo avuto la fortuna di avere e in cui ci siamo detti tutto l'essenziale che c'era da dirsi, con lui sono stato onesto: "Papà, lo sai che ti ho visto tirar su questa casa, conosco i sacrifici che hai fatto e quanto ci tieni anche se adesso non sembra importarti di nulla perché tutto sembra perso, ma voglio prometterti lo stesso che finché ci sarò io farò di tutto per tenerla, perché non sia sciupato ciò che hai fatto. Ed è una cosa che cercherò di far capire anche a Giacomo, Giorgia, Giovanni, anche se, lo sai, non posso assicurarti che lo faranno, e poi accada quel che accada, perché tanto in eterno non dura nessuno". Lui sorrise. Non un sorriso amaro, un sorriso disteso. "Và ben". Va bene, disse, in dialetto. Lo considerai un testamento.
Tra le molte cose di cui mi sono pentito, invece, c'è la pigrizia con cui me ne occupai quando lui era in vita. Ero più giovane, pensavo ad altro e soprattutto pagai il carattere tendente al rimando. Quante volte, in questi cinque anni, ho sistemato qualcosa (il tetto del garage, la recinzione, l'aggiunta di un nuovo pezzo di prato, il cancello elettrico...) rimpiangendo di non averlo fatto prima, quando lui ancora c'era e avrebbe potuto vedere, sapere che anche senza di lui ce la saremmo cavata, avremmo migliorato le cose e non fatto andare in malora tutto. La cosa di cui andrebbe più fiero sono le tredici tessere di ceramica con altrettante lettere dell'alfabeto che abbiamo incollato all'entrata, accanto al cancello. C'è scritto "Casa Bardaglio" e in due parole è detto tutto.

Gocciole d'abbondanza e fabbriche d'infelicità

Foto by Leonora
Prima che il giorno dilegui e pioggia si aggiunga alla pioggia, appunto qui un pensiero che m'è venuto stasera, guardando Giovanni che cinque giorni fa ha compiuto dieci anni ed è uno splendido bimbo, anche se forse con troppe Gocciole in corpo ("Papà, non è colpa mia se sono così buone. E poi con le Gocciole puoi vincere un'iPad 3. Magari lo vinciamo!" mi dice, quando lo guardo con fare di rimprovero). Dieci anni. A dieci anni suo prozio, lo zio Emilio, classe 1924, entrò per la prima volta in fabbrica, un officina di fabbro, dove cominciò a lavorare dalle sette del mattino alle sei di sera. Dieci anni. Mio padre fu più fortunato, cominciò ad undici, così come il fratello di mia mamma, lo zio Gianni, spedito in vetreria per nove ore al giorno a smerigliare bicchieri e vasi di cristallo nell'acqua gelata. Non pensavano all'iPad3 e men che meno si sognavano le Gocciole: era già una fortuna se a cena, insieme al caffèlatte, c'era del pane o una fetta di polenta.
Come faccio a spiegarlo ora a Giovanni, come posso immaginare io stesso che un bimbo così piccolo possa esser trattato da schiavo più ancora che da operaio? Eppure non sono passati secoli: sessant'anni appena, una generazione sì e no. A questo penso quando leggo della crisi, che durerà forse fino al 2017 e cambierà nel profondo la nostra società, il nostro stile di vita: saremo tutti più poveri, senza sicurezza alcuna. Senza sicurezza, ma comunque anni luce avanti alla miseria di una nazione intera, sessant'anni prima. E se ce l'hanno fatta loro, se non si sono spezzati le ossa, uscendone anzi rafforzati, perché non dovremmo farcela noi, perché dovrebbe essere tutto nero ciò che ci aspetta? L'unico pericolo è che sprofondino soltanto alcuni mentre altri rimangono a galla, evidenziando disparità che alla fine lacerano una comunità e fanno da premessa alla tragedia. Sessant'anni fa c'erano sì i ricchi, ma la netta maggioranza delle persone viveva una condizione comune di indigenza e accettare il poco era scontato, così come la consapevolezza che soltanto unendo le forze si poteva crescere e migliorare le condizioni di vita. Oggi il privilegio è la normalità e sarà più difficile adeguarsi al ribasso, però potrebbe non esserci alternativa. Tanto vale allora ricordare da dove siamo partiti e cominciare ad accettare il principio che qualche rinuncia nella nostra condizione di benessere è comunque poca cosa se rapportato a chi davvero a questo mondo non ha nulla e a dieci, undici anni viene spedito in fabbrica.

mercoledì 7 novembre 2012

Una questione educativa (grazie al Menaggio Calcio)

Foto by Leonora
Molte nubi ci sono all'orizzonte della nostra convivenza, eppure non scompare la speranza. Me ne sono reso conto tra ieri e oggi, per una vicenda legata al calcio. Domenica infatti, durante una partita tra ragazzi, sono stato testimone e indiretto protagonista di un episodio non tremendo ma comunque spiacevole. Il giorno dopo, cacciando la pigrizia e una sorta di pudore, ho deciso di scrivere ai dirigenti della squadra avversaria e vorrei mettere qui lo scambio di mail, a dimostrazione che nel nostro piccolo possiamo fare tutti qualcosa e che la brava gente c'è ancora.

Prima mail, mandata da me al Menaggio Calcio.


Carissimi,
mi chiamo Giorgio Bardaglio e vi scrivo per un episodio spiacevole capitato ieri, domenica 4 novembre, nel corso della partita della categoria Allievi tra Menaggio e Parediense, la società dove gioca mio figlio Giacomo.
Sul finale della partita – una partita tosta, maschia, accesa, con asprezze da ambo le parti e non favorita dal brutto tempo – mio figlio è stato colpito a freddo con un pugno da un giocatore della squadra avversaria.
L’episodio in sé non ha avuto conseguenze: mio figlio è grande e grosso più di me e anzi, dopo l’episodio, ha addirittura segnato, tanto che nel dopo partita per sdrammatizzare gli ho detto che il pugno lo aveva svegliato, ma vi scrivo perché secondo me una società storica e seria quale siete dovrebbe chiamare da parte quel ragazzo e spiegargli che un simile gesto è inaccettabile.
Il ragazzo in questione furbo crede di esserlo senz’altro, tanto che prima di mollare il cazzotto dietro l’orecchio, ha aspettato che l’arbitro si voltasse verso le panchine per dare l’autorizzazione a un cambio, ma non ha considerato che tutti i presenti in tribuna potessero invece vedere quanto accadeva, tanto che oltre alle urla dei tifosi del Paré i rimproveri al ragazzo sono arrivati anche dal pubblico di casa.
Di tutto questo avrei fatto a meno di parlare, anche perché sono dell’idea che finita la partita tutto ciò che accade in campo debba essere dimenticato, ma m’è venuto lo scrupolo perché ciascuno di noi, nel nostro piccolo, può aiutare i ragazzi a capire quando sbagliano.
Non mi interessano interventi plateali o altro, semplicemente mi piacerebbe che il presidente o l’allenatore prendessero da parte quel giovane calciatore e gli dicessero che gli adulti non sono fessi, che può farla franca con l’arbitro ma tirare un pugno arrivando alle spalle, a gioco fermo, è un gesto da vigliacco, che non fa onore a lui e tanto meno alla squadra di cui difende i colori.
Con stima,
Giorgio Bardaglio

Seconda mail, la risposta del segretario del Menaggio Calcio al sottoscritto.


Buongiorno,
sono il Davide Spaggiari segretario dell'A.C. Menaggio e domenica mattina ero presente al campo. Lei ha perfettamente ragione, è stato un episodio molto spiacevole, non ho ancora avuto modo di parlare con il ragazzo, lo farò questa sera nello spogliatoio prima degli allenamenti.
Mi permetta un appunto (assolutamente non critico nei suoi confronti, anzi dal tono severo ma pacato della sua lettera ritengo che sui valori dello sport la pensiamo allo stesso modo) il buon esempio lo dovrebbero dare per primi i genitori che sono in tribuna, accettando le decisioni sbagliate del direttore di gara senza isterismi, evitando di provocare ed insultare i giocatori (ho sentito dare del "bastardo", non da un ragazzo ma da un signore di 45/50 anni, al nostro n.10 dopo che aveva fatto un duro intervento che pur meritevole del cartellino giallo non era volontario ma determinato dalle condizioni del terreno di gioco). Quanto detto vale anche per i genitori della mia società. Ho minacciato più volte di chiudere il cancello e di disputare la e partite a porte chiuse, arriverà il giorni in cui lo farò.
Probabilmente il nostro giocatore domenica non sarà convocato, però Noi (inteso come adulti) dovremmo essere i primi a dare il buon esempio.
Cordialmente.
Davide Spaggiari

Terza mail, la mia replica


Caro Spaggiari,
Lei ha perfettamente ragione e io stesso, oltre a essermi vergognato, ho più volte cercato di calmare alcuni genitori (uno in particolare era esagerato).
In generale il comportamento di certi papà e mamme è ben peggiore di quello dei ragazzi, con parolacce e insulti indicibili, frutto di cattiva educazione e probabilmente anche di frustrazione personale. Un atteggiamento che mi fa cadere le braccia. Al contrario mi commuove (e mi dà energia e speranza) la sua risposta, così come ho apprezzato moltissimo la correttezza dei genitori del Menaggio che erano accanto a noi e che non sono caduti nelle provocazioni. A questo proposito voglia far loro i complimenti da parte mia, perché a fine partita se ne sono andati subito e non ho avuto il tempo e anche il coraggio di farglieli di persona. Anche per rimediare a questa assenza di coraggio ho deciso di scriverle e sono contento di averlo fatto. Non chiuda dunque la porte, dia fiducia alle persone, anche se a volte non la meritano: lo sport ha ancora un futuro roseo se esistono società come il Menaggio e "il Davide Spaggiari" che se ne occupa.
Rinnovo la stima,
Giorgio



Morale

I ragazzi sono appunto ragazzi e possono sbagliare. Sta a noi adulti dare il buon esempio e non comportarci con indifferenza: se i miti si tengono per mano non c'è prepotente o esagitato che possa averla vinta.

domenica 21 ottobre 2012

Settecento (giusti giusti)

Foto by Leonora
Per fortuna non esistono compleanni per i blog, altrimenti diventerei rosso: mi sono ricordato soltanto ora che le mie "20righe" il primo ottobre scorso hanno compiuto cinque anni tondi tondi, un lustro. Non esistono compleanni per i blog e neppure cerimonie per le cifre tonde dei post, altrimenti ora starei spegnendo settecento candeline, una per ogni pagina che ho scritto. Una montagna immensa, che a guardarla da quassù fa venire il capogiro tanto è alta, imponente e incredibile è pensare che l'abbia costruita tutta io, che se l'avessi immaginato, all'inizio, dal tremore non mi sarei neppure cimentato. Invece eccomi qua, cinque anni e settecento post dopo, assai più di un libro, il libro che mai scriverò e che ho giá scritto. La cosa che mi stupisce di più, lo ammetto, è rileggerlo. Mica tutto, che ci vorrebbe un mese, ma a spizzichi e bocconi, un po' come capita, per caso. La maggior parte delle volte non mi ricorso nulla, tanto che la sorpresa è massima e mi perdonerete la vanitá se scrivo in tutta sinceritá che quasi sempre il commento tra me e me è questo: "Caspita, ma che bella cosa che ho scritto!!??". Nove volte su dieci non mi sembra vero che a scrivere sia stato io, tanto che se non le trovassi qua, sul mio blog, ma le leggessi da qualche altra parte, non rivendicherei alcun diritto e mi limiterei ad applaudire beato, invidiando lo sconosciuto autore che invece sono proprio io. Chissá se per gli scrittori è lo stesso, se rileggendosi a distanza di anni provano il medesimo rinnovato stupore che provo io, nel mio piccolo. Devo ricordare di chiederlo la prossima volta che ne incontro uno.
Intanto, per confermare ciò che ho scritto e celebrare in qualche modo questa doppia ricorrenza, scelgo dal mazzo e ripubblico proprio uno di quei post in cui sono incappato ieri l'altro e che non avrei affatto riconosciuto. Ha per titolo "I giusti che salvano il mondo", parla di una domenica di maggio dell'anno scorso e cita una poesia di Borges che è un incanto. Consideratelo il mio regalo di buon compleanno.

lunedì 15 ottobre 2012

Nel mio piccolo

Foto by Leonora
In meno di ventiquattro ore oltre cinquanta persone hanno sottoscritto una frase che ieri sera ho scritto senza pensarci troppo, lì per lì, su Facebook. Le parole esatte erano: "Non so se esiste la decrescita felice ma la crescita infelice é stata per lungo tempo un dato di fatto. Forse é venuto il momento di rimettere in ordine le priorità. Meno soldi, potere, beni materiali, più amicizia, convivialità, cultura...".
Il limite di certe frasi a effetto è che raramente il principio si declina nel concreto, mentre io nel mio piccolo, vorrei farlo. Vorrei comprare soltanto le camicie che mi servono e mai più fare un acquisto solo perché si trova in saldo o scontato del cinquanta per cento (potrei elencarvi almeno dieci boiate comprate all'outlet o al grande magazzino di turno, che mi sembravano un affarone e poi, una volta tornato a casa non le ho più tolte dall'armadio). Vorrei prestare più libri e farmi prestare più cd. Vorrei cenare più spesso dagli amici e averli ospiti a mia volta, un giorno alla settimana fisso (o anche due, che di ospitalità non è mai morto nessuno); vorrei piantare più verdure nell'orto e mettere una serra, così non ho venti chili di pomodori tre settimane all'anno ma mezzo chilo la settimana da maggio a ottobre; vorrei riciclare l'acqua piovana che scende dal tetto e tornare ad avere le galline, come quando ero bambino, anche se poi non ci sarebbe nessuno disposto a tirar loro il collo, ma almeno avrei le uova a chilometro zero (ora sono a chilometro uno, nel senso che scrocco quelle che mi porta Fulvio). Vorrei continuare a fare vacanze escludendo alberghi di lusso, possibilmente in bungalow di legno (adoro le case di legno) e senza pasto incluso, che così si mangia anche il giusto, senza abbuffarsi "tanto è già pagato"; vorrei vedere le partite della Juventus con la casa piena, che io a Sky non rinuncio (un vizio! non fumo, non bevo, non scommetto, non pago dolci compagnie o altro, ma il satellite no! concedetemelo!) così almeno qualche amico può risparmiare e venire a vederlo da me, senza pagare biglietto e magari - se proprio proprio - porta una torta fatta in casa da dividere in compagnia. Vorrei accontentarmi dei bicchieri scompagnati e non vergognarmi se quando ci sono ospiti non ce n'è uno uguale all'altro e il servizio completo s'è rotto da un pezzo. Vorrei avere poco ma quel poco condividerlo appieno, senza alzare steccati, aprendo a tutti la mia casa e mettendo in tavola una brocca d'acqua e, finché posso, un dito di vino, con un po' di pane e salame o formaggio, come mi hanno insegnato i parenti valtellinesi di mio padre. Vorrei accontentarmi di quello che prendo di stipendio e accettare l'idea che domani potrei anche a rinunciare a una parte di esso, pur di continuare a fare un lavoro che mi piace e che mi costa metà fatica pur se sono impegnato il doppio.
Queste e altre mille cose vorrei, per cominciare a cambiare il mio, d'un mondo, anche se non sono mai stato eccessivamente avaro o prodigo e la brama di potere non è tra i difetti di cui subisco il fascino, così come il desiderio di beni materiali, tanto che a parte le spese ordinarie di gestione famigliare non spendo gran che e potrei vivere tranquillamente un'esistenza da monaco (con Sky, mi raccomando).

mercoledì 10 ottobre 2012

Fiero di lei

Foto by Leonora
Da quattro o cinque giorni covava qualcosa e sbuffava quanto una mantice. Una locomitiva, meglio, anche se - per motivi giorni prima evidenti e poi via via sfumati - dallo scorso fine settimana non c'eravamo scambiati verbo. Così quando ieri sera l'ho vista attraversare tutta la sala, afferrare il microfono e chiedere la parola mi sarei voluto fare piccolo piccolo e scomparire persino, temendo che fosse fraintesa o che vista l'ora tarda e il clima torrido della serata la pazienza del pubblico fosse ancora più labile e poco propensa ai distinguo e alle provocazioni fuori tema (in certe circostanze la platea è una tigre, assai più propensa ad azzannare che ad essere addomesticata). Man mano che parlava tuttavia, mi rendevo conto di quanto il mio timore fosse meschino e il suo ardire evidente, limpido, contagioso persino.
Il soggetto è mia moglie, Isabella, e il contesto il consiglio comunale aperto indetto dal sindaco Palamara per spiegare le ragioni della chiusura delle scuole di via Bulgaro e l'ammassamento improvviso, improvvisato e provvisiorio nella struttura di via Volta. Una serata a cui ho partecipato per non tradire le aspettative di Isabella, appunto, e di mio figlio maggiore, Giacomo, che ha un senso civico inversamente proporzionale alla passione per la matematica.
Ora, della serata in sé non ho molto da dire. Quattro o cinque cose al massimo, a mo' di appunto.
Primo: osservando le reazioni della gente m'è parso di cogliere una rabbia, un'insofferenza, pronta a sfociare addirittura in violenza. Ormai si percepisce chiunque come "casta" dappertutto e come mi diceva Martina a pranzo, quest'oggi, "in ogni politico vedono Fiorito".
Secondo: il torto maggiore del sindaco credo sia stata la poca chiarezza e i molti punti interrogativi di tutta la faccenda, che hanno portato a una discussione surreale per qualunque osservatore esterno. Un po' come chiedere a un bambino: vuoi più bene al papà o alla mamma?
Terzo: se tutto fosse chiaro e alla luce del sole, non c'era neppure da discutere. Il sindaco nel maggio scorso, prima delle vacanze estive, avrebbe chiamato i genitori, informato dello stato della struttura di via Bulgaro e ordinato verifiche puntigliose sullo stabile, in modo da arrivare a inizio settembre con una relazione tecnica esaustiva e decidendo insieme il dà farsi, se chiudere la scuola e procedere immediatamente ai lavori oppure, in caso di nessun pericolo, avviare tranquillamente le lezioni. Così non è stato: per mesi non hanno detto nulla, poi ad agosto inoltrato la decisione e a settembre la sorpresa.
Quattro: i tempi della decisione, i modi e la scarsa informazione hanno portato il sospetto che oltre la nobile facciata dell'attenzione per la sicurezza degli innocenti si celasse un'astuta (apparentemente astuta) scelta politica, cioè quella di un valzer degli edifici scolastici, ungendo la volontà amministrativa con il fenomenale balsamo della necessità tecnica.
Quinto: più che i disagi, decisiva in questi giorni mi pare esser stata la sensazione di esser presi in giro che accomuna molti genitori. Nessuno sano di mente può infatti biasimare una scelta che va nella direzione della sicurezza, ma se sento che questo è il tranquillante per far passare altre decisioni sopra la mia testa, allora mi arrabbio e mi impunto, pretendendo chiarezza.
Per il resto, concordo con quello che ha detto Isabella, la cui scintilla che ha scatenato il sacro fuoco è stata la visita che ha fatto ieri pomeriggio nel cantiere quasi ultimato della biblioteca, che il sindaco vuole trasformare cocciutamente in scuola. "E' bellissima, un gioiello" dice Isabella, che a differenza mia non ha abbandonato la speranza che il primo cittadino si ricreda, che non compia lo scempio di fare come si fa con i vestiti vecchi, ricavando un paletot da una giacca o mettendo insieme una scarpa e una ciabatta.
"Cambiare la destinazione d'uso significa affossare definitivamente la possibilità che nel centro di Lurate sia piantato un seme di conoscenza, di dialogo, di incontro, di cultura". Questo ha detto Isabella, senza badare al fatto che sulla persona Rocco Palamara non abbiamo pregiudizi, che per noi è un onore avere per amica sua moglie Teresa e i suoi figli Giuseppe e Simone e anche lui, che abita dirimpetto a nostra cognata ed è sempre cortese, gentile. Però se come sindaco sbaglia non glielo mandiamo a dire. Mia moglie più di me, perché oltre ad esser più chiara è pure più coraggiosa ed è anche in momenti come questo che io sono fiero di averla sposata.

sabato 22 settembre 2012

Imparare a mendicare

Foto by Leonora
Mentre corro penso a nulla e tutto. A nulla perché la concentrazione è sul passo dopo passo, specie se il cammino è lungo e il ritmo serrato; a tutto perché ai pensieri capita di intromettersi senza preavviso spaziando su tutto, dai ricordi ai buoni propositi, dal contesto familiare a quello del lavoro. Stamattina, ad esempio, appena imboccato un lungo rettilineo, di quelli che prima scendono poi si alzano e formano l'incavo di un arco, m'è saltato in mente il proverbio indiano caro al cardinale Martini e che un altro cardinale, Ravasi, ha riassunto così: "La vita dell'uomo ha quattro tappe. La prima è quella dell'imparare, quando si è formati dai maestri. La seconda è quella dell'insegnamento in cui si condivide ciò che si è appreso con gli altri. La terza fase è quella del bosco, nel quale ci si ritira per ritrovare se stessi ed energie nuove. Infine, la quarta tappa è l'essere mendicanti, tendendo la mano agli altri perché ti sorreggano nella malattia e nella vecchiaia. Imparare, insegnare, meditare, mendicare: ecco le quattro tappe della vita".
E' l'ultimo tempo, quello del mendicare, che come un magnete m'ha attirato. Ho ripensato ai molti anziani che conosco, al vecchio che (speriamo) diventerò un giorno io. E mentre sbuffavo con un mantice passando dalla discesa alla salita mi si è accesa una lampadina sul fatto che - anche se non lo scegliamo consapevolmente - il mendicare, lo stendere inermi il palmo della mano, capita lo stesso. E' la vita che ce lo impone prima ancora che insegnarcelo. Il proverbio non indica allora un invito, un suggerimento, bensì un monito, un avvertire in anticipo. Non è questione di esser povero o ricco, potente o tapino, di vivere una vita in tailleur oppure con la kefià in testa e la borsa dell'Intillimano: viene un giorno, per tutti, in cui siamo nella condizione scritta nel vangelo di Giovanni e rivolta a Pietro: "Quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi" (la saggezza indiana non è dunque distante dalla tradizione del vangelo).
Io la applico ora al mio zio Emilio (zio di mia mamma), ottantotto anni, e a sua moglie Angelina, che di anni ne compirà novanta il 25 di questo mese, ma varrà anche per mia madre e per me stesso, come dicevo. Essere preparati, aver consapevolezza dell'ineluttabile, è meglio.
Al di là di tutto, a mendicare possiamo imparare già adesso (coltivando quella docilità d'animo che fa piegare persino il carattere più duro, energico, abituandoci a chinare il capo e riporre resistenze, pregiudizi, vanità e orgoglio...) anche se il proverbio indiano non la mette come quarta tappa a caso. Certe abilità infatti non si imparano a tavolino, occorre immergersi dentro, viverle nel concreto, a fondo.
Ecco, tutte queste cose pensavo mentre oggi correvo, lungo quel rettilineo tra Olgiate e Gironico, prima che fossi interrotto, preso come ero a svoltare a destra ed entrare nel bosco. Non il bosco evocativo del proverbio, un bosco d'alberi, vero, scuro, tanto che altri pensieri non potevo avere tranne quelli di non mettere il piede in inciampo. Prima però ho fatto tempo ad appuntarmi l'idea di scriverlo qui, di condividerlo con voi, certi che capirete il nocciolo della riflessione, senza archiviar queste parole come soffio nel vento.

sabato 15 settembre 2012

Universi paralleli (l'importanza dell'incontro)

Foto by Leonora
Cosa gli direi, se fosse ancora qui, non me lo domando spesso. Più che le parole tra noi, mi mancano i suoi occhi. La possibilità di mostrargli ciò che sono diventato, come ho trasformato la sua casa, allargato il giardino, tagliato il prato, potato gli alberi, sistemato i garage, come sono diventati grandi i suoi nipoti, Giacomo che gioca a calcio, che prende i funghi, ch'è diventato più alto di me, Giovanni che s'è fatto già ragazzino, che guarda la Juventus e porta i suoi compagni di scuola qui, il pomeriggio, Giorgia che fa danza, suona la chitarra, vuole cimentarsi con la banda ed è uno splendore, specie quando tiene a bada la luna che ha dentro. Con lui ho avuto la fortuna del buon congedo, ma anche il congedo migliore lascia un vuoto: il vuoto dei suoi occhi che guardano presente e futuro.
Me ne ricordo oggi, di lui, di mio padre, perch'è morto un altro Bardaglio: Ugo, di Lezzeno.
Qualche settimana fa ero andato a trovarlo, in casa di riposo, dove l'avevano da pochi giorni ricoverato. Essendo noi parenti alla lontana, era la prima volta che lo facevo, senza immaginare che sarebbe stata insieme l'ultima. Si vedeva tuttavia quanto fosse provato ed era stata la stessa moglie ad avvisarci che non si trattava di semplice vecchiaia, che c'era d'ostacolo qualcos'altro.
Di Ugo ricorderò sempre le mani diafane, dalla pelle sottilissima e quelle pupille colore del cielo quand'è giugno, un pozzo d'azzurro, turchese acceso. Sorrideva tutto, non soltanto gli occhi, quando mi vide sulla porta e compresi chi ero. Non alto di natura e reso curvo dalla malattia alle ossa, mi avvolse in un abbraccio da figliol prodigo ritrovato.
In vita, lui e mio padre si sono incontrati raramente e mai negli ultimi cinquant'anni. Abitavano a poche decine di chilometri l'uno dall'altro, senza sapere esattamente dove. Erano figli di un'altra epoca, non quella dei telefonini, di Internet, della comunicazione prima di tutto e la consapevolezza che esistevano, che erano parenti, era flebile, un riflesso d'infanzia, quando vivevano in Valtellina, mio padre appena nato e Ugo già ragazzo fatto e finito, pronto a prendere la strada dell'emigrato.
E pensare che a Lezzeno mio padre passava spesso e sono convinto che abbia incontrato più volte la moglie di Ugo, andando per lavoro nell'officina dove lei aveva un impiego, senza che entrambi avessero il sospetto dell'esistenza l'uno e dell'altro. Queste considerazioni posso farle io, che ho intrecciato le informazioni pian piano, mentre loro camminavano in universi paralleli, ignorando il filo che li univa nel destino. Ogni tanto mio padre diceva: "Sì, c'è un Bardaglio che ha casa sul lago" ma era un'ipotesi vaga, che svaniva veloce, come un fiocco di neve quando lo si tiene sul palmo di mano. Lo stesso valeva per Ugo, che una volta, tanti anni fa, passando per Lurate con il suo camion ebbe la tentazione di deviare e indovinare la strada dove la mia famiglia ha messo radici, in quel posto chiamato Barozzo, dove lui una volta era stato. "Poi però non ebbi il coraggio" mi ha detto, quando l'ho incontrato, quasi scusandosi per quella fretta nell'accantonare il proposito buono.
Chissà se finalmente si sono ritrovati, ora.
Chissà se in qualche dimensione, in qualche posto, possono finalmente incontrarsi e stupirsi e battersi la mano in fronte e darsi degli sciocchi per non essersi mai cercati davvero, per aver lasciato scorrere una vita tra mille rinvii e cose più importanti da fare mentre l'essenziale era proprio quella scartata, rimandata, lasciata in un angolo.
Ovviamente spero che esista, quel posto, perché vorrebbe dire che un giorno li raggiungerò anch'io, anello di congiunzione nello spirito. Ma se anche se non fosse così, se all'azzurro e al nero dei loro occhi facesse eco soltanto il buio, m'hanno lasciato una lezione che non scordo: qualsiasi siano gli impegni, qualunque urgenza nella vita si abbia, nulla è tanto importante da non accantonare tutto e fare visita alle persone a cui siamo legati dal sangue o da un patto d'amicizia pur siglato in un tempo lontano.

giovedì 13 settembre 2012

I loro sedici anni e il padre impreparato

Foto by Leonora
''Le risate, le litigate, le partite a carte, a muro, a schiaccia 7, la pizza alle 11 di sera, gli abbracci, le corse in bicicletta al piazzale della chiesa quando pioveva, le partite a biliardo, a bowling, le foto, le sfide a 4 player, i condomini che ci minacciavano di chiamare i carabinieri perché facevamo casino .. Bè, anche quest’estate è finita, è passata così in fretta, forse perché siamo stati davvero bene insieme, non posso far altro che ringraziarvi, dal primo all’ultimo. Grazie di tutto, grazie per quest’estate stupenda. Vi voglio bene!''.
Sulla bacheca di Facebook di Giacomo, mio figlio maggiore, leggo questo messaggio di Ilaria agli amici e in un istante torno io stesso ragazzino, con i miei sedici anni senza vuoto a rendere, il corpo allungato di botto, i capelli con il gel, le serate passate sul piazzale davanti all'oratorio, la bicicletta per spostarsi, le chiacchierate infinite con Angelo, Raffaele, Brunella, Giovanna, Paolino... Che bei tempi.
Non ne ho nostalgia perché ho vissuto quelle stagioni intensamente, immerso come nel blu profondo. Semmai guardo alla generazione che ho davanti, a mio figlio appunto, ai miei ragazzi che crescono e penso al fatto che non ero, che non sono pronto. Non so come mai, ma nessuno mi ha messo in guardia su questo periodo di passaggio dal bambino all'uomo adulto, su quel camminare in equilibrio che chiamiamo adolescenza e che scombussola tutto quanto attorno. Quando ero piccolo sì, mi dicevano che l'adolescenza era un periodo frizzante, incerto, ma non quanto peggiore fosse affrontarla da genitore, quando l'adolescente desideroso d'indipendenza non sei tu, bensì colui o colei che fino a qualche mese prima pendeva dalle tue labbra ed era con te un tutt'uno. Forse non me l'ha detto nessuno, più probabilmente sono stato distratto io, che ho archiviato la mia, d'una adolescenza, senza appunto tener conto che sarebbe stato più arduo affrontarla dall'altra parte del muro, da genitore a stretto contatto con il vulcano. Se chiudo gli occhi vedo chiaramente che ero preparato a quanto mi sarebbe toccato avendo un neonato, con pappe, seggioloni, asilo, pupazzetti, carrozzine, passeggino, e un figlio piccolo, con i primi calci a un pallone, il grembiule del primo giorno di scuola, i cartoni animati alla tv, non invece un ragazzo alto come te e che fa i suoi primi passi nel mondo.
Per fortuna, pur con tutta la prudenza del caso, mi sono capitati in sorte ragazzi desiderosi di crescere e di costruirsi una propria personalità ponendo dei paletti ma senza cercare ogni volta il conflitto. Scrivo "per fortuna" perché posso permettermi di essere un padre di buona volontà anche se niente affatto preparato.

lunedì 10 settembre 2012

Sono tornato (il frutto è maturo)

Foto by Leonora
Ho aspettato. E aspettato. Aspettato, aspettato, aspettato e quando ero stanco di aspettare, ho aspettato ancora un poco. Un mese. Più di un mese. Un mese e qualche giorno, prima di rimettere testa e mano qui, in un diario che mi accompagna da quattro anni e che non volevo finisse per diventare banale, scontato. Così ho aspettato, prendendo lezione dalla terra, dai campi lasciati a maggese e dall'uva, ch'è tanto più dolce e gustosa quanto arida di pioggia è la stagione che le dà frutto.
Non è stato un mese vano, l'ho vissuto intensamente, per buona parte al lavoro e per l'altrà metà a riposo, a casa o in giro per l'Italia, Toscana, Umbria e Basilicata sopra tutto. Ho letto molto, mangiato, bevuto in compagnia e rimasto sovente con me stesso, osservando un sacco, la natura in primo luogo. Del molto che ho imparato non posso riportare tutto, sia perché ho memoria limitata sia per una ragione che ha a che fare con l'uva di cui scrivevo prima: pur matura e gustosa che sia le occorre del tempo e numerose cure affinché diventi vino. Intanto però sono tornato e non trascorreranno mesi, né settimane prima che torni qui, a lasciare un appunto.

sabato 4 agosto 2012

Maria Castelli e il Gazzettino Padano

Non ho visto alzabandiera né ho sentito squilli di tromba, fanfare, neppure un colpo di gong o un campanellino, di quelli che trillano quando agli angeli spuntano le ali. Forse però mi sono distratto io, che a Como ormai metto piede di rado oppure è semplicemente lei ad aver voluto così, cercando notizie per tutta una vita e rifuggendo una sola cosa: di diventare notizia lei stessa.
Maria Castelli, giornalista de La Provincia e corrispondente da Como per la Rai dal primo luglio è andata in pensione e a me già manca. La sua voce soprattutto, con la quale sono cresciuto, considerandola un po' una mamma, anche se lei resta giovanissima e all'anagrafe potrebbe essermi sorella maggiore. Non ricordo nulla che facesse arrabbiare mio padre più di quando tardava a tornare per pranzo, il cui inizio era tassativamente fissato per le dodici e dieci: a quell'ora infatti a Radio Rai scattava la sigla zufolante del Gazzettino Padano (ch'era padano ben prima che la Lega pensasse di trasformare una terra in nazione). Dei conduttori non ho memoria ma di un paio di corrispondenti sì, eccome. Avevano una voce che ascoltata una volta non la scordavi: Renato Possenti da Bergamo, Renato Andreolassi da Brescia e appunto Maria Castelli da Como. Destino ha voluto che prima la conoscessi accanto a un letto d'ospedale, dove i nostri figli erano ricoverati, poi che facessi il suo stesso mestiere, infine che diventassi persino suo collega e caposervizio anche, proprio a La Provincia, per quegli scherzi della vita in cui i meriti sono capovolti. Ecco perché non avendolo letto da nessuna parte lo scrivo io ch'è andata in pensione, togliendomi il cappello in segno di rispetto, se solo un cappello l'avessi.
Maria mi ha insegnato moltissimo e sono certo che continuerà a farlo, non riuscendo lei a stare con le mani in mano ed essendo giovanissima tra qualche giorno, al massimo qualche settimana, troverò ancora sul giornale sue notizie. Essendo umana non è esente da difetti, tra i quali ce n'è uno molto femminile: le sceneggiate a lama di coltello, cioè senza urla ma a singhiozzo strozzato, con di solito la frase: "una cosa del genere non mi era mai successa...". Una mezza dozzina di volte di queste scene madri sono stato io la causa, quando per distrazione o per superficialità non mi sono comportato come avrei dovuto, scatenandone l'ira sommessa e il dispiacere. In ogni occasione tuttavia abbiamo fatto la pace, io riconoscendo il torto e lei tagliando via la parte offesa, come direbbero i nostri nonni. La volta che mi tenne il muso più a lungo - lo ricordo come fosse oggi - fu quando a coronamento di una rubrica settimanale che iniziava a scrivere sul giornale pubblicai una sua fotografia senza avvisarla. Apriti cielo! Per un'intera settimana non riuscii a parlarle perché, come ho detto, nulla la manda su tutte le furie più di diventare ella stessa notizia, essendo cresciuta ad una scuola scevra da inutili protagonismi. Perciò so benissimo che quando leggerà queste righe si indispettirà non poco, ma è un rischio che devo correre, poiché è giusto che i più giovani conoscano almeno un riflesso del molto che ha ancora da insegnare. Da lei personalmente ho imparato che un bravo cronista (cronista non è sinonimo di giornalista, bensì è un tipo particolare di giornalista, quello appunto che fa cronaca) è un cane sciolto, che non accetta di appartenere a circoli o consorterie, coltiva sempre le sue fonti, facendo mille telefonate, macinando chilometri, non limitandosi mai ai comunicati stampa, cercando ogni giorno almeno una notizia originale, che nessun altro ha o dà. A tutto ciò lei ha sempre saputo aggiungere il gusto del raccontare e specialmente sulla carta è un talento non disprezzabile. Perciò aspetto di tornare presto a leggere ciò che scrive, anche se i tempi del Gazzettino Padano non torneranno più, così come i pranzi con mio padre e le parole con troppe persone care. Ma questo lo sa anche lei, che dalla vita ha avuto mille gioie ma pure i dispiaceri più grandi. Grazie ancora di tutto Maria e scusa per tutte le volte che ti ho fatto arrabbiare. A volte non l'ho fatto apposta a volte sì, come adesso, però ti voglio sempre bene.

domenica 29 luglio 2012

Traformar le debolezze in forza

Campate di silenzio così lunghe in quattro anni ce ne sono state poche ed è possibile che in futuro i post, qui, saranno più rari, ma scomparire no. Questo è e rimarrà sempre il mio spazio di libertà, la casa accogliente dove poter condividere tutto, dai fatti eclatanti a quelli più intimi). Una casa a immagine e somiglianza proprio della mia, reale, che per uno dei figli che diventa grande e ci vuole restare il meno possibile, cercando la compagnia degli amici, trova ogni anno ospiti in arrivo da lontano e graditi. L'estate scorsa era arrivato David, con la sua splendida famiglia dal Vermont, quest'anno è tornato Milan a farci visita dalla Serbia, con la sua ragazza, Adriana. Milan, per chi non lo sapesse, ha ventisette anni e per me è un fratello. Quando la guerra ha costretto la sua famiglia a fuggire e abbandonare la casa aveva solo dieci anni. Con il padre scappato sui monti e  la madre e le due sorelline in fuga verso Belgrado, trovò un tetto qui, per quei disegni misteriosi che solo il destino sa creare. Allora era un bimbo stupendo ma dagli occhi tristi, oggi resta stupendo uguale però con anche il sorriso negli occhi e un cuore buono, che ha saputo trasformare l'odio di troppe generazioni in compassione. Tra le tante cose che egli mi ha aiutato a capire c'è questa: le debolezze possono essere sempre trasformate in forza, basta saperle usare. Prendiamo l'inglese, che Milan e Adriana parlano benissimo come la maggior parte dei ragazzi delle loro parti. "Sai Giorgio - mi ha detto - il fatto è che voi in Italia avete tradotto tutto, dai film al cinema ai cartoni animati, dalle istruzioni per gli elettrodomestici a milioni di libri. In Serbia invece non è tradotto niente, per cui se vogliamo capire o leggere o usare le cose ci dobbiamo svegliare". Svegliarci. Un buon verbo per uscire dalla crisi.

venerdì 13 luglio 2012

Come la ghisa (è l'uomo contemporaneo)

Come la ghisa. Voi, la maggior parte delle persone che passano da qui intendo, probabilmente lo ignorate, perché leghe e metalli non sono certo la vostra passione e non avete avuto un padre che per metà della sua vita li ha comprati e venduti. Io che lo ho avuto invece so quanto pesante e duttile è il piombo ad esempio, che leggerezza ha la barra d'alluminio, in che oggetti si nasconde il preziosissimo nichel, la lucentezza del rame nei cavi, come si capisce che l'acciaio di quella pentola è veramente inox 18/10 e non ferro banale (basta usare la calamita: se attacca è ferro e vi hanno fregato, se scivola via avete speso i vostri soldi bene). La ghisa invece è durissima, una lega di ferro e carbonio utilissima per certe applicazioni perché a buon mercato e poco intaccabile, ma che ha proprio nella durezza il suo punto debole. La ghisa infatti è facile da spaccare. Basta un colpo di mazza, assestato bene, per mandarla in pezzi, essendo rigidissima, per nulla elastica, adattabile. Ecco, in questi giorni, in queste settimane, io mi sento come la ghisa: forte, ma ch'è sufficiente un imprevisto (una delusione, un inghippo, per non parlare di una malattia, di una preoccupazione) per farmi saltare. Una condizione che penso sia paragonabile all'attuale società, a questa nostra generazione, gigante dai piedi di argilla, apparentemente tutta d'un pezzo, tostissima, ma che per un nonnulla può andare in frantumi. P.S. Il difficile è allora come trasformarsi in acciaio, forte ma elastico, destinato nel tempo a durare adattandosi a danni e intemperie.

domenica 1 luglio 2012

Italia o Spagna (purché non sia mai un magna magna)


Foto by Leonora
Soltanto una constatazione, a margine della partita di calcio tra Italia e Spagna di stasera, partendo da quel biscotto più volte evocato e mai consumato.
Primo: non ero tra quelli preoccupati che Spagna e Croazia si mettessero d'accordo, ma neppure tra coloro che etichettava come "i soliti italiani sospettosi" chi temeva un epilogo con inciucio. Nel 2004 le tanto apprezzate (da me) e civili nazioni di Danimarca e Svezia, superando secoli di destazione reciproca, un bel biscotto l'avevano sfornato, con buona pace degli inegnui (sempre il sottoscritto) e gran stridore di denti del restante e italico popolo.
Secondo (che poi è il centro in tutti i sensi del discorso): Svezia e Danimarca pagarono quella furbizia da quattro soldi uscendo entrambe nel turno successivo.
Terzo: gli spagnoli potevano dunque eliminare l'Italia con un barbatrucco ma non l'hanno fatto e non se ne sono pentiti, pur se oggi potrebbero essere sconfitti proprio da coloro che hanno salvato. Ecco perché, qualsiasi sia il risultato di stasera, sarò contento. Chiunque vinca, l'avrà meritato ed è una lezione che possiamo esportare nella vita direttamente dal tanto criticato calcio: l'onore, l'onestà, il rispetto delle regole alla lunga pagano. E non importa a che latitudine o longitudine si sia nati o la storia che alle spalle ha ciascuno. Si può sempre cambiare, in meglio.

sabato 30 giugno 2012

Ritrovar me stesso

Foto by Leonora
Dare ordine, definire le priorità, badare al tempo medio (i prossimi due mesi) e non soltanto al giorno dopo oppure a settembre, l'orizzonte che mi sono dato per un cambio di passo, soprattutto lavorativo. Do priorità anche così, scrivendo, concedendo forma al magma delle emozioni, degli stati d'animo. Che abbia bisogno di un poco di riposo mentale lo capisco ascoltando la radio. In questi giorni detesto le chiacchiere, le futilità e vorrei ascoltare soltanto musica. Di più. In quella straordinaria invenzione ch'è la radio interattiva (per chi non lo sapesse, su Internet - con Sibilla di R101, ad esempio - c'è la possibilità di scegliere la musica in base a come ci si sente: serio, allegro, energico...) in questi giorni mi scopro sempre a scegliere la modalità "rilassato". Vorrà pur dire qualcosa. Luglio e agosto sono dunque nominati d'urgenza e de facto come i mesi della lieta coscienza di sé e della giusta ricollocazione nel quadro infinito dell'universo. Vabbè, forse l'universo è esagerato. Facciamo la terra, il mondo. È troppo lo stesso? L'Italia. Como, Monza. Casa mia, la camera da letto. Ok, io medesimo. Luglio e agosto sono nominati d'urgenza e de facto i mesi della giusta ricollocazione nel quadro finito di me stesso. Se mi trovo, non dovrebbe neppure essere malaccio.

martedì 26 giugno 2012

Un dono di Grazia

Foto by Leonora
Di lei avevo scritto anche qui, esattamente un anno fa. Meno, anzi. Era il 27 luglio e da poco avevo lasciato le Marche per tornamene a casa, lasciando due figli su tre nelle mani di un manipolo di giusti che aveva scelto di trascorrere le proprie vacanze con il gruppo dell'oratorio. Tra queste persone c'era Grazia, la moglie di Gianpaolo, la mamma di Matteo e Andrea, una bella donna di poco più di cinquant'anni, dal carattere forte ma con me sempre gentile, fin dai tempi in cui il ragazzino ero io e lei aveva la mia età di adesso.
Grazia da ieri l'altro non è più qui, non su questa terra almeno, non il suo spirito. Un tumore l'ha piegata in un battibaleno, senza guardarla in faccia o considerare che era ancora giovane, troppo giovane per andarsene davvero. Isabella, che ha parlato proprio con Matteo, mi ha detto che è stato tutto assai repentino, all'inizio di primavera, durante una passeggiata lungo un sentiero a mezza costa sul mare. Prima il fiato corto, poi qualche colpo di tosse, la visita, le radiografie, la sentenza inappellabile, tremenda, una botta da stendere un toro. Grazia non ha fatto scene, ha pianto il suo dolore disperato, mantenendo - mi giurano coloro che le hanno fatto visita fino all'ultimo - quel sorriso con cui io la ricordo ora e continuerò a pensare a lei, in futuro.
Al marito, invece, a Gianpaolo, e ai figli, non oso aggiungere nulla, se non restarmene qua, in silenzio, rileggendo ciò che sempre un anno fa, cinque giorni dopo aver scritto il post in cui la citavo, scrivevo: la morte come dono. E' poco, è nulla, probabilmente leggerlo qui, ora, dà fastidio, eppure non conosco altro modo per vedere un po' di luce in mezzo a tanto buio.

sabato 23 giugno 2012

Francesca capirà

Rileggo il mio "post insofferente" e penso a Francesca, così orgogliosa della sua Sicilia, terra aspra e senza mezze misure, neppure nei colori. Spero non si sia offesa se ho citato quella regione per le molte assunzioni pubbliche e una finanza allegra (per chi la attua) e tragica (per chi ne paga i conti). Non credo, sono certo Francesca capirà la luna che indicavo, senza soffermarsi sul dito. Dopo tutto, penso, i primi a rimetterci sono coloro che non godono di privilegi e pagano per la cattiva reputazione di chi abita accanto a loro. Ecco perché detesto le caste, le furbizie,  a qualunque latitudine si presentino. Credo che un paese fortunato sia quello dove esistono poche regole, chiare, uguali per tutti. Altrimenti non solo costruiremo poco o nulla, ma distruggeremo persino il buono che ci è stato lasciato in eredità da chi ci ha preceduto.

venerdì 22 giugno 2012

Ore grame (e non solo per la Grecia)

Foto by Leonora
Oggi va così, che mi sono alzato con la mosca al naso e avverto prurito per i tromboni, per la retorica, per i luoghi comuni ancor più di quanto già accada in una normale giornata. Più di tutto, ho in uggia la trasposizione nella vita di una semplice partita, quella tra Germania e Grecia, agli Europei di calcio, stasera. Non che la sfida non mi intrighi, tutt'altro. Anzi, anch'io quando ho scoperto l'incrocio beffardo previsto dal calendario ho subito pensato che ci sarebbe stato in palio qualcosa in più di un semplice passaggio di turno. Poi però questa tiritera del forte contro il debole, del prepotente teutonico versus il simpaticissimo e sfortunato grecide, della logora e consunta trasposizione del piccolo Davide contro il gigante Golia è diventata oltre che ossessionante pure assurda. Nonosante ciò ero intenzionato a far finta di nulla, girando bellamente pagina ad ogni avvistamento di Pigi Battista o, peggio ancora, di quei cialtroni di giornalisti sportivi che pensano di essere dei nuovi Gianni Brera mentre sfornano semplicemente frasi fatte a macchinetta. Se mi riduco a scriverne anch'io è perché ieri m'è capitata bella, con uno dei miei cronisti preferiti, Massimo Gramellini, che ha inzuppato il biscotto anch'egli nel significato simbolico della gara.
E no, caro Massimo, in questo ha ragione il tuo amico Giorgio Gandola, quando in quattro e quattr'otto, l'altro giorno, tornando proprio da Torino e uscendo proprio dal tuo ufficio, dopo un'ora di chiacchierata che mi aveva visto spettatore unico e privilegiato di una rimpatriata, mi ha smontato tutto il pathos, convertendomi a un'unica ragione: "Viva la Germania". E sì, perché i tedeschi saranno pure flessibili quanto un palo di ghisa e si portano sulle spalle il fardello di autogol nella storia ben peggiori di quelli su un prato verde, in scarpette con i tacchetti e divisa, però tutti i torti non ce li hanno. Se nella minuscola Kos ci sono tanti insegnanti scolastici quanti in metà della Vestfalia, se il metalmeccanico di Osnabrück deve fare gli straordinari per pagare i debiti delle decine di guardiapesca di Santorini, allora capirete che un po' le scatole gli girano.
Questi, lo so, sono ragionamenti terra terra, lontani mille miglia dalle complessità dell'economia e dalle curve morbide della politica, però lì voglio che restino le morbitezze della politica e le complessità dell'economia: lontane mille miglia. Ecco perché stasera, il mio cuore starà dalla parte della Grecia sul campo da calcio, ma nella vita - in questa vita - tutta la mia solidarietà va alla Germania. E non vale soltanto per l'Ellade ilustre, ma anche per buona parte della nostra Italia. Se un Comune di diecimila abitanti in Sicilia continuerà a contare centocinquanta dipendenti a fronte dei trenta che hanno i Comuni di pari dimensione sopra la cintola romana, se le migliaia di guardie forestali della regione Calabria non diventaranno un peso intollerabile per la nostra coscienza di popolo, oltre che della cassa pubblica, allora il disastro non sarà soltanto annunciato, ma pure inevitabile. E ora fatemi pensare in pace alla partita, senza implicazioni sociali. Più che Jesse Owens che vince i cento metri alle Olimpiadi di Berlino sono gli occhi di Hitler, qui è la partita di calcio di Mediterraneo, il film di Salvatores: di "una faccia, una razza" almeno per oggi ne ho piena l'anima.
P.S. L'ora trascorsa con Gramellini e Gandola, martedì, è stata una goduria: come stare seduto in prima fila a un privatissimo spettacolo teatrale sugli ultimi vent'anni di giornalismo, cronaca, costume, spettacolo, politica.

mercoledì 20 giugno 2012

La vaccanza

Foto by Leonora
Elena dice che sono un "desaparecido", Silvia si preoccupa perché non mi faccio vivo e da un pezzo neanche scrivo qualcosa sul blog. E' vero, basta guardare qui sotto: raramente negli ultimi quattro anni sono rimasto tanto a lungo senza mettere un post, ma non l'ho fatto per un motivo preciso. Un cruccio - è vero - l'ho avuto: non riguarda né la salute né il lavoro e sono certo che saprò superarlo, come ho sempre fatto. In più c'è un po' di stanchezza, il nuovo lavoro che mi prosciuga energie mentali, il desiderio anche di starmene solo con me stesso, di cercare svago non nella relazione con l'altro, bensì nel guardarmi dentro. E' un periodo così, insomma. Domani però comincia l'estate e dovrò darmi una regolata, frenare il cammino a vista e tornare a guardare ad ampio raggio, mettendo in cantiere anche qualche giorno di stop, vero, di quelli che di alzi al mattino e ti imponi di non fare nulla se non prenderti cura di te stesso. "Vaccanza" la chiamiamo a casa nostra, io e mia figlia Giorgia: tre giorni in cui ci si alza quando si vuole, ci si addormenta quando si vuole, si fa tutto ciò che si vuole (lettura libri, tv, videogiochi, piscina...) con l'unico limite di non creare fastidi o problemi all'altro. Se ci va bene, la faremo ad agosto. Nel frattempo chiedo perdono ai tanti amici che ho trascurato: scusate, ma proprio perché mi siete amici, in cuor mio so che avete già perdonato.

venerdì 15 giugno 2012

Il cruccio

Foto by Leonora
La botta è stata forte: non perché non ce l'aspettassimo - attenderci il peggio e sperare nel meglio è nel dna della nostra famiglia - tuttavia rispetto al primo quadrimestre Giacomo aveva recuperato buona parte delle materie in cui aveva brutti voti ed era un finale in gran crescendo. Non è stato così. Come mi ha spiegato la preside del Terragni, questa mattina, nelle due fondamentali materie per il liceo scientifico (matematica e fisica) "le lacune sono tali da non ritenere che possano essere recuperate durante l'estate". Non due esami insomma, ma due "tre" nel giudizio finale e bocciatura. Più inquietante ancora è invece stata la pulce che la stessa preside mi ha messo nell'orecchio: "E se vostro figlio avesse un disturbo dell'apprendimento, un problema con i calcoli?".
Già, se l'avesse? "In teoria - gli ho risposto con pacatezza ma anche un filo di sconcerto - dovreste dircelo voi. Magari, visto che siamo in argomento, non sarebbe stato male chiederselo prima, evitando un calvario durato un anno e finito in croce senza possibilità di appello". Ma come è possibile, mi sono chiesto poi, uscendo, che in otto anni di scuola primaria e in uno di secondaria, possa sorgere ancora questo dubbio.
Speriamo non sia così, speriamo non risulti discalculico (faremo i test al più presto), speriamo sia solamemente una scarsa attitudine a quelle materie abbinata a basi incerte. Colpa nostra insomma. Un po' sua, un bel po' mia, che memore di quanto fossi asino senza però essere mai bocciato, ho spinto Giacomo ad iscriversi allo scientifico, o come minimo l'ho assecondato, non opponendomi come invece avrebbe fatto Isabella, che paga ora come noi il senso del fallimento e di vergogna persino, che mi rende pesante lo scriverlo qui, il mettere in piazza cose che dovrebbero essere soltanto nostre, che vorrei fossero celate a tutti, per primo a me stesso, che ho la tentazione di fare come lo struzzo e gettare la testa nel primo buco per terra che mi capita, per non vedere niente o nessuno.
Se lo scrivo è perché, come la capra di Saba, credo che il mio dolore sia fraterno a qualcun altro e che l'imbarazzo sia un sentimento comprensibile ma sbagliato. Giacomo non è un genio ma neanche stupido. Di più. Sono orgoglioso di come si è impegnato e di come negli ultimi cinque mesi ha saputo recuperare in materie in cui era comunque sotto. Non è morto sui libri (del resto, è onesto riconoscerlo, era l'ultima cosa che gli chiedevo: ritengo la scuola importante ma la vita lo è di più) però è stato serio, ha fatto il suo dovere, ci ha creduto fino all'ultimo. Sono fiero del fatto che tutte le insegnanti, comprese le due che lo hanno bocciato, abbiamo detto che è un bravo ragazzo e che si è impegnato.
Belle parole ma inutili, lo so, con l'aggravante che se davvero lo pensavano una chance in più potevano dargliela, rimandandolo a settembre, oppure parlandogli chiaro prima, dicendoci che non è una scuola adatta per lui e dunque di cercarne insieme un'altra. Niente di tutto questo. Forse sono semplicemente un ingenuo, credo sempre che gli altri si comporterebbero come farei io o come hanno fatto le insegnanti che ho avuto, capaci di guardare il ragazzo e non banalmente quattro cifre su un foglio. Quel che conta ora è il risultato e da qualsiasi parte la si guardi mi viene il magone. Poi però penso a lui, lo sento fare battute argute, ripenso a quando ride, di gusto, sbircio dalla finestra mentre sul piazzale davanti al garage infila un pallone dietro l'altro nel canestro anche se a guardarlo bene ha sempre gli occhi lucidi e gli si strozza la voce e non vuole parlarne, essendoci rimasto male, d'un male vero. L'altro giorno, ispirandomi malamente a Kipling, gli ho scritto una cosa, a futura memoria. La aggiungo qui, a cappello di tutto, affinché se qualcun altro è nella nostra condizione possa trovare qualche spunto e magari un poco di conforto.

Caro Giacomo,

se saprai fare tesoro della sconfitta senza pensare che tutto è perduto;
se riuscirai ad essere riconoscente anche a chi ti ha messo i bastoni tra le ruote, nella consapevolezza che solo cadendo faccia avanti imparerai a rialzarti;
se sarai consapevole dei tuoi limiti mantenendo però l’ambizione di puntare più in alto possibile e di osare;
se verserai lacrime amare di sconforto senza che esse ti cancellino la gioia di vivere e il sorriso;
se ti dispiacerà per i tuoi genitori sapendo che vogliono il tuo bene e cercano sempre di essere “i migliori possibile” pure quando sbagliano, nell’esser troppo buoni o troppo severi;
se imparerai ad amare la conoscenza non per il voto da prendere in pagella bensì perché è bello e entusiasmante conoscere più cose;
se continuerai a credere in te stesso anche quando nessun altro è disposto a farlo,
allora non sarà un anno perduto, figlio mio. Ti voglio bene.

giovedì 7 giugno 2012

Così muore (con dignità) un giornale

Foto by Leonora

Di giorni tristi ne ho vissuto qualcuno e non vorrei cadere nella retorica dei luoghi comuni scrivendo della chiusura di un giornale che, come ha detto oggi Giorgio Gandola, portava ogni mattina in edicola "un colpo di vento, un colpo di vento utile". Mi riferisco a "L'Ordine", quotidiano comasco di opinione, di cui ho parlato in passato, in più di un'occasione (una la trovate qui, un'altra qui, una terza qui, e qualche altra me la dimentico senz'altro). Una notizia che non avrei voluto leggere perché rimango convinto di ciò che scrissi quattro anni fa: "Un "più" d'informazione è sintomo per una città di buona salute". Ci sveglieremo dunque domani un po' meno forti, un po' più malati, anche un filo più grigi, venendo a mancare nel contempo una voce e un elemento di concorrenza per gli altri notiziari. A Sara, Giovanni, Manuela e agli amici che lavoravano lì va un abbraccio e un in bocca al lupo sincero: non c'è mattino in cui mi alzo infatti senza pensare che fare bene il mio mestiere, trovare una strada che dia profitti e permetta ai giornali di sopravvivere è l'unico modo per dare pane e soddisfazione non soltanto a me stesso, ma anche a più colleghi possibile. Ad Alessandro Sallusti (qui il suo commiato odierno), che con Carlo Ripamonti ha messo cuore e portafogli nell'impresa di rilanciare la storica testata, dico grazie per aver tentato e resistito quasi quattro anni, contro tutti i pronostici e molte cassandre. Lo stesso vale per Mauro Migliavada, a cui tuttavia questo taglio di cordone ombelicale farà bene: è un cronista di talento, non potrà che migliorare, specie ora che non ha più scogli a cui aggrapparsi e deve semplicemente nuotare. Invece ai profeti di sventura e ai pasqualino iettatore che fin da quando è nato hanno desiderato che chiudesse non dedico più di queste righe: la loro contentezza è fatua, così come evanescente è lo spessore umano e la lungimiranza nel godere della barca che affonda senza considerare che galleggiano a malapena sullo stesso mare e i prossimi ad essere inghiottiti saranno proprio loro, gli invidiosi.
Lode e onore a L'Ordine, allora, e grazie anche per tutte le volte che mi hanno preso di mira, dandomi della banderuola, del trombone pomposo, del fustigatore incoerente: è grazie a quelle frecciate che ogni volta che scrivevo un pezzo stavo attento affinché fosse inappuntabile, è grazie all'avere quel cane da guardia tra i piedi che ho imparato a tenerli per terra, evitando di diventare un pallone gonfiato fino a scoppiare.

martedì 29 maggio 2012

Sull'onore (piccolo vocabolario dei valori perduti)

Foto by Leonora
La frase è scritta in francese, con caratteri piccoli ma non minuscoli. Tredici parole in tutto, articoli determinativi compresi, che spiegano più di un trattato l'essenza d'un popolo, d'una nazione. "J'atteste sur l'honneur l'exactitude des informations renseignées dans ce formulaire ainsi" . Sur l'honneur. Sull'onore. Per prendere in affitto una delle migliaia di biciclette pubbliche di Parigi è necessario garantire sull'onore di aver inserito i dati identificativi corretti. Una pratica semplice, immediata, scontata e naturale, direi, se non fosse anni luce lontana da ciò che troppe volte accade al di qua delle Alpi. E' così che mi ritrovo stupito a fare clic sull'apposito quadratino che compare nella pagina sul computer, orgoglioso e persino felice che qualcuno mi chieda di garantire qualcosa sull'onore, anche soltanto perché mi ricorda che ogni essere umano ne è dotato, pur se ce ne dimentichiamo, quasi fosse retaggio esclusivo degli uomini d'altri tempi, quelli per intenderci che la biciletta nemmeno sapevano cos'era e giravano vieppiù a cavallo, con cappello a cilindro, guanti di pecari e rendigote. Oggi, sul blog del Cittadino, scrivevo del terremoto e della preoccupazione per questi tempi grami, di crisi economica e - quel che è più grave - sociale. Pensavo agli amici tedeschi incontrati giorni fa, che mi raccontavano come da loro ci sia piena occupazione, tanto che cercano personale senza trovarlo per mesi e mesi. Pensavo ai colleghi francesi e spagnoli e alle loro difficoltà finanziarie così simili alle nostre ma anche alle loro redazioni giovani, alle forze fresche che sanno iniettare, al modo in cui reagiscono, senza piangersi troppo addosso, rimboccandosi le maniche. E pensavo a noi italiani, che pure nelle emergenze sappiamo trarre la parte migliore ma spesso, troppo spesso, dimentichiamo che al mondo esistono parole, concetti, valori quali l'onore, preferendo ad essi quelli legati alla furbizia, alla scaltrezza, alla scorciatoia e al beneficio individuale. Forse la crisi non viene invano, forse possiamo metterla a frutto non scendendo semplicemente dalle scale ma invetendo il senso di marcia, ricominciando a salire.