lunedì 31 ottobre 2011

Francesco Alberoni resta in mutande (di marca)

La rete è una strana bestia. Richiede onestà e trasparenza o, se proprio proprio, di evitare almeno l'ipocrisia.
Francesco Alberoni, sulla sua pagina Facebook, dieci minuti fa scrive: "Mi fa rabbia non poter scrivere nulla qui e devo rimandarvi a cliccare su google yamamay-alberoni o Alberoni-yamamay".
Un secondo dopo partono i commenti. Questi.
(Carmen Pistoia) Ma se riesci a scrivere questi post perchè non riesci a scrivere altro Francesco Alberoni?
(Andrea Mollo) regole del mercato?!
(Carmen Pistoia) ‎:-)
(Antonio Amato) Questo ci marcia.
(Christian Randazzo Di Carlo) http://www.yamamay-alberoni.com/
(Antonio Amato) Più clicchi e più guadagna.
(Antonio Amato) consulenze a pagamento si chiamano.
(Renato Baldi) Basta scrivere una nota...Se fai così troverai quella pagina cui rimandi piena, diciamo così, di critiche...
(Andrea Mollo) x di più ci son solo 3 articoli e 2 lettere... bah...
(Antonio Amato) quasi quasi gli rimando indietro Avere o Essere.
(Andrea Mollo) per di più non è aggiornato... è vero che laq natura umana non cambia.... ma manca di contestualizzazione... ad una certa età bisognerebbe godersi i nipotini....

E siamo solo all'inizio. Probabilmente continuerà così, fino a che l'amministratore della pagina Facebook di Francesco Alberoni (lui stesso o chi per lui) se ne accorgerà. Allora sono curioso di sapere cosa accadrà, come reagirà. Cancellerà i commenti? Risponderà? Farà l'offeso? Aprirà una discussione?
Un buon caso di studio, potrebbe essere. Ma per saperlo, come nelle puntate di "Beautiful" occorre attendere la prossima puntata.

Foto by Leonora

sabato 29 ottobre 2011

Seicento

http://www.lyonora.it/
Seicento. Non erano giovani e nemmeno forti, galleggiano ugualmente in quest'universo senza pareti dove nulla si cancella, al massimo si perde.
Seicento. Non è l'automobile color latte e menta della Fiat che comprò, prima in vita sua, mio padre.
Seicento sono i post redatti dal sottoscritto in quattro anni e un mese di esistenza in vita di questo blog, nato per istinto di sopravvivenza professionale e conservato come diario di viaggio, nella convinzione che la privacy è importante ma di privazioni si muore, per cui viva la pubblicità.
Non quella dei reclàme, che pur ha uno scopo nobile se somministrata in dosi omeopatiche, bensì quella del "pubblico", della casa aperta (che infatti è il contrario di quella chiusa), del cortile, del paese dove tutti sanno tutto di tutti e non si vive peggio, poiché conoscersi è il primo passo per venirsi incontro, aiutarsi a vicenda.
"Non sei geloso delle tue cose, della tua vita?" mi ha chiesto Paolo, leggendo questo blog. Ho risposto "No, ne sono orgoglioso". Perciò le metto in piazza, sapendo di correre un rischio ma pure di cogliere un'opportunità: nessun uomo è un'isola, tanto vale nuotare. E poi mi hanno insegnato che la piazza è quel luogo in cui, quando ciascuno porta il fardello dei crucci, alla fine torna indietro con il proprio, per scelta, perché alla fine non è poi tremendo al confronto con quelli altrui.
Non è vero che ho cancellato la linea del pudore, semmai l'ho spostata un metro più in là. Infatti qui non dico tutto. Cerco di filtrare il meglio, anche quando si tratta del peggio.
Dare valore al "pubblico", essere trasparente, allargare il cerchio della condivisione, oltre che delle conoscenze, sono le tre linee guida che mi orientano ogni volta che si apre una pagina vuota e la riempio.
Ringrazio coloro che mi accompagnano, sia quelli che finiscono protagonisti in qualche post, sia coloro - assai di più - che si accontentano di passare di qua, dare una sbirciatina e passare altrove. Sappiano che comunque mi fanno tutti un gran regalo. Quello di non farmi sentire solo, di interessare a qualcuno. Esiste forse un premio migliore di questo?
I seicento complimenti allora non me li faccio da solo: li condivido con voi.

venerdì 28 ottobre 2011

Quelli di Espansione Tv

In queste settimane ha cambiato sede, scenografia del tg, conduttori, programmi. Si è rinnovata. Una rivoluzione di cui non ho scritto nulla, ma che ho seguito con attenzione perché a Espansione Tv - la televisione di Como - non ho dedicato soltanto quindici anni della mia vita, ma fin da ragazzo era un punto fisso, un orizzonte, una finestra su ciò che mi è vicino e perciò mi interessa di più.
La fine del rapporto professionale non è stato dei migliori, ma neppure dei peggiori. Credo fosse giunto il tempo di diventare grandi, di lasciare gli ormeggi. Io lì mi sentivo stretto, chi comandava pensava mi stessi allargando troppo e per me non c'era spazio, tutto qui.
Come ho scritto più volte, sono grato per il molto che ho ricevuto.
Se scrivo queste cose è perché ieri sera, mentre vedevo un vecchio film ("Il vento del perdono", con Robert Redford, Morgan Freeman e Jennifer Lopez), m'è capitato di guardare su Facebook prima di sfuggita e poi attentamente le foto del gruppo "Gli amici di Espansione Tv - Il gruppo di tutti quelli che sono passati dalla storica televisione di Como".
E' inutile fingere, mi sono commosso. Non una commozione di quelle con lacrimoni, singhiozzi e sussulti. Non sono il tipo. Semmai un moto malinconico del cuore, una latente nostalgia per un tempo che non torna più e soprattutto per le moltissime persone che mi sono state amiche, compagne, e che se ne sono andate per sempre o semplicemente hanno intrapreso altri percorsi, altri viaggi. Penso ad Adolfo Caldarini o a Gino Gorno, a Nanni Pennestrì, che allora mi faceva sbuffare come un bufalo per l'incapacità di essere concreto, ma che se ci penso adesso - quello sì - mi viene da piangere, per la fine che ha fatto, perché le cose che importano alla fine sono altre e aveva anche lui del buono. Lo stesso vale per Claudio Bulgarelli, che c'è ancora ma non so dove. Aveva un carattere del cavolo, ma l'ha pagata cara, quando si era illuso di poter fare le scarpe al direttore di turno. Se ne andò chiudendosi il portone alle spalle una sera di dicembre. Mancava poco a Natale e aveva perso il posto di lavoro. Anche con lui mi scontravo spesso, però fu gentile quando lo chiamai, il giorno dopo, per dirgli che mi dispiaceva e che se aveva bisogno di qualcosa io c'ero. Non l'ho più sentito, ci berrei volentieri un caffé per sapere cosa fa adesso. Così come Emilio Arnone, Salvatore Battaglia, Valerio Scheggia, Mattia Normanno, Barbara Masi, Laura Bianchi, Antonella Battistessa, Filippo Franchino... Chissà che fine hanno fatto?
E poi tutti gli altri, che invece ancora vedo, chi di frequente, chi più di rado. Marina, Marco, Benedetta, Mauro, Annalisa, Michela, Manuela, Teo, Laura, Sabrina, Stefania, Nino, Andrea, Claudia, Alessandro, Lilliana, Roberto, Annalisa, Marzia, Sarah, Federica, Paola, Roberta, Nick, Mario, Max, Valerio, Pamela, Lorenza, Antonietta, Margherita, il ragioniere (come diavolo si chiama, il ragioniere? L'ho sempre chiamato così), Valter, Anna, Antonio, Elda, Francesca, Alessandra, Luca, Andrea, Sabrina, Franco, Erminia, Giovanna, Alessio (sì, proprio quell'Alessio, Butti), Nino, Poldo, Stefania, Pino, Pauline, Massimo... Qualcuno certo lo dimentico, ma non ce n'è uno che non abbia contribuito a rendere grande e, soprattutto, unica, la televisione di Como.
Ora dicono voglia diventare regionale (sempre che il "fuoco amico" del governo non mette i bastoni tra le ruote, con le vicenda delle assegnazioni di frequenze condotta da pasticcioni, come capita a chiunque metta piede a Roma), che voglia espandersi, come dopotutto è scritto nel dna, nel nome.
Sarà. Io mi auguro che non perda ciò che ha di meglio: un'anima.
Lo scrivo senza pedanteria, come fosse una preghiera, indirizzata a tutti coloro che sono ancora lì e specialmente a colui che l'ha inventata, Maurizio Giunco, sapendo che non ha bisogno di consigli, anche perché non li accetta, specialmente dal sottoscritto. Non una valida ragione, tuttavia, per stare zitto. Perché Espansione Tv, o Etv, come a lui piace chiamarla ora, sarà pure sua figlia, ma è una figlia a cui vogliono bene in molti. A cominciare da chi ogni giorno la guarda.

Foto by Leonora

giovedì 27 ottobre 2011

Elogio dei fan (anche se non lo sono, di nessuno)

Non sono mai stato un fan, un "fanatic" di niente. L'ultimo poster l'ho levato dal muro della mia stanza a quattordici anni e l'unico autografo in vita mia l'ho chiesto a Dan Gay, il primo giorno che ha messo piede al Pianella. Non avevo ancora compiuto diciannove anni.
Dopo allora, nulla. Non per snobbismo, indifferenza o freddezza. Semplicemente stimo moltissime persone, per qualcuna ho una predilezione particolare, ma distinguo sempre l'ammirazione dalla venerazione. E con il lavoro che faccio la prima regola è: passa sempre al vaglio della critica chiunque. Perciò detesto i colleghi (qualcuno ce n'è) che quando intervistano questo o quel personaggio dello sport o dello spettacolo alla fine tirano fuori penna e foglietto o peggio una fotografia è chiedono: "Scusi, un'ultima cosa, mi fa un autografo?".
Comprendo invece i ragazzini e mi spiace quando torno a casa dopo aver incontrato qualche idolo dei miei figli e rispondere: "No, non gli ho chiesto l'autografo". L'infatuazione, per qualcuno, dura ben oltre l'adolescenza e - a patto appunto che non siano giornalisti - non li biasimo, pur se sono del polo esattamente opposto al mio.
La cosa m'è venuta in mente leggendo il commento di Richi al post precedente. Richi è un fan di Antonella Elia e il suo candore nell'ammetterlo mi ha fatto tenerezza. Una tenerezza affettuosa, vera, non di compatimento, tutt'altro.
Come ho scritto ieri, stimo Antonella Elia per aver resistito a lungo e resistere tuttora in un mondo come quello dello show business che ingurgita, divora, mastica e digerisce chiunque con la velocità di Beep Beep quando scappa da Wile il coyote. Però ammiro anche la costanza, l'ingenua e cieca passione di migliaia di persone che dedicano parte della loro vita a persone che conoscono soltanto attraverso uno schermo o osservandole da Marte, senza alcuna ricompensa o speranza di incontrarle, se non magari una volta o due, di sfuggita. Mi piace pensare che le star, i personaggi famosi, specialmente quelli un po' più famosi di coloro che di solito sbarcano sull'isola, ricambino con generosità e gentilezza e, visto che sono uomini e donne anche loro, quando spengono la luce, la sera, un pensiero e un sorriso lo riservino anche agli umili servitori della loro causa. Perché anche il più grande non sarebbe nessuno se i piccoli non se lo caricassero ogni giorno sulle loro spalle, permettendogli di toccare con un dito la luna.

Foto by Leonora

mercoledì 26 ottobre 2011

Antonella Elia, Lady Gaga e il saccente stupido

Scrivo molto. Qui sul blog intendo. A novembre però tiro il fiato, perché siamo come un pozzo e l'acqua non devi solo pescarla, ma anche buttarla dentro o almeno aspettare che sgorghi dalla falda, senza prosciugarla.
C'è una cosa che faccio spesso: osservo le persone, ne studio il talento. Ciascuno ne ha, basta scovarlo.
Prendiamo i giornalisti. Ce n'è qualcuno bravissimo a scrivere, qualche altro a titolare, certi trovano storie incredibili, alcuni possono stare ore sulle carte e trovare la notizia in un faldone alto mezzo metro. In rari casi sanno fare di tutto, ma proprio di tutto, senza eccellere in nulla. Altri ancora si inventano l'impossibile pur di non lavorare, ma a studiarli con attenzione ti accorgi che anche quella è un abilità e sei tu lo stupido se li cataloghi tra gli incompetenti, mentre sono furbissimi e scaltri, che di energie ce ne mettono il doppio delle tue per scansare un compito che potrebbero realizzare in metà tempo, se solo decidessero di orientare le loro capacità a combinare qualcosa di buono, di onesto. Altri accettano le ironie altrui e gli sguardi di compatimento, ma come formichine costruiscono castelli e ci si siedono dentro, abilissimi a fare marketing, soprattutto il proprio.
Credo capiti lo stesso in tutti i settori, forse il segreto è farli marciare tutti nelle stessa direzione, senza arrabbiarsi e prendendo il meglio di ognuno.
Se scrivo queste cose è perché poco fa sentivo alla radio Lady Gaga, che pareva una meteora destinata a brillare una stagione, mentre infila un successo dietro l'altro. Non è Bruce Springsteen, né Paul McCarthy dei Beatles, ma nemmeno una "stracciamutande" come direbbe il mio ex vice direttore, Antonio Marino. Il suo lo sa fare e bene, ecco tutto. E mentre ascoltavo il suo ultimo singolo l'occhio mi è caduto su un trafiletto di giornale, con l'annuncio di uno spettacolo teatrale in scena a Cantù. La protagonista sul palco sarà Antonella Elia. C'è ancora! Me l'ero completamente scordata, però se ha resistito, se recita per giunta, invece di limitarsi ai salotti tv o a trasmissioni come "Uomini e donne" vuol dire che non è soltanto testa vuota e sorriso.
E allora? Allora bisogna sempre fare attenzione a giudicare l'altro, evitando il disprezzo o la saccenteria. Anche il più intelligente tra gli uomini infatti finisce per inciampare se è supponente e pensa di esser lui il migliore del mondo. Che l'umiltà sia il tratto distintivo della grandezza non l'ho inventato io.

Foto by Leonora

martedì 25 ottobre 2011

Feste anni Settanta? No, grazie

Un martellata sull'alluce sinistro. Un calcio con le scarpe da tip tap nello stinco destro. Sei baci di fila con lo schiocco e il fischio nell'orecchio, destro o sinistro. Il solletico sotto i piedi. Bere di fila due bicchieri di Fernet da un quarto di litro. Sentire un discorso di Casini alla direzione nazionale dell'Udc. Aprire il frigorifero e trovarlo pieno di taleggio. Mordermi la lingua senza accorgermi. Una spruzzatina di limone nell'occhio. Lo spigolo di una porta semi aperta sulla fronte, di notte, al buio, mentre corro in bagno.
Accetteri questo e molto altro pur di non partecipare a una festa anni Settanta.
Lo scrivo perché ce n'è stata una qualche giorno fa, a Como. E c'erano molte persone che conosco, seppur la maggior parte soltanto di vista oppure grazie a Internet, su Facebook.
C'erano gli amici del mio amico Nenci. E c'era Valentina, una delle ragazze più belle e solari che abbia mai incontrato. E Luana, che anche se lei non lo ammette è tale e quale all'attrice protagonista di Csi New York. Tantissime altre donne e uomini, giovani e "quasi giovani", chiamati a raccolta dagli utili pazzi di ComOn. Sono felice per loro, mi piacciono le persone che ballano, ridono, si divertono. Nel panorama grigio fumo di Como è uno squarcio di giallo che fa bene al cuore, porta aria fresca in giardino.
Se non partecipo alle feste anni Settanta (neanche alle altre, per la verità, ma a quelle anni Settanta in particolare) non è soltanto perché sono pigro. C'è un motivo ben preciso, che non ho mai detto a nessuno se non a Mauro e forse a Marco. Ed è questo: l'unica volta in cui ho partecipato, quando ho suonato al campanello mi ha aperto la porta Elisa, una delle amiche più belle che ho tuttora, con due occhi blu e un sorriso da far invidia a un'attrice di Hollywood. In testa però aveva una parrucca di riccioli neri, stile O.J. Simpson in "Una pallottola spuntata 2 -L'odore della paura" che la faceva sembrare tale e quale alla Mamy di "Via col vento". C'ero rimasto troppo male. Non gliel'ho mai detto. Lo faccio ora, confessandolo in pubblico. Da allora l'ho giurato: no mas, mai più. Specie se aggiunto al fatto che nei veri anni Settanta mi costringevano ad indossare osceni calzoni marroni di lana, che davano un sacco di prurito.
Quel tempo lo ricordo volentieri purché rimanga così: un ricordo. Per la febbre del sabato sera mi sono già vaccinato da piccolo.

Foto by Leonora

lunedì 24 ottobre 2011

La lista dei desideri

Leggo che su Amazon.com esiste una lista dei desideri, oggetti di cui si vorrebbe entrare in possesso.
L'idea mi intriga e mi appunto di pensarci, di sognare un po'. Lo faccio mentre torno a casa dal lavoro, in macchina.
Vorrei costruire una nuova casa, una proprio mia, ex novo, bassa e con pareti a vetri, ecologica al cento per cento, con un prato enorme attorno, però vicino al mare, in un posto caldo ma non troppo, dov'è maggio tutto l'anno. Vorrei una casa, ma una casa ce l'ho.
Vorrei un orologio. Uno di classe, elegante e fine, che si nota appena, ma che ad averlo al polso ti senti sicuro di te, come Pierce Brosnan quando faceva James Bond. Uno simile a quello che mi ha prestato Fulvio. Vorrei un orologio, ma un orologio ce l'ho.
Vorrei un'automobile sportiva, una Bmw o, meglio ancora una Porsche. Non grande, non troppo appariscente, magari usata, nera. Vorrei un'automobile, ma un'automobile ce l'ho.
Vorrei uno di quei tosaerba che viaggiano da soli, che li programmi e zac, trovi il prato perfetto, meglio che se avessi in affitto un giardiniere tutto l'anno. Vorrei un tasaerba, ma un tosaerba ce l'ho.
Vorrei sei vestiti identici, di Prada o Armani, giacca e calzoni neri e camicia bianca slim fit con cravatta a tinta unita, una diversa per ciascun giorno della settimana. Vorrei dei vestiti, ma dei vestiti ce li ho.
E basta. Sì, basta. Altri oggetti neanche mi vengono in mente (oggi almeno, domani magari qualcuno mi ricorderà questo e quello e dirò: accidenti, come ho fatto a scordarlo).
Viaggi, quelli sì, ne vorrei. E più film da vedere al cinema. E concerti di musica dal vivo. Sì, vorrei ascoltare più musica dal vivo. E più partite di calcio, sempre dal vivo. Vorrei chiacchierare con più persone che lo meritano, uscir con loro a cene e stare ad ascoltare senza altro fine se non quello di imparare qualcosa, magari poterlo raccontare, ma in dosi eco sostenibili, senza forzature o urgenze. Vorrei imparare a ballare il tango, ma senza nessuno che conosco, perché mi vergognerei un sacco e sarei impacciato quanto un tricheco, mentre io so che se mi lascio andare potrei essere un discreto ballerino. Queste cose non le ho e invece potrei averle, se solo aggiungessi alla mia vita un po' più di coraggio, di fantasia.

Foto by Leonora

sabato 22 ottobre 2011

Teresa

Oggi compie gli anni, ma Teresa è sospesa in quel limbo in cui tutto e niente sono un filo, un sassolino in bilico tra il burrone e la terra ferma.
In estate non era stata bene. Era in vacanza nel paese d'origine dei genitori, in Puglia, e all'ospedale l'avevano mandata a casa, senza una diagnosi precisa, dicendo soltanto che non era nulla di grave. Esami più approfonditi li aveva fatti qua, scomprendo dei calcoli biliari.
Pochi giorni fa era entrata in clinica, per un'operazione che sembrava banale. Banale però un'operazione non lo è mai: su migliaia ce n'è sempre una che cambia spartito, che va storta. Un'ora, due, tre, cinque, otto... Un via vai dalla sala chirurgica che aveva messo in apprensione i genitori, poi le complicazioni, il trasporto a un altro centro e a un altro ancora.
Conosco i medici che l'hanno avuta in cura, so quanto sono seri, competenti, professionali, gli stessi a cui io affiderei la mia stessa vita.
Teresa è stata a un soffio dalla morte ed è stata riportata alla luce, così come sua mamma e suo papà, la sua famiglia. Ora lotta. In una camera sterile e piena di tubi resta aggrappata alla speranza di farcela, di scampare il pericolo, di poter essere quella di prima. Migliore anche. Come possono esserlo coloro che vedono la morte in faccia e hanno in sorte di tornare a sorridere alla vita.
L'ho già scritto una volta e lo ripeto ora: forza Teresa.

Foto by Leonora

Checco Zalone al Forum di Assago

Due ore e mezza di risate. Non proprio di continuo, perché spesso cantava o lasciava che a ballare fossero gli altri (le altre, le "Seconda Chance", cioè "tutte le ragazze scartate da Tarantini e a cui ho voluto dare una seconda possibilità").
Checco Zalone s'è preso qualcuno dei miei trentacinque euro e mi fatto passare una serata bella. Un po' scomoda forse, con i seggiolini del Forum di Assago fatti a misura di gnomo col sedere di pietra e la schiena ad angolo retto.
Non si è risparmiato, ha giocato tutte le carte che aveva, pescando dal repertorio che l'ha fatto conoscere e offrendo qualcosa di nuovo, in alternativa. Un bravo comico, di quelli che stanno sul palcoscenico come a casa loro, fiutando l'uomore del pubblico e capaci di domarlo o di aizzarlo, come gli aggrada.
Formidabile nelle imitazioni (Vendola su tutti, ma anche Cassano e Saviano), esilarante nelle battute, bravo a cantare e ancora meglio a suonare.
"Volgare" lo hanno definito, ma è un aggettivo usato a sproposito. Checco Zalone non è volgare. Dice parolacce, quello sì. Moltissime parolacce, e non do torto a chi evita di portare i bambini, visto che io stesso ero imbarazzato con Giacomo accanto, che di anni ne ha quasi quindici.
Volgare tuttavia è un'altra cosa. Volgari sono i personaggi che lui imita, volgari i paradossi di questa nostra Italia, che racconta facendo ridere su cose su cui invece ci sarebbe da piangere. Volgare è la cultura che lui mette in scena, interpretando il personaggio del cafone che però, in lui, ha un salvacondotto: il talento e la preparazione di chi si impegna, suda, studia, di chi fin da ragazzo ha passato giorni davanti allo specchio a provare e riprovare una smorfia, una battuta, una scena. Volgare è la finzione mentre lui è una persona vera, genuina, che prima e meglio di altri ha compreso il segreto per avere successo in una società patinata e spesso artefatta: essere sincero, mostrare quello che è, senza maschere o trucchi da prestigiatore di terza fila.
E bravo Checcho. Cozalone, ma artista.

Foto by Leonora


venerdì 21 ottobre 2011

Cattedrali senza religione e pane con il sale

Lo so, è più una provocazione che un proposito ma la trovo di cattivo gusto egualmente. Mi riferisco ai messaggi su Facebook, ai diagrammi a volte lisci, a volte gassati o Ferrarelle che pullulano sul web e fanno la conta di chi è stato fatto fuori (Saddam, Osama, Gheddafi) mettendo con prossimo della lista di cui si attende la fine Silvio Berlusconi.
Non m'importa di passare per bacchettone, prendendo per serio uno sberleffo, seppur greve.
Silvio Berlusconi, più che un dittatore o un criminale, in politica è un pasticcione. Probabilmente perché paga colpe non sue, quasi certamente perché credi che basti essere un uomo di successo per sollevare le sorti di un intero paese. Sta di fatto che per ogni passo avanti ne facciamo tre indietro, incapaci di rispondere efficacemente alle sfide che ci pone il tempo presente, figuriamoci quello futuro.
Un esempio su tutti: la scelta del governatore della Banca d'Italia. Ha impiegato più lui a indicare un nome che Carla Bruni a portare a termine la gravidanza e dare alla luce una bimba che appena nata fa già discutere per il nome (Dalhlia o Giulia, ma sempre con l'accento sulla a).
La realtà è che, Berlusconi o non Berlusconi, non si capisci più chi guida il paese e anche l'Europa, il mondo intero. Non sono più i capi di stato, né i militari, com'è stato nei secoli passati. Probabilmente sono i gruppi di interesse, ma tanto eterei ed evanescenti ch'è impossibile dare loro un volto, un cognome.
Abbiamo lasciato che il denaro diventasse la misura di ogni cosa ed ora l'economia detta legge. Una legge che non si cura del giusto o dello sbagliato, ma soltanto dell'utile. Allora non è Berlusconi il nemico, né colui che può risolvere le cose.
Le cose possiamo risolverle noi, ristabilendo una diversa scala dei valori, riportando il denaro a una più modesta dimensione e riscoprendo il dono, il tempo, la sapienza, la gratuità e tutti quei comportamenti buoni che assomigliano a un seme: danno frutti, purché ci sia pazienza.
La Bce, l'Fmi e tutte quelle spoglie cattedrali senza religione potranno imporci un punto in più dell'Iva o una tassa persino sul pane, ma non potranno impedirci di dividerlo quello stesso pane, di mangiarlo con gli amici, magari con un filo d'olio e un pizzico di sale, chiacchierando attorno a un tavolo, al chiuso d'inverno e sotto il sole, s'è estate.

Foto by Leonora

giovedì 20 ottobre 2011

Morto Gheddafi. E anche il pudore

Mi scrive Tony. In stampatello maiuscolo, poche righe.

"LA FOTO-TROFEO DI GHEDDAFI NON CREDO SIA UN BEL GESTO DI CIVILTA', LO FACEVANO A SUO TEMPO LE ISTITUZIONI ITALICHE CON I BRIGANTI,COME FACCIAMO A PARLARE DI "ESPORTARE LA DEMOCRAZIA" SE CONTRAPPONIAMO BARBARIE A BARBARIE? LA NOSTRA CULTURA HA CONCEPITO PAVESE,FENOGLIO,RIGONI STERN ED UN'INFINITA' DI ALTRI ESEMPI DA SEGUIRE: POSSIBILE CHE LO "SCOOP A TUTTI I COSTI" E "PRIMA E MEGLIO DEGLI ALTRI" LO IGNORI?"

E' vero. Pavese, Fenoglio, Rigoni Stern e tanti altri. Forse ci vuole del coraggio, forse si sbaglierebbe comunque a non pubblicare quei video o la foto di quel corpo martoriato, esangue.
Ma se è dalla parte del torto che devo sedermi, che almeno sia quella che mi fa sentire fiero delle mie scelte, degno di quelle coscienze che mi sono state maestre, oltre che compagne in tante ore di letture.
Gheddafi è morto. Non lasciamo che con lui muoiano anche il rispetto, la compassione, il pudore.

Foto by Leonora

Ci sono un tedesco, un'italiana e un francese (Il giornale letto sottopra)

Il giornale preso al contrario: non sottosopra ma quasi.
In questi giorni in cui sento più urgente la necessità di cambiare il menù quotidiano offerto ai lettori, temendo che anche un'ottima, una squisitissima, una deliziosa portata di lasagne possa alla lunga stancare se servita sempre come primo in tavola, osservo chi mi è più vicino e compilo la classifica delle notizie più lette.
Che non sono mai quelle nella parte alta della pagina.
Tre giorni, tre esempi.
Ieri l'altro, sezione "esteri" del Corriere, un articoletto di quaranta righe in tutto, un quartino di pagina tra il nulla e la pubblicità delle borse Piquadro. Titolo: Turista scompare in Polinesia "Vittima di un cannibale". Il pezzo, senza firma, racconta di Stefan Ramin, un quarantenne tedesco sparito dopo aver partecipato alla caccia alla capra ("tipica di queste zone"), della sua fidanzata violentata, della guida locale svanita nel nulla, di resti umani, odore di carne bruciata e una tesi agghiacciante, pur se non confermata dalla Polizia: "Che sia stato ucciso e divorato da un gruppo di cannibali". Cannibali! Ma come cannibali? Io credevo che fossero rimasti nei libri di Salgari, uccisi da Tremal-Naik.
Ieri, La Stampa. Patrizia Reggiani, moglie e assassina del rampollo della famiglia Gucci. Titolo: "Mai lavorato, non voglio uscire. La Reggiani sceglie il carcere". La mia, d'una moglie, è scandalizzata. Legge il pezzo due volte, incredula, scuote la testa e dice: "Che mondo, che gente. Non ha mai lavorato...".
Oggi è toccato a me, al giornale dove lavoro, un pezzetto così detto "di spalla", nelle pagine di attualità. Titolo del trafiletto: "La gaffe del ministro francese su twitter: vieni a letto con me?". Il ministro è quello dell'industria, Eric Besson, che s'è sbagliato e ha mandato a tutti i suoi contatti un messaggio privato. Un incubo per l'homo tecnologicus. Proprio per questo l'ho letto, perché mi sono messo nei suoi panni (quelli che poi lui s'è tolto, andandosene a letto, spero non con tutti i tredicimila e passa amici che ha sul social network).

Foto by Leonora

martedì 18 ottobre 2011

Le cose serie

Che non esistano più le mezze stagioni è un falso acclarato dal mio raffreddore, buscato con il caldo freddo freddo caldo di questi giorni. E da un malessere latente, diffuso, subdolo, uno di quelli non così forti da costringerti a letto e non così lievi da farti lavorare bene, senza prendere il fazzoletto ogni tre secondi.
In paragone dello Stato italiano sto comunque benone. Un fiore proprio.
Innanzi tutto non devo esser sottoposto al controllo delle astiose agenzie di rating, gente che fatica a metter fuori il naso dal proprio ufficio hi-tech per scoprire se c'è sole o piove e che pretende di dare un giudizio a intere nazioni. Più che austere cattedrali della matematica applicata agli affari sembrano marchi escogitati da Lapo Elkan per vendere felpe ed occhiali: Stantard & Poors (Poor Standard, in dialetto milanese), Moody's (Moody's Allen) e la terza sorella, l'aggressiva Fitch (il socio sfigato di Abercrombie?).
Sono loro che ci hanno tolto la tripla AAA o forse ce l'hanno lasciata, togliendo però il numerino in allegato. Eravamo fieramente degli AAA1 e siamo dei semplici AAA o degli AA, forse degli Ah Ah Ah.
Il risultato è il chiasso che assorda e non permette di distinguere il fragore della montagna che frana dallo scricchiolìo della sedia del banchiere corrotto.
Volevo parlarne ieri sera, con mio figlio Giacomo. Spiegargli della crisi, dei tempi grami che forse ci attendono, del fatto che a differenza di quanto è capitato ai suoi nonni e in parte accade anche a me, il tenore economico suo e dei suoi fratelli non sarà in costante ascesa, dal poco al tanto, ma potrebbe comportare il taglio dal medio al poco o dal poco al pochissimo, quasi nulla, niente proprio. Volevo parlargli degli sforzi che stanno facendo i paesi occidentali per affrontare l'emergenza finanziaria, per evitare il declino, e del ridicolo fondo monetario internazionale, della banca europea, pure di quella nostra, dove abbiamo un conto corrente da una vita ma che di giorno in giorno viene eroso, vaporizzato, restando asciutto. Volevo parlargli degli indignati, che sono quelli come noi, un po' sfigati ma onesti dento, mentre quegli altri, quelli con il cappuccio che devastano le città, appiccano incendi e tirano gli estintori, sono soltanto dei disgraziati, i primi che se potessero di toglierebbero gli stracci di dosso e ti abbandonerebbero nel fondo di un pozzo. Volevo parlargli della necessità di un governo stabile, ma ancor di più di un Paese sano, onesto, credibile, mentre in parlamento è tutto un mercimonio di denaro e di sedie girevoli, una per l'approfittaore di turno. Volevo parlargli degli imprenditori che vorrebbero governare senza mai decidersi del tutto e dei governanti che preferiscono fare gli imprenditori senza mai lasciare il posto pubblico.
Volevo parlargli di tutto questo, ma ho preferito le cose serie. Abbiamo guardato in tv "La banda dei babbi Natale" di Aldo, Giovanni e Giacomo.

Foto by Leonora

lunedì 17 ottobre 2011

Qualcosa di vero

Non sono pigro, mi inchino semplicemente a ciò che mi lascia a bocca aperta, stupito e soddisfatto persino, come colui che ha trovato un tesoro e non vede l'ora di condividerlo, di farlo sapere anche agli altri. Questo è lo stralcio del discorso che un grande uomo ha scritto in occasione del suo settantesimo compleanno. Moltissimi lo conoscono, io lo ignoravo. Ringrazio Gaia Valsecchi, per averlo messo nella sua bacheca di Facebook permettendo che io lo vedessi e potessi condividerlo con tutti coloro che passano di qui e cercano qualcosa di vero, prima ancora che di nuovo.


Quando ho cominciato ad amarmi davvero, mi sono reso conto
che la sofferenza e il dolore sono solo un avvertimento
che mi dice di non vivere contro la mia verità.
Oggi so che questo si chiama AUTENTICITA’.
Quando ho cominciato ad amarmi davvero, ho capito
com’è imbarazzante aver voluto imporre a qualcuno i miei desideri,
pur sapendo che i tempi non erano maturi e la persona non era pronta,
anche se quella persona ero io.
Oggi so che questo si chiama RISPETTO PER SE STESSI.
Quando ho cominciato ad amarmi davvero, ho smesso
di desiderare un’altra vita e mi sono accorto che tutto ciò che mi circonda
é un invito a crescere.
Oggi so che questo si chiama MATURITA’.
Quando ho cominciato ad amarmi davvero, ho capito di trovarmi sempre
ed in ogni occasione al posto giusto nel momento giusto e che tutto quello
che succede va bene.
Da allora ho potuto stare tranquillo.
Oggi so che questo si chiama RISPETTO PER SE STESSI.
Quando ho cominciato ad amarmi davvero, ho smesso di privarmi del mio tempo
libero e di concepire progetti grandiosi per il futuro.
Oggi faccio solo ciò che mi procura gioia e divertimento,
ciò che amo e che mi fa ridere, a modo mio e con i miei ritmi.
Oggi so che questo si chiama SINCERITA’.
Quando ho cominciato ad amarmi davvero, mi sono liberato di tutto ciò
che non mi faceva del bene: cibi, persone, cose, situazioni e da tutto ciò
che mi tirava verso il basso allontanandomi da me stesso,
all’inizio lo chiamavo “sano egoismo”, ma oggi so che questo è AMORE DI SE’.
Quando ho cominciato ad amarmi davvero, ho smesso di voler avere sempre
ragione.
E cosi ho commesso meno errori.
Oggi mi sono reso conto che questo si chiama SEMPLICITA’.
Quando ho cominciato ad amarmi davvero, mi sono rifiutato di vivere nel
passato e di preoccuparmi del mio futuro.
Ora vivo di piu nel momento presente, in cui TUTTO ha un luogo.
E’ la mia condizione di vita quotidiana e la chiamo PERFEZIONE.
Quando ho cominciato ad amarmi davvero, mi sono reso conto che il mio pensiero
può rendermi miserabile e malato.
Ma quando ho chiamato a raccolta le energie del mio cuore, l’intelletto è
diventato un compagno importante.
Oggi a questa unione do’ il nome di
SAGGEZZA DEL CUORE.
Non dobbiamo continuare a temere i contrasti, i conflitti e i problemi con noi
stessi e con gli altri perché perfino le stelle, a volte, si scontrarno fra loro dando origine a
nuovi mondi.
Oggi so che QUESTO è LA VITA!
(Charlie Chaplin)



Foto by Leonora

domenica 16 ottobre 2011

Cremat e pirlas (solo una dei due è una specialità spagnola da leccarsi i baffi)

Qualche sorriso in più e qualche broncio in meno non sarebbero male. Lo scrivo per chi ha i milioni di euro in banca e fa del bene alla propria città, pretendendo però in cambio soltanto lodi e suoni di fanfare (leggere qua, per chi vuole approfondire), ma anche per chi sembra sempre che gli sia morto il gatto e guarda in cagnesco, a dispetto dell'astio che da sempre divide i due animali.
In questi giorni io mi trovo sospeso, nel mezzo del guado e indeciso se tornare indietro o preseguire. Proseguirò, anche perché quando sono nato l'unica marcia di cui mi hanno munito era quella avanti.
Nel occhi ho ancora i teppisti di ieri, che hanno messo a ferro e fuoco Roma per una mezza giornata abbondante.
Indignados, ma soprattutto pirla. Pirlas, come direbbe l'Amelio, espertissimo di traduzione italiano- spagnola. Celebre l'ordinazione di un Cremat, quando eravamo a Tamariù, sulla costa Brava.
Il Cremat era una specie di grolla valdostana, ma fabbricata nella penisola iberica. Molto alcolica e dal gusto pieno, aromatizzato, sono sufficienti un paio di sorsi per farti sentire un leone. Il problema è che un quarto d'ora dopo dormi russando quanto un elefante.
Ho nostalgia di quella spiaggia, di quei pini altissimi, della baia e dell'odore del mare. Magari ci tornerò, pur soltanto di passaggio, come ho già fatto quest'anno in cui con tutta la tribù siamo stati a visitare la masseria di Monopoli e la corte con annesso cascinale di Squinzano.

Foto by Leonora

venerdì 14 ottobre 2011

Incavolados

Indignados no, un po' incavolatos sì.
Con tutti. Con molti diciamo.
"Incavolados" con la borsa o la vita di Wall Street, perché la borsa è la loro ma la vita è la mia. E come sanno benissimo i più lungimiranti tra gli straricchissimi, quando la forbice tra chi ha troppo e chi ha nulla diventa tanto ampia da tagliare in due un paese, non vive peggio soltanto colui che non ha pane ma pure quello che ha anche il salame, però deve vivere assediato, nel terrore della violenza, della ribellione.
"Incavolados" con i politici che tirano in lungo l'agonia di un governo soltanto per mangiarsi un'altra fetta di torta e spuntare la pensione da parlamentare. Il tutto con un mercato delle vacche che definirlo così è offensivo, ma per le vacche. Ieri, per non farsi mancare nulla e soprattutto una manciata di voti, hanno nominato altri due vice ministri, uno dei quali dovremmo tirarlo in segno di protesta: Polidori. Intanto Roma non brucia, ma è cotta bene.
"Incavolados" con chi usa a sproposito le parole, con chi le usa troppo e male, aumentando il chiasso e la confusione. Perché anche quello è un trucco: fare baccano, creare un frastuono tale che risulta impossibile farsi capire, far sentire agli altri la propria voce e ascoltare quella altrui. Un brusio di fondo a immagine e somiglianza del modo migliore di nascondere le cose: gettarle dove non c'è logica, soltanto confusione.
E' per questo che mi fermo qui, che oggi scelgo il silenzio per dire ciò che mi sta più a cuore.
Si può essere "incavolados" anche senza urlare.

Foto by Leonora

giovedì 13 ottobre 2011

Più biblioteca per tutti (invito per sabato)

Il giorno e l'orario forse non sono dei più felici (io, ad esempio, lavoro), ma l'appuntamento vale una presenza. Se non potete andare voi, mandate la moglie, il marito, la mamma, i figli, un parente anche oltre il terzo grado, il cane, gli amici, i conoscenti, i vicini di casa, fermate i passanti per strada e dite loro ch'è importante, che ne va più dell'evento in sé, che in gioco c'è addirittura la democrazia.
Siamo parlando dell'incontro che si terrà dopo domani (sabato mattina) alle undici e mezza, di fronte al Comune di Lurate Caccivio per ribadire civilmente che la nuova biblioteca va aperta, che attendere altri mesi è un tesoro sprecato, per chiedere insomma alla attuale amministrazione un gesto di coraggio, oltre che di buon senso e di speranza.
Altre parole non servono, anche perché sull'argomento ho già scritto e non ho cambiato idea.
Gli organizzatori mi hanno chiesto di fare un breve intervento, ma come ho detto lavoro e faccio un mestiere tale per cui non posso dire "Tanti saluti, ci vediamo dopo", perché le notizie non aspettano. Alle dodici e mezzo conto di esser di ritorno, ma non so se durerà tanto.
In ogni caso ci saranno mia moglie, mia madre, i miei figli, gli amici... E a chi teme che partecipi poca gente, dico due cose.
Primo: le battaglie si giudicano dalla bontà degli argomenti, oltre che degli obiettivi.
Secondo: in una società in cui moltissimi si disinteressano e badano esclusivamente al proprio orto, chi vuole il bene del proprio paese e mette al primo posto la cultura, i giovani, ha già vinto e raccoglierà i frutti di certo. E' solo questione di tempo.

Foto by Leonora

martedì 11 ottobre 2011

Il primo passo (e poi un altro e un altro e un altro...)

Non credo ai disegni misteriosi del destino, ma il destino non ha bisogno che noi crediamo ai suoi disegni misteriosi per renderli presenti, vivi.
E ho imparato che il caso spesso ci fa incontrare persone che restano per sempre nella nostra vita o che ci accompagnano semplicemente per un tratto di strada, tenendoci per mano o anche solo camminando al nostro fianco.
Tra le molte benedizioni che la vita mi ha concesso, c'è quella di aver sempre incontrato persone che mi hanno voluto bene, nei fatti e non limitandosi alle parole.
Molte di loro le ritrovo spesso, altre solo di tanto in tanto, ma in entrambi i casi non occorre che un istante per ricreare quella sintonia che aveva reso e rende tuttora il legame speciale, a suo modo unico. So che ci sono ed è moltissimo. Spero che loro pensino così di me, consapevoli che possono contarci anche quando sembro lontano.
Quasi sempre mi sento in colpa proprio per questo, per non avere una vicinanza palese, costante, continua, che eviti loro di doversi fidare pur se ho ridotto le tracce a impronte di dinosauro. Eppure in mille circostanze, tutti i giorni direi, mi vengono in mente, penso loro e mi riprometto che proprio perché non le sento o non le vedo da parecchio tornerò a mandare un segnale, farò una sorpresa, facendomi vivo, spuntanto pur nudo di tutte le mie colpe, le mie mancanze, senza stare a spiegare troppo, preferendo esserci di nuovo e riallacciare il filo che sembra interrotto.
Discorsi in generale, che hanno però volti precisi a cui penso. Sono quelli di Marco e di Sonia, della mia ex collega Chiara, di Caterina, di Mauro. Di molti altri. E penso a chi invece, di recente, ho incontrato di nuovo, scoprendo che il senso di colpa era medesimo, reciproco, e che rivedersi pur se per pochi minuti, per un caffé al bar o per due chiacchiere in mezzo alla strada, portava in sé il seme dell'amico ritrovato. Mi è capitato con Marianna, ad esempio, ma anche con David, che merita una citazione particolare, perché resta per me stella polare, un esempio, un modello di riferimento, mostrandomi quasi sempre cosa significhi essere amico: fare il primo passo, avvicinarsi sempre, di nuovo, cercarsi senza spuntare il conto dei "spetta a lui", "ora basta, sono sempre io a cercarlo". In questo assomiglia molto a Isabella, un'altra persona da cui imparo molto.

Foto by Leonora

domenica 9 ottobre 2011

Giuliano e la figlia di Micol

La forma è solo apparenza, dice la figlia di Micol, e nelle ricorrenze importanti si ostina a voler indossare jeans e scarpe da tennis invece di ballerine e gonna. Tempo un anno, forse due, cambierà idea, spero non la sostanza.
Questa purezza mi riconcilia con le cose belle della vita.
Stamattina mi era saltata la mosca al naso, leggendo "Il foglio" e l'articolo di fondo di Giuliano Ferrara, che ogni tre per due indossa i panni (larghi) del difensore della immorale pubblica firmandosi "un ateo devoto", che poi sarebbe come scrivere un libertino casto o un goloso inappetente. E guai a dirglielo, perché non soltanto lui s'incavola, tacciando l'obiettore di ottuso oscurantismo, di perbenismo ipocrita, ma pure per quelli del suo stesso circolo sei un tagliato fuori, un tonto con gli zoccoli ai piedi e il mantello da villano, da compatire e irridere non riuscendo a cogliere quella straordinaria intelligenza che dal Giuliano stesso promana.
Io, di quell'intelligenza (ch'è poi anche quella di un D'Alema), non so proprio che farmene, tanto vale che se la tenga, perché tanto è solo apparenza mentre mi piace quella genuina, spontanea, intuitiva della figlia di Micol, ch'è tutta sostanza.

Foto by Leonora

sabato 8 ottobre 2011

Il teorema di Marchionne

E' stata una bella serata, quella della cresima di Giorgia.
Della cerimonia non parlo, essendo un'esperienza personale e intimissima di chi la vive.
Il momento conviviale successivo invece è stato degno della fortuna che abbiamo: avere, essere una famiglia numerosa.
Casa nostra era piena di gente, ma non è questo che di per sé ha reso la serata speciale, unica. La differenza l'ha fatta, come sempre, il clima. Di gioia, di semplicità, di affetto, di buona compagnia. Il regalo più bello che Giorgia potesse ricevere, l'unico che resisterà all'usura e al logorio del tempo che passa.
Archivio il quadretto domestico e rispolvero un pensiero che mi ronza nella testa da quando ho letto "L'Espresso" della scorsa settimana, con un ritratto di Marchionne, l'amministratore delegato della Fiat. Più dei titoli, delle foto e dei sommari, mi ha colpito una frase tra le tante, una dichiarazione che lo stesso manager aveva rilasciato quando era da pochi mesi alla guida del colosso industriale italiano. "Salvare la Fiat - disse - richiede uno sforzo intellettuale com'è possibile avvenga una sola volta nella vita".
Che non tutto proceda per routine, che la bravura non sia uno stampo da utilizzare in qualsiasi circostanza, che il successo dipenda non tanto o non solo da un'abilità diffusa e tale da poter esser replicata, bensì che si tratti in qualche modo di un'opera unica, mi ha colpito parecchio.
Mi ha ricordato la matematica, o la fisica, con exploit che riescono una volta sola, di solito in età verdissima, mentre il resto della carriera trascorre sì nell'eccellenza, ma un'eccellenza priva di genialità, di scoperta.
E visto che come sempre rivedo a specchio su me stesso le altrui vicende della vita, mi sono domandato se anche a me capiterà di dover prima o poi affrontare un'esperienza che richieda uno sforzo intellettuale unico, irripetibile.
Non so se una risposta esista o se occorra più tempo per pensarci, ma non l'ho ancora trovata. Però qualcosa cova.

Foto by Leonora

venerdì 7 ottobre 2011

L'orso (non) ammaestrato

Incappo per caso in qualcosa che ho scritto qui, quattro anni fa, e che mi ero completamente scordato. Il post di cui parlo ha per titolo "Un mese da orso", racconta i primi trenta giorni da blogger e a rischio di imbrodarmi ammetto che mi è piaciuto.
"Dev'essere un tipo in gamba" penserei, se non sapessi di essere io, che in gamba mi vedo sì, ma di legno, come chiunque abbia un minimo di pudore e conosca il limite del proprio recinto.
In ogni caso, sull'esperienza del diario on line sottoscrivo per filo e per segno tutto ciò che ho messo allora, anche se non immaginavo di trovarmi qui, quattro anni dopo, a guardare la pila dei miei pensieri dall'alto, riconoscendomi in ciascuno senza ricordare per altro di averlo scritto.
Se c'è un cruccio, piuttosto, è che nella massa molto si perde e anch'io per molto tempo sono stato distratto, titolando male, non mettendo tag, parole chiave che permettessero di riconoscere rapidamente temi ed argomento.
L'orso però ora s'è fatto più socievole, a suo agio nella foresta che s'è scelto, pur se ha l'ostinazione e l'ardire di pensare di non essere ammaestrato, di percorrere sentieri in assoluta libertà, ch'è poi il pensiero che avevo quando questo blog è nato.

Foto by Leonora

giovedì 6 ottobre 2011

Steve Jobs e la tv italiana (Così si uccide un uomo morto)

Ho tentato, ma non ce la faccio. Ovunque volga lo sguardo o mi metta in ascolto non vedo e non sento altro: Steve Jobs, Steve Jobs, Steve Jobs.
Il peggio lo offre la Rai, che ha azzeccato l'orario (il prime time, la prima serata) e nel contempo scelto il modo più brutto: il talk show, la chiacchiera vana, il "Porta a porta" per giunta modello cinese, copiato. A celebrarne la scomparsa è infatti la trasmissione "Agorà", su Rai Tre, con Vianello (non Raimondo, un altro ch'è scomparso) nei panni di Vespa a tenere al guinzaglio e dirigere il traffico in un parterre di comparse, mezzi uomini, ominicchi e quaqquaraqua da far invidia a "Uomini e donne" di Zelig, con Claudiano.
Eppure sarebbe bastato pescare dall'immenso archivio e riproporre il già visto (e dimenticato) per fare un buon prodotto e dare esempio di ottimo servizio pubblico. Invece no. Perché il Porta a porta la televisione italiana ce l'ha nel sangue, nel midollo, nel cervello.
E per chi non sa di cosa parlo, ricopio qua ciò che il collega e amico Alessio Brunialti ha scritto ieri l'altro nella sua "settimana InCom" sul sito web de La Provincia a proposito della puntata di "Porta a porta" a commento della sentenza di assoluzione per Amanda Knox e Raffaele Sollecito. In poche righe, un ritratto amaro ma stupendo.

Buongiorno,
le sentenze vanno rispettate. Questa semplice frase non si può, però, applicare a Bruno Vespa: egli non solo le rispetta, ma le VENERA, le idolatra, offre olocausti. Era caricatissimo a molla ieri, s'è organizzato per tutto il weekend per mettere insieme il Golden Circus Mediaticus in diretta, roba che manco i Togni, gli Orfei e Medrano insieme, roba che Barnum era uno squallido dilettante, tutti radunati per morbosizzare l'ennesima volta su una vicenda di cui, francamente, non s'è capito ùnca.
C'erano l'uomo pistola, la donna cannone, la trapezzona, il feroce Saladino, il camaleontico Bilbolbul, il perfido duca Serpieri, la nonna del Corsaro Nero, Scarpia, Paperoga, Gongolo e Servio Tullio (accomunati dal fatto che, statisticamente, quando si elencano i sette rispettivi, loro sono quelli più dimenticati), Buck la peste, Jack Bidone coi fratelli Bolivàr, Pippo, Pertica e Palla, lo strozzatore, Cicci il mostro di Scandicci (amnistiato), Ramba, Jack La Cayenne, Jack Mandolino, Maldèi Prìmitivs, una gemella Kessler (l'altra no perché era a Matrix), in collegamento dalla casa degli orrori alla casa del cioccolato perugina la ministra che continua a cercare il tunnel sotto il mondo. Momenti televisivi impagabili, e in effetti vien subito voglia di non pagare il canone.

La chiudo qui. Tra un'oretta comincia il Porta a porta quello vero. Se l'argomento è Steve Jobs spengo. Se invece si parla d'altro, spengo lo stesso. Bruno Vespa non avrà il mio corpo e neanche l'attenzione di uno dei due neutroni che dentro la testa mi girano (più in basso gira altro, ma non lo scrivo).

Foto by Leonora

mercoledì 5 ottobre 2011

Il calcio più bello

Domenica sera abbiamo visto insieme, qui a casa mia, la partita del Milan. Insieme significa, io, la mia famiglia, Loris con la sua, cioè Roberta, Silvia e Alberto e Angelo con i tre figli maschi, Stefano, Federico e Pietro. Tutti juventini, chi più sfegatato, chi meno. Nel primo tempo c'era anche Fabrizio, che invece tiene all'Inter e suo figlio Cristian, milanista, ma con i suoi otto anni troppo piccolo per restare concentrato a lungo, così con Giovanni ne ha approfittato per farsi un paio di sfide alla playstation.
Risultato a parte, è l'atmosfera che mi è piaciuta un sacco. Non una novità, in casa mia, perché già con mio padre le gare di calcio erano occasione per un ritrovo di amici, anche venti per volta, come per i turni finali dei mondiali, compresi i mitici del 1982 e quelli più recenti ma sempre vittoriosi del 2006, gli ultimi che abbiamo visto insieme, prima che lui se ne andasse in tutt'altro stadio.
Che io portassi avanti la tradizione non era scontato. A differenza sua, sono meno di compagnia, mi piace anche starmene da solo, anche perché spesso sono nervoso e nel caso di sconfitta simpatico come una pedata di punta sulle tibie. Per fortuna ci sono loro, amici e parenti, che non si fanno scrupolo e ogni tanto vengono. E ogni volta è un'emozione, un evento.
Lo ha scoperto anche Pietro, dodici anni, che di calcio non si è mai interessato, ma uscendo da casa mia, l'altra sera, ha detto a suo padre: "E' stato bellissimo".
Gino, da dove vede lui le partite adesso, sarà stato certo contento.

Foto by Leonora

L'attesa

Molti hanno scheletri nell'armadio, qualche osso ce l'ho anch'io. Così. Perché nessuno è perfetto e per non farmi mancare nulla.
Il cruccio più grande però è non chiarirmi con una persona, spezzare il dialogo, essere chiuso o costringere l'altro a doppia mandata, fuori dall'uscio. Non ho nemici, è vero, nessuno almeno che incontrandolo per strada debba voltare la testa dall'altra parte, fingendo di non vederlo. Con qualcuno però la distanza è diventa porta chiusa.
Penso a una persona in particolare, a cui devo molto, e che non sento da una vita. Colpa mia, senza dubbio. Primo per i miei errori, secondo per la coda di paglia, terzo per superficialità, quarto per un vago senso di colpa, quinto per timore di essere frainteso, sesto per orgoglio, solo in questo caso reciproco. Sta di fatto che la porta s'è serrata.
Se dicessi che ci ho messo una pietra sopra, tuttavia, sarei falso. Da mesi e mesi ci penso, praticamente ogni giorno, senza coraggio di tornare a bussare a casa sua, limitandomi a sperare che avvenga il contrario e dunque lasciando socchiusa la mia. Troppo poco. Infatti mi ritrovo qui, senza sapere nulla, strade parallele che proseguono senza incroci o semafori in vista.
Lo scrivo oggi perché domani è un giorno particolare. Il suo compleanno. L'ultima volta che l'ho sentita al telefono credo sia stato proprio un anno fa, il 6 ottobre. Per un motivo futile, di cui ho smarrito traccia, mentre ho ben presente l'imbarazzo mio, alla fine, quando prima di appendere, ridendo in quel suo modo infantile e malizioso insieme, mi aveva detto: "Non hai proprio niente altro da dirmi?". Non l'avevo. Mi ero completamemte scordato il suo compleanno.
Perciò da mesi ricordo questa data, me la sono segnata in fronte, marchiata a fuoco, anche se nel frattempo la brezza è diventata vento gelido e sono ancora qui, immaginando mille ragioni senza una sola che sia convincente, che possa darmi la certezza del perché di tanta freddezza.
Vorrei che non fosse così, sapere come fare per ristabilire un contatto, chiederle mille volte scusa. Dirle ancora una volta le mille cose che mi ha insegnato, per cui le sono e le sarò sempre grato, dalle poesie di Baudelaire ai cioccolatini regalati per Natale e che aveva fatto lei, per me.
Forse lo farò. Di certo lo farò. Sono mesi che ci penso, ho continuato a rimandare, è ora di darsi una mossa. D'altra parte, i fatti sono l'unico modo di trasformare in parola la chiacchiera.

Foto by Leonora

martedì 4 ottobre 2011

Un dono sempre "presente"

Sostiene il motto popolare che c'è più gioia nel dare che nel ricevere. Però dare resta più difficile. Questione di tasche e con i tempi che corrono soprattutto di testa: bisogna pensarci.
"Non so che regalo fare" è la frase che ricorre spesso, anche nelle discussioni in famiglia.
Ne parlavo con Roberta, la mia cugina preferita e non per il fatto irrisorio e accidentale ch'è anche l'unica (il mio cugino maschio preferito è invece suo fratello, Fabrizio).
Natale, compleanno, anniversario, matrimonio, battesimo, prima comunione, cresima...
Mille circostanze in cui a volte basta il pensiero. Il problema è averlo.
Per fortuna ora ci sono i social network, infatti ieri su Facebook ho chiesto un parere ai numerosi conoscenti e in un paio d'ore m'è arrivata una carovana di suggerimenti.
Ora non so ancora cosa regalare, ma mi sono fatto un'idea guida. Due anzi.
Primo: la sobrietà.
In un tempo di crisi, di incertezza per il futuro, spendere molto è più che sbagliato: è immorale.
Secondo: l'immaterialità.
E qui il discorso si complica. Provo a spiegarlo.
Nel passato certe circostanze (il battesimo, la cresima, i diciotto anni, cioè il passaggio all'età adulta, il matrimonio, ma anche Natale e così via) erano l'occasione per regalare gioielli, monili, preziosi, oppure - più recentemente, dagli anni Settanta diciamo - oggetti tecnologici di valore, come macchine fotografiche, televisori, computer.
La rilevanza del regalo era data dall'eccezionalità e si sceglievano cose che durassero nel tempo, che fossero un piccolo patrimonio.
L'epoca dell'abbondanza e della pancia piena, in cui viviamo, ha fatto perdere a queste cose l'importanza, perchè possiamo averle non soltanto in particolari ricorrenze ma in qualsiasi giorno dell'anno o comunque con maggiore probabilità rispetto al passato.
Cosa invece è rimasta unica, rara? L'emozione di ricevere un pensiero. Ed è questa la chiave di volta. Il futuro (e anche il presente) dei regali non sta tanto nell'oggetto, bensì nell'occasione che crea e che rimane unica. Di qui la scelta di oggetti immateriali (viaggi, corsi, biglietti di partita, teatro...). "Ma non durano, svaniscono nel volgere di pochi giorni, di ore persino?" potrebbe essere l'obiezione. Invece è l'esatto contrario: durano una vita, custodite nel cuore e nella memoria, perciò più al sicuro di qualsiasi cassaforte o caveau di banca e più disponibili all'uso della maggior parte degli oggetti che custodiamo in casa.

Foto by Leonora

lunedì 3 ottobre 2011

In finance we don't trust (io sto con gli incavolados)

Li vedo di striscio, frammenti d'immagine muta, mentre sbircio la tv duranta la quarta riunione della giornata, quella delle sei e mezzo.
Sul ponte di Brooklyn, seduti e con le mani sopra la testa, o in posizione fetale, senza reagire o porre resistenza violenta, in balia dei poliziotti che uno a uno li prendono e spostano di peso...
Sono coloro che protestano contro Wall Street, contro la finanza e i finanzieri senza scrupolo, coloro che sull'altare del profitto sacrificano la fortuna di uomini e donne e pure l'aspetto produttivo, in una sorta di miopia che - per qualche masochistico motivo - impedisce loro di vedere che così facendo divorano la terra stessa dove hanno costruito un impero.
Non conosco molto altro di queste persone. Ad occhio sono giovani, giovanissimi.
Mentre torno ad ascoltare ciò che i colleghi stanno dicendo e la televisione esce dall'orbita dei miei pensieri, mi trovo a riflettere sulla parte che sceglierei io.
Pur essendo per la legge e l'ordine, in questo caso coloro che manifestano mi suscitano un pensiero buono, come se rappresentassero me stesso e fossero a immagine dei miei figli, delle generazioni che verranno. In questi don Chisciotte io mi rivedo. Se non all'atto pratico, certo in quello teorico, che denuncia e condanna un sistema talmente impersonale che non si può neppure manifestare contro un nome, un cognome, un volto, ma si deve ripiegare su una via, uno spiazzo, un luogo simbolico.
Mentre la politica arranca, latita, siamo nelle mani di tecnocrati che danno ricette senza curarsi di farcele comprendere, quasi sempre senza nemmeno curarsi di alzare il naso dal computer: schiacciano un bottone e puf, via cento miliardi. Ne pigiano un altro e zac, sparita una fetta dello Stato sociale, quello che i nostri padri con tantissima fatica hanno creato.
Fino a quando lo tollereremo e, soprattutto, come riusciremo a fermarli pacificamente? Un avverbio, "pacificamente", che è stella polare di comportamento, ma che richiede tempi lunghi e una dose costante di autocontrollo.
A volte mi trovo a pensare: sorgerà mai una protesta, una rivoluzione potente e al tempo stesso rapida a diffondersi, come fu il Sessantotto?
Non lo so. Però mi tengo vigile, all'erta. Prendendo il buono che c'è e scartando tutto il resto.
Nella consapevolezza che "Indignados" forse no, ma Incavolados - molto Incavolados -lo sono senza dubbio.

Foto by Leonora

domenica 2 ottobre 2011

A noi piace la Bignardi

Serata piacevole ieri, sabato, con Brunella, Angelo, Aurora, Attilio, Laura, Oreste.
Cena squisita e discussione incorporata, per una volta con argomenti differenti da crisi, politica, escort, expo, daspo, tivù, tivi, calcio, calci, tralci, intralci...
Il tema dibattuto più a lungo sono stati i romanzi russi, che Angelo, Laura e Oreste adorano, io e Brunella non reggiamo e Aurora prende tempo, senza generalizzare e consigliando "Oblòmov" di Ivan Aleksandrovic Goncarov come inizio.
Io, che l'unico che adoro è il Tolstoj di "Guerra e pace" (letto però in età adulta, molto adulta), mi sono trovato in minoranza, con i miei amati ed amabili romanzieri francesi dell'Ottocento a cercar di spiegare le ragioni di un'infatuazione che come ogni infatuazione non ha ragioni.
Per evitare di scrivere anch'io un romanzo mi fermo qua, con un appunto. A Isabella. Per aver sorriso sorniona e taciuto tutto il tempo. Non un commento, una frase di circostanza, una battuta, nemmeno un sospiro d'insofferenza o quell'annuire lievemente, col capo, in cui di solito le donne sono maestre, mentre con le orecchie sentono qualcosa che non ascoltano e pensano a tutt'altro. La spesa, i bambini, i mestieri, il lavoro, il conto in banca, le piante da potare, le mancanze del marito, le presenze della suocera, le bizze della collega, il tempo che passa, quello atmosferico, il dolce in tavola, le calorie di troppo, quelle di meno, sudate una per una, in una settimana di stenti e rinunce, l'appuntamento dal dentista, il tagliando dell'auto, la spazzatura che deve portare fuori ancora lei perché mai una volta che ci penso io... Cose così insomma.
Ieri poi, vista l'ora tarda, tutto è passato in fanteria, ma oggi ho acceso il moviolone, ci ho ripensato e le ho chiesto spiegazione. "Ma tu, perché ieri sera non hai detto nulla, non hai proferito parola?". "Perché di romanzi russi non ne ho sul comodino - mi ha risposto - e perché sto leggendo la Bignardi e mi piace moltissimo. Ma voi eravate così presi. Come facevo a dire: a me piace la Bignardi".
Ed è questa l'unica cosa in cui Isabella sbaglia. La serata ieri è stata piacevolissima, ma se avesse detto della Bignardi sarebbe stata (lieve e) bella ancora di più.

P.S. Giuro che dopo Goncarov leggo la Bignardi.

Foto by Leonora

sabato 1 ottobre 2011

Quattro anni, gli stessi occhi

Quattro anni oggi. Era un lunedì, il primo ottobre del 2007. Venti righe nasceva quel giorno, all'inizio di una delle tante pausa pranzo trascorse in televisione.
Il primo post l'avevo intitolato Libertà di parola, parole in libertà perché in quel tempo forte come non mai sentivo l'esigenza di togliermi di dosso la polvere, le troppe briglie di un'informazione a senso unico, legittima fin che si vuole ma che mal s'intonava con ciò che mi stava a cuore.
A quei principi cerco di restare tuttora fedele, pur se di acqua n'è passata sotto i ponti e quasi non lo riconosco più il blog, visto ora, da qui, in cima alle scale di questa torre ormai monumentale, che spaventa pure me se la guardo nel suo insieme, con i suoi oltre cinquecento scritti, la maggior parte dei quali scomparsi dai ricordi consapevoli.
Quattro anni dopo ho cambiato lavoro, abitudini, idee, conoscenti, persino molti amici. L'essenza però di quel che ero non è cambiata. Me ne sono accorto leggendo il secondo dei post, quello che ho scritto il giorno successivo e per titolo aveva La regola del videoregistratore. Al di là delle affermazioni di principio, che facendo il paio con quando evidenziato il giorno prima completavano una sorta di manifesto futurista delle buone intenzioni, è la frase finale che mi ha colpito.
"Se mi immagino fra trent'anni, non escludo di vedermi quieto, in una stanza con vista su un giardino o sotto un faggio, mentre leggo un libro, senza squilli o connessioni o apparecchi elettronici attorno".
E' la medesima idea che di me stesso ho anche adesso e - nonostante stagioni, sole, pioggia e vento - vedo un uomo più vecchio ma con gli stessi occhi, quando si guarda allo specchio.

Foto by Leonora