giovedì 30 giugno 2011

Giorgio Gandola nuovo direttore de "L'Eco di Bergamo"


Il dado è tratto: Giorgio Gandola lascia "La Provincia di Como" (e Lecco, Varese, Sondrio) e sarà il nuovo direttore de "L'Eco di Bergamo". Se lo scrivo qua (facendogli un dispiacere, a dimostrazione che è dagli amici che bisogna guardarsi non dai nemici) è perché ora posso parlare di una persona che stimo senza timore di piaggerie o il sospetto di un possibile tornaconto. Del resto, più di ciò che ha fatto per me non potrei pretenderlo: in tempi di zero assunzioni mi ha portato al giornale e lo considero ancor oggi un miracolo, oltre che un privilegio. Sono di parte, dunque, ed è bene precisarlo. Ai colleghi bergamaschi che in questi giorni saranno avidi di sapere "chi è Giorgio Gandola" due o tre cose posso dirle, senza girarci troppo attorno.
Giorgio Gandola è un uomo sereno e un giornalista serio. Penna come ce ne sono poche, quando scrive dà il meglio di sé, senza apparente sforzo, usando un'ironia sottile in cui non c'è traccia di retorica o di trombonerie, neppure a cercarle col lanternino. Lontano dai salotti e dalle logiche di partito, lo definirei un liberale vero e un laico. Laico nel midollo, non di facciata. Per dare una misura oltre che un'idea del soggetto, egli è al polo opposto del bigotto. Siccome però lo conosco e so che i complimenti gli procurano un prurito d'orticaria, farò di peggio: dirò un’ovvietà: Giorgio Gandola non è immune da difetti. Tra essi c'è il fatto che, come tutti i buoni d'indole, quando si arrabbia sale di tono e taglia corto, troncando il discorso. E raramente, per non dire mai, pesta i pugni sul tavolo. Molte volte, in confidenza, parlando di questo o quel problema, mi ha detto, autoironico: "Perché qui, se ci fosse un direttore vero...". Vero è come quelli che ha avuto lui, geniali e balzani allo stesso tempo: Montanelli e Feltri, ma anche Belpietro, di cui mi ha sempre parlato benissimo (facendomelo - per proprietà transitiva - rivalutare, pur se a pelle non gli darei un centesimo). Chi si illude però di avere a che fare con un debole si sbaglia di grosso. Sono i fatti che parlano: in cinque anni Gandola ha rivoltato "La Provincia" come un calzino, anticipando rivoluzioni che quotidiani ben più prestigiosi soltanto adesso stanno iniziando. Gli scettici prendano il giornale di quando è arrivato e lo confrontino con quello di adesso: formato tabloid, full color, inserti, edizioni on line e soprattutto la multimedialità diffusa, coinvolgendo tutta la redazione e non soltanto una riserva indiana di illuminati staccati da tutto il resto. Non basta. Ha saputo garantire una qualità alta, nonostante tagli e cinghie tirate. Se c'è riuscito, senza mai un giorno di sciopero, è per due motivi: sa essere cocciuto ma è trasparente, gioca su un tavolo solo. Di lui in redazione mi mancheranno le battute; le mail con i suggerimenti; i ritratti folgoranti in poche righe, di questo o quel personaggio; gli aneddoti di una vita da inviato, in giro per il mondo; l’ironia; il buon senso. A Bergamo gli auguro, con l’aiuto dell’editore, di riuscire a fare ciò che ha fatto a Como, Lecco, Varese, Sondrio: guardare i potenti dritto negli occhi, da pari a pari, senza pretese di superiorità ma neppure timori, ansie o reverenze da cortigiano. Dear George, in bocca al lupo.
Foto by Leonora

mercoledì 29 giugno 2011

Simona Ventura, Santoro, Vespa e la Rai che perde i pezzi (per fortuna)


Simona Ventura lascia Rai Due e se ne va a Sky. "Un buon motivo per disdire l'abbonamento" ha sentenziato serafico il mio collega Mario Schiani, in riunione di redazione, mentre le agenzie rilanciavano la notizia. Santoro è andato, la Ventura è andata e anche la Gabanelli non si sente tanto bene. Eccetto quest'ultima, da conservare in una teca e preservare come patrimonio dell'Unesco (in un paese di guitti e furbetti, fa le pulci con piglio e rigore teutonico), per tutti gli altri non mi fascerei la testa. La Rai ha il dovere e non soltanto il diritto di congedare vecchi tromboni e affermati professionisti pagati quanto una mezza punta del Milan, possibilmente per sostituirli con giovani o meno giovani comunque emergenti, che alla fine riescono a portare un valore aggiunto in termini di freschezza e dunque di qualità e valore per la stessa azienda. Non piangerò una lacrima per la Simona griffata e graffiante tenuta assieme a graffette, lontana parente della ragazza sveglia che teneva botta alla Gialappa's. E' stata brava, probabilmente lo è tuttora (saranno tre anni che non vedo più una sua puntata) ma avanti un'altra: la lista delle sostitute è lunga. Idem Santoro. E' una vita che "chiaggne e fotte": è bravo, ma date loro il tempo che ha avuto lui e almeno un centinaio di giornalisti televisivi potrebbero fare informazione quanto e come la fa lui, se non meglio. Tranne i geni (Benigni, per fare un nome), chiunque altro è rimpiazzabile. Lo stesso Floris era un signor nessuno, finché gli hanno dato chiavi in mano un'ammiraglia. Per non parlare di Vespa, che ormai celebra ogni sera se stesso con altezzosità e boria, neanche immaginando dove stia di casa l'ironia (figuriamoci l'autoironia).
A chi adombra il sospetto che in verità si tratti di una dismissione in massa della tv di Stato, a favore della concorrenza Mediaset e del conseguente portafoglio del presidente del consiglio Berlusconi, rispondo che anche nella peggiore delle ipotesi - cioè che sia vero - il diavolo fa le pentole ma non i coperchi: liberarsi di contratti pesanti e far emergere volti nuovi non è una maledizione, bensì una manna. Ricordando che per quanto possa esser devastante la compagnia briscola dei Berluscones, son sempre bruscolini al confronto di quanto male da sé si faccia la stessa Rai, gigante obeso che pretende di volare nonostante la gran zavorra di dirigenti, funzionari e dipendenti parastatali in gita.

Foto by Leonora








martedì 28 giugno 2011

La Valtellina è grande (i valtellinesi di più)



Quattro giorni via, a riprendere colore e fiato, cercando di sciaquar via un'antipatia che si ritorce contro me stesso colpendo però più forte chi ho vicino. Sono stato in Valtellina, a Berbenno, paese di mio padre e di antenati di cui porto più sangue che memoria. Ne riporto traccia qui per raccontare lo stupore e il piacere di una cena in compagnia, a casa dei parenti Basco e Luisella. Una tavolata immensa, a mangiar polenta, vari tipi di carni e formaggi. Eravamo una composita combriccola, composta metà da miei familiari, metà da loro amici ("soci", come si chiamano tra loro: una parola che io non uso ma che mi piace, in quel contesto, poiché contiene l'eco di una complicità, oltre che di un'amicizia non oziosa, fattiva). Mentre venivano servite varie portate sono rimasto sorpreso dalla ricchezza e dalla varietà delle esperienze e d'una sapienza che non si trova su nessun libro, ma che dà la misura della grandezza di una terra. Ho cominciato a capirlo chiacchierando con Vincenzo, quarantaquattro anni di lavoro in Svizzera e da tre in pensione. "Invece di andare al bar - mi ha detto - ho rimesso a posto la vigna di mio padre e faccio ogni anno un tre ettolitri di vino, tutto naturale, come si faceva una volta!". Lo abbiamo bevuto, quel vino, e anche una bottiglia speciale, fatta con uve lasciate a maturare un mese in più rispetto alla normale vendemmia. Mi sono fatto una piccola cultura sulle viti di Nebbiolo (l'uva piantata di Valtellina, chiamata da queste parti "Chiavennasca"), sui parassiti e sulla grandine e sulla gradazione. Un tempo, quando mio bisnonno lasciò Berbenno per trasferirsi nel comasco, vendendo poche viti riuscì a comprare ettari e ettari di prati e bosco. Il vino che facevano allora era un "chiaretto" a bassa gradazione (tant'è che, non abituato a quello venduto da queste parti, gli bastava un bicchiere per addormentarsi nel tragitto di ritorno, sotto un fico, e ogni volta doveva partire mio padre per condurlo a casa sotto braccio) mentre ora raggiunge i dodici gradi, anche quattordici, se si ha la pazienza di aspettare a raccogliere l'uva. "E' la temperatura che si è alzato" chiosa Vincenzo, che mi convince dell'effetto serra più di qualsiasi meteorologo). Poco dopo, nel valzer delle chiacchiere, è il turno di Domenico, una sorta di "Braveheart", torace possente e capelli lunghi mezzo metro. Per tirargli fuori una parola ci sono volute un paio d'ore, ma poi si è sciolto. Lavora da una vita per le compagnie pertrolifere, è stato anni e anni sulle piattaforme in svariati punti del globo, tornando a casa di tanto in tanto. Ora è in Qatar, dove stanno costruendo due raffinerie di gas. Racconta di quella terra, dello sceicco che concede laute prebende (cinquemila dollari al mese) a ciascuno dei settecentomila abitanti, degli operai indiani e filippini ingaggiati per duecento dollari al mese, dell'ambulanza che gira ininterrottamente per raccogliere i collassati, della convivenza tra islamici e occidentali sulle piattoforme al largo della Libia, dell'elicottero caduto a Ravenna dove sono morti tutti e otto i componenti della sua squadra mentre lui si è salvato perché era in ferie, della differenza tra teoria e pratica quando viene dato l'allarme e bisogna abbandonare tutto in un quarto d'ora... Domenico parla e io assaggio un liquore delizioso, fatto da Billy, anch'esso un personaggio fuori dal comune, espertissimo di erbe. Ma il fatto straordinario è un altro, cioè che quest'uomo di cinquant'anni e passa, approfittando di un periodo di salute grama, abbia imparato a usare il computer e stia mettendo pian piano nero su bianco tutte le informazione su erbe e piante che in questi anni ha imparato. "Quando sono pronto, butto tutto in rete" dice con l'espressività di chi "in rete butta tutto" a mano. Billy spiega di decotti, di infusi, di radici e di foglie. Poi si alza, esce e se ne torna un quarto d'ora dopo, con tre bottiglie da lasciare in regalo.

Questo non è tutto. Potrei continuare nel resoconto, ma il bersaglio grosso credo di averlo colpito, dando almeno l'idea del perché una terra chiusa tra due catene di monti e per molti aspetti tagliata fuori dal mondo è riuscita a dare figli che si sono fatti onore e che sono motivo d'orgoglio. Dirò di più: al tavolo c'era anche un'altro personaggio, stempiato, capelli lunghi dietro, con due baffi folti e una vaga somiglianza con Maurizio Nichetti. In tre ore e passa avrà detto tre parole in tutto ma sono convinto che se avessi avuto più tempo e l'occasione di interrogarlo, mi avrebbe anch'egli stupito, lasciandomi ammirato.



Foto by Leonora

venerdì 24 giugno 2011

Cinquecento post (L'operosità paziente delle api)


Cinquecento. E' il numero di post che compaiono su questo blog, scritti uno per uno dal sottoscritto, con piglio d'artigiano. Se chiudo gli occhi di alcuni ho una vaga memoria, della maggior parte non ricordo proprio cos'ho scritto, tanto che a volte, quando ci incappo per caso, non riesco neppure a credere che li abbia partoriti io. "Ma pensa te... - mi dico - bravo Giorgio!". Non ce n'è invece uno di cui mi vergogno o, peggio, mi pento. Può darsi che se dovessi rileggerli tutti, uno a uno, qualche variazione la farei, qualche spunto sarebbe superato o nello spettro dei colori sceglierei una tinta, un tono, invece di un altro. Però nella sostanza riconosco con orgoglio la paternità di ciascuno. Non starò qui a ricordare com'è nato questo blog, le motivazioni che mi hanno spinto a crearlo e le ragioni che lo tengono tuttora vivo. Chi lo segue lo ha già letto molte volte e non vorrei mi guardasse con l'accondiscendenza paziente con cui si sopporta l'anziano. "E' bravo, è simpatico, Giorgio, ma sembra mio nonno: sempre le stesse cose!". Oggi no, cambio spartito. Dicendo che l'altro giorno, mentre tagliavo il prato, sulle piante di lavanda era tutto un via vai d'insetti. D'istinto ho spento il tosaerba e sono rimasto incantato da tutto questo avanti e indietro, dalla paziente operosità delle api. Ecco, se guardo alle radici di questo blog, trovo qualcosa di simile, in quella misteriosa energia che anima le api, che solo in apparenza fanno un lavoro vano e di cui non godono - se non per una minima parte -il frutto. Però lo fanno. In quell'operosità paziente, pur se ben celato, c'è un senso. Un giorno, magari vicino o forse lontano, qualcuno leggendo queste righe ne scoprirà uno per i pensieri che metto qui, uno in fila all'altro. Non so se sarà il senso che do io, ma sarà già meraviglioso che leggendo scopra il senso suo.

Foto by Leonora

mercoledì 22 giugno 2011

Apple killed the old attitude (De tecnologia limes)


E' ora di rimettersi in marcia. Suona strano per chi come me crede di non essersi mai fermato e anela alle settimane estive per tirare il fiato, per conoscere tregua. Eppure, se guardo indietro, in tanto affanno trovo poco che valga la pena d'esser ricordato. Un segnale, una spia che qualcosa ho sbagliato. In questi giorni sono cupo, ma ormai mi conosco e so che non si tratta di rilassamento, bensì della carica a molla del mio ingranaggio. La tecnologia mi tiene lontano dai libri e so ch'è sbagliato. In principio credevo fosse questione di equilibrio, ora intuisco che il divario che s'è creato è più profondo di quanto immaginavo, che se la ragione e la consapevolezza non intervengono rischio una deriva che non immaginavo. Mi viene in mente una canzone: "Video killed the radio star". Proporrei una versione aggiornata: è Internet che uccide l'apprendimento come lo conoscevamo. Piaccia o no, questo è il risultato, invece di fasciarsi la testa o gridare allo scandalo, tanto vale rimboccarci le mani e vivere appieno questo tempo, cercando di non subirlo, semmai di orientarlo verso cio' che c'è di vero, di buono, e che rischia di esser perso. Nel frattempo, mi stupisco nel ricordare com'era la vita senza il computer. Di più. Senza telefonino! Eppure, lo giuro, quel tempo c'è stato. Come facevamo? Come potevano non essere reperibili ventiquattro ore al giorno? Come reagivamo nel non sapere dov'erano i nostri figli (per la verità allora il figlio ero io: dovrei chiederlo a mia madre) o la moglie (non ero neanche sposato) o gli amici (quelli sì, li avevo. Chissà come era arduo rintracciarci evitando di fare ciò che Giacomo fa ora, scambiandosi una pioggia di sms, chiamando al telefono ogni minuto e appena ci si saluta richiamarsi di nuovo. Eppure ci incontravamo, eppure non restavamo chiusi in casa per l'impossibilità di mettersi d'accordo. Anzi, in casa mi pare restino più adesso, che pure sono collegati con il mondo.
Non è un discorso nostalgico, né un "si stava meglio quando si stava peggio" (se c'è una cosa che odio sono le malinconie da arcadia perduta). Piuttosto un ricordarsi che diverso, più efficacie, certo più dinamico e veloce è il mezzo, ma identico è il fine, ch'è quello di non essere soli, di crescere, di stare insieme, di ritagliarsi un posto nel mondo. Proprio ciò che faccio da quaranta(quasi)cinque anni e che mi spinge ogni giorno a non fermarmi o, se mi fermo, a ripartire di nuovo.

Foto by Leonora

domenica 19 giugno 2011

Tutti in fila appassionatamente



Giorni scalzano giorni e mi ritrovo qui, in cima a un monte di cui non ricordo la salita, con i segni del tempo sulla pelle e figli grandi, che sfiorano ormai l'altezza mia. E' un volano la cui velocità costante è un'illusione, mentre in realtà si dimostra assai più rapida di quanto era prima, a immagine capovolta dei cerchi a pelo d'acqua che disegna il sasso gettato dalla riva: lenti, enormi, quando ero un bambini, piccini, fulminei ora, che sono a metà dei quaranta. Piego me stesso all'ineluttabilità dell'esistenza, mi preparo al fine corsa, pur sperando (e illudendomi) che non arrivi mai, che ci sia ancora un tempo infinito prima che accada. Ho nostalgia di ciò che è stato e più non è, ma più forte è la volontà di godere ciò che sono ora. Un paio di giorni fa ho provato il piacere di leggere un articolo di Michele Serra con mio figlio, di condividerne la bella scrittura, il senso e soprattutto l'ironia, la sagacia. Abbiamo riso assieme, senza bisogno di sottotitoli, e mi rendevo conto che Giacomo è così simile a me e nel contempo completamente diverso, unico, altro. Non mi capita di rado di volergli suggerire la via, quasi sempre una scorciatoia. Lo faccio a fin di bene, il suo, della persona amata. A volte è acqua di rugiada, che dopo un quarto d'ora di sole non lascia neanche traccia. A volte addirittura fa danno, perché anni di sapienza non si possono liofilizzare e somministrare formato pillola. Getto un panno spesso sulle mie paure, sui timori del futuro, dell'avvenire dei miei figli. "Se ce l'ho fatta io, che in fondo sono uno sfigato, ce la faranno anche loro". Lo dice la testa, è il cuore che non lo accetta. Non così a scatola chiusa, vorrebbe aggiungere mattone su mattone, regalare - avendole già pagate di tasca mia - architravi di saggezza. Illuso. Come se fosse nel risultato la ricchezza e non nel viaggio intrapreso per raggiungerla. Giacomo domani farà la quinta prova scritta dell'esame di terza media. Del mio ricordo solamente il giudizio finale e una corsa sfrenata, coi compagni maschi, in bicicletta, il giorno in cui furono pubblicati i tabelloni con i voti. Mi sentivo il re del mondo, consapevole padrone di una vita che avevo in pugno e neppure immaginavo potesse essere sabbia, granello dopo granello che scivola via. In questi giorni realizzo un certezza: nella relazione, nel dare e avere, si concentra il buono della vita. Lo scrivo qua, come pro memoria, perché spesso la mia esistenza è in senso unico di marcia: lancio o passo la palla e mi fermo. Poco importa che qualcuno la rispedisca al mittente, che la restituisca, che cerchi quel dialogo che a me viene presto in uggia. Eppure le relazioni umane sono come una spola: s'è ferma, non fa danno ma nemmeno è utile, non funziona.

Foto by Leonora












mercoledì 15 giugno 2011

Bennet Cantù: dieci motivi per crederci

Se non sono venti, sono vent'uno. Il Cantù Basket è stato il mio secondo giornale e per il Cantù Basket ho intervistato il primo personaggio famoso (Eros Ramazzotti: eravamo entrambi poco più che maggiorenni, io universitario alle prime armi con penna e taccuino, lui già idolo delle ragazzine. Ricordo che lo incontrai poco prima di un concerto. Aveva calze bianche e si massaggiava i piedi mentre parlavamo). In tanto tempo, non sono mai mancato all'appello, grazie al buon cuore e alla tenacia di Dino Merio, che mi ha voluto e mi ha sempre difeso, compreso due anni fa, quando al coach di allora non piacque ciò che avevo scritto e, per colpa mia, per la prima volta nella storia della pallacanestro canturina, l'intero pacco fu ritirato e nessuna copia fu distribuita al Pianella. Volevo andarmene, Dino non volle sentire ragione, dimostrandomi ancora una volta che l'amicizia ha un valore specie quando non ha prezzo. Oggi la Bennet ha vinto gara tre della finale di play off con Siena. Quello che pubblico qui è il testo dell'editoriale che, per quella gara, ho scritto. Lo riporto qui, perché la serie non è ancora finita, perché dopo domani c'è un'altra partita, perché se c'è anche una sola possibilità su cento di sognare, val la pena lottare allo spasimo, fino all'ultimo.

Ci siamo. Vorremmo cedere al sentimentalismo e lasciarci andare alle celebrazioni, ai festeggiamenti per una finale attesa trent’anni, quando la maggior parte di chi è oggi alla Ngc Arena nemmeno c’era. Non c’era nemmeno la Ncg Arena: solo il Pianella. Non possiamo. Manca un ultimo sforzo, un ultimo passo: giocarcela fino in fondo. Siamo arrivati così lontano che sarebbe peccato mortale non essere concentrati al massimo, non avere un appetito mostruoso. Ecco perché, più dei ringraziamenti (ci sarà tempo) preferiamo dieci buoni motivi per essere incacchiati neri, per essere sicuri che gli occhi della tigre non mancano.

  • Dobbiamo giocare duro, perché è una vita che aspettiamo.
  • Dobbiamo essere tosti, perché molti che avrebbero meritato di essere qui non ci sono più. Sia in tribuna, sia in campo. E non ci riferiamo soltanto a Denis Innocentin, Chicco Ravaglia e a chi la vita è stata spezzata troppo presto, ma anche a tanti atleti valorosi, campioni e anche onesti lavoratori del parquet che in questi trent’anni hanno sputato sangue senza riuscire nemmeno ad avvicinarsi al paradiso.
  • Dobbiamo essere concreti, perché adesso le chiacchiere stanno a zero e a prescindere dalle prime due partite di questa serie finale, dalla Ncg Arena non deve passare lo straniero.
  • Dobbiamo essere intensi, perché di fronte non abbiamo una squadra forte, ma una super, la migliore di un intero decennio, che può stare antipatica fin che si vuole ma ha fuoriclasse che se gli dai mezzo metro non ti fanno vedere la palla lontana un chilometro.
  • Dobbiamo essere umili, perché quel che è stato fatto fino ad ora vale zero, perché tutto è cancellato e bisogna ricominciare da capo, dall’ultimo gradino.
  • Dobbiamo essere spavaldi, perché ha ragione Trinchieri, quando con un boccale di birra in mano, la voce roca, davanti agli Eagles, indica i suoi giocatori e dice: “Ricordatevi una cosa: un gruppo di giocatori così, non li ha nessuno.
  • Dobbiamo essere orgogliosi, per tutti coloro (moltissimi) che questa squadra non la seguono soltanto ora, ma erano in tribuna, in gradinata, in curva quando annaspava all’ultimo posto, in anni bui che al confronto è luminoso pure il nero. Diciamo soltanto una lettera e un numero: A2. C’eravamo noi, mentre gli altri festeggiavano. A lungo abbiamo atteso il nostro turno.
  • Dobbiamo essere tecnici, perché al di là delle chiacchiere, finora Cantù ha giocato il più bel basket del campionato: difesa accanita, giro della palla fluido, scelta di tiro mai forzata. Non dimentichiamolo.
  • Dobbiamo essere sereni. In campo e sugli spalti. Perché perdere la faccia è peggio che perdere quella parolina che all’inizio dell’anno abbiamo giurato di mai nominare e che fa rima con benedetto, architetto, provetto…
  • Dobbiamo essere visionari, perché solo chi sogna non vive nell’incubo e si alza ogni mattina soddisfatto, sapendo che quel sogno può trasformarsi in realtà. Basta crederci e volerlo, più di chiunque alto. Forza ragazzi, siamo tutti con voi.

domenica 12 giugno 2011

Luigi "Messo" e lo spirito del vangelo


Più della parola, poté l'esempio. Sul giornale di oggi in quaranta righe ho cercato di raccontare chi era Luigi. Luigi di cognome era Trombetta, ma tutti lo chiamavano Luigi "Messo". Messo comunale in verità era suo padre, Attilio, ma da queste parti in dote si porta pure il nomignolo. Luigi aveva ottantadue anni e da qualche tempo era malato: un cruccio che soltanto i parenti più vicini conoscevano. Lui minimizzava, diceva sempre che stava bene e bene sembrava stare davvero. Sul giornale ne ho parlato perché era un lettore fedele de "La Provincia", che criticava spietatamente ma di cui si sentiva parte, come lo sono migliaia di comaschi, da oltre un secolo. Qui invece mi piacerebbe lasciare memoria di ciò che Luigi aveva di buono e che era molto, come ha ricordato il prete, durante il funerale, con una chiesa strapiena non per caso, anche se egli non era famoso e molti dei coetanei l'avessero preceduto. Non era un santo, questo no. Polemista nato, specialmente in politica dovevi alzare bandiera bianca presto, perché non accettava obiezioni e ti assaliva con quella voce roca che lo distinguevi lontano un miglio e che si scioglieva immancabilmente con un sorriso e una frase sdrammatizzante, che riportava in pari ciò che prima era in bilico. Luigi aveva un talento: quello dell'aiuto fraterno. Ci pensavo oggi in chiesa, mentre ascoltavo la seconda lettura, il brano di san Paolo in cui vengono elencati i vari doni dello Spirito. Di più. Luigi pur non essendo bigotto incarnava alla perfezione il comandamento evangelico del "fare agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te". Proprio così: fare agli altri. Non "non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te" come talvolta - sbagliando - viene riportato. Il vangelo non si limita a una negazione, bensì invita a un moto a luogo, a un'azione da compiere: "Fare agli altri". E Luigi faceva. Nel quartiere dov'è nato, cresciuto e morto, "ul Bidìn", Luigi era per tutti un punto di appoggio, un aiuto. Accompagnava chi aveva difficoltà a spostarsi a far la spesa o in farmacia o, spesso, provvedeva lui direttamente ai bisogni di questo o quello. Con una particolarità all'apparenza poco eclatante ma in verità straordinaria, dirompente: Luigi non aspettava che gli venisse chiesto aiuto, bensì era lui a bussare alle porte, a fare il primo passo, a domandare se si avesse bisogno, spesso senza necessità di attendere risposta, precedendola con un: "Non preoccuparti, ci penso io" ("Ghe pensi mi" meglio, in dialetto). Ora che non c'è più il paese è un po' orfano, ma più della tristezza qui vogliamo segnalare la gioia, la vitalità che, donando agli altri, riceveva per se stesso. Luigi "Messo" adesso è in pace, accanto alla sua Augusta, la moglie che quasi trent'anni fa l'ha preceduto. Erano una bella coppia. Lo saranno all'infinito.

Foto by Leonora

venerdì 10 giugno 2011

Referendum sull'acqua: non beviamoci tutto


Per quel che interessa, oggi mi sono deciso: domenica andrò a votare e metterò quattro sì.
Lo farò perché ci ho pensato. Lo farò perché mi piace l'idea di democrazia partecipativa, la possibilità di scegliere dal basso una strada piuttosto che un'altra. Lo farò perché quando uno mi dice di andare al mare a me s'arriccia subito il naso, forse perché "andare al mare" fa rima con un altro "andare a...". Lo farò perché tanto poi faranno quello che gli pare (com'é già successo con un sacco di referendum: e poi si chiedono come mai non si raggiunge il quorum, come mai la gente non ha più fiducia nella partecipazione popolare) ma intanto è un bel segnale. Lo farò perché non mi sento né di destra né di sinistra, però ragionare con la mia testa mi piace.
  • Dei quattro sì il più convinto sarà quello sulla seconda scheda, quella gialla, sulla possibilità che ha il gestore del servizio idrico di ottenere profitti garantiti sulla tariffa, ovvero aumentare la bolletta se lo ritiene necessario. Io questa possibilità a chi gestisce il servizio non voglio darla.
  • Sul quesito della scheda rosa, quello che genericamente impedirebbe di affidare la gestione dei servizi pubblici locali a operatori economici privati, sono più titubante. Il servizio gestito dai privati di solito è migliore. Voterò comunque sì, poiché l'attuale servizio (gestito da società private, a partecipazione di maggioranza pubblica) non mi dispiace.
  • Sulla scheda grigia, per impedire la costruzione di centrali nucleari nel nostro paese, pur se non mi piace la demagogia e vorrei trovare risposte a risorse alternative nella produzione di energia, credo che il rischio sia troppo alto per essere corso.
  • Sulla scheda azzurra e il legittimo impedimento, un sì di principio generale, che sia da base per le future generazioni, mentre io a Berlusconi in persona (ma solo a lui) lo darei: è una vita che ci stressa con questa storia dei processi, della gogna giudiziaria, dei magistrati rossi. Gli proporrei uno scambio: va bene Silvio, noi ti assolviamo da tutti i tuoi reati veri o presunti, nel nome del padre, di Piersilvio e del presidente Napolitano, ma tu la pianti con questa caciara di lanentazioni. Credo che ci guadagneremmo entrambi.

Foto by Leonora

giovedì 9 giugno 2011

Mimmo Franzinelli, i diari di Mussolini e i sordi


Per capitare, m'è capitato quasi per caso. Alla sede de L'Ordine era previsto l'incontro con Mimmo Franzinelli, autore di "Autopsia di un falso", il libro che demolisce i presunti diari di Mussolini. Doveva esserci anche Dell'Utri, che invece di quei diari (il primo dei quali edito da Bompiani) è lo sponsor principale. Quasi un anno fa, a Parolario, Dell'Utri era stato duramente contestato da un manipolo di facinorosi, che gli avevano impedito di fatto di parlare ("Un gesto illiberale" è stato definito l'episodio: condivido) e quello di oggi poteva essere l'occasione più unica che rara di vedere confrontarsi i due portabandiera delle tesi contrapposte. Mancando Dell'Utri anche la tensione si è affievolita, ma in redazione abbiamo deciso di seguire la conferenza ugualmente, dedicandogli uno spazio pur limitato sulle pagine della Cronaca, le nostre. Devo ammettere che l'incontro mi ha appassionato. Non già il tema in sé, né per la disputa sul contenuto, cioé se quei diari siano falsi o veri. Franzinelli, storico per professione, per mezz'ora abbondante è andato spiattellando una serie di ragioni che a rigor di logica non lasciano dubbi sulla mancata autenticità del documento. Ad affascinarmi è stato piuttosto il suo piglio, la sua eroica e metodica avanzata nelle praterie del reale, portando a supporto date, confronti, testimonianze... Una razionalità, un puntiglio, un sacro fuoco nello smascherare incongruenze e falle, che tuttavia si sono scontrati con quanti per partito preso sostengono la tesi opposta. "Non c'è peggior sordo di chi è sordo veramente" dicono a mo' di battuta Aldo, Giovanni e Giacomo in un loro spettacolo. Anche chi non vuol sentire non scherza. Così, mentre Franzinelli si cimentava nella stroncatura, alternando affermazioni lapalissiane con virtuosismi da ricercatore meticoloso, a chi non la pensa come lui bastava alzare un sopracciglio e sentenziare: "Professore, non mi ha convinto, le sue non sono prove, solo supposizioni". Un'obiezione incontrovertibile, a cui sono appesi centinaia di migliaia di euro, se non milioni: quelli dell'affare associato al caso letterario in questione. Milioni di buoni motivi per turarsi le orecchie. Onore perciò al soldato Franzinelli, l'ultimo giapponese che si prende la briga di tentare di convincere chi non vuole sentire (torti e) ragioni.

Foto by Leonora

mercoledì 8 giugno 2011

La goccia d'ambra


I grandi temi lasciano in ombra gli intimi affetti. Solo qui, sul blog. Nella vita reale è diverso e pur se il lavoro in questi giorni si mangia gran parte del tempo, riesco a dividere quel che resta del giorno con le persone a cui voglio bene. Stasera ad esempio sono riuscito ad arrivare poco dopo le nove, riuscendo a vedere un film insieme al resto della famiglia. Giorgina ci teneva più di tutti. Erano sei giorni che insisteva. Complice qualche contrattempo non eravamo mai riusciti a combinare. Oggi s'è seduta sulle mie ginocchia e abbiamo guardato la tv così, vicini vicini. E' una coccolona, Giorgia. Come Giovanni, tanto dolce quanto sa far disperare se s'impunta e frigna per un nonnulla. E anche Giacomo lo è, pur se ormai è in quell'età in cui ostenta spacconeria e si vergogna di svelare il lato tenero ch'è in lui. Ieri l'altro, mentre mia madre era in ospedale per una serie di esami, a differenza di quanto avviene a casa non si è vergognato di abbracciarla, di baciarla, di salutarla e anche quando se ne stava andando, prima di uscire dalla porta, s'è girato e ha fatto ciao con la mano. Poco più di un dettaglio, che mi ha fatto piacere, orgoglioso di una minuzia come soltanto un genitore può essere. A proposito di orgoglio, domenica Giovannino ha parato tre rigori, permettendo alla sua squadra, il San Luigi, di battere l'Itala e arrivare terza al torneo del nostro paese, mentre Giorgia si è esibita nel saggio di fine anno di ginnastica. Scrivo tutte queste cose per una sorta di riscatto, perché non appartengo alla schiera di coloro che scattano migliaia di foto o video per immortalare momenti da ricordare. Temo che un giorno me ne pentirò, eppure non soltanto la pigrizia è più forte, anche la consapevolezza di questo tempo che fugge e che nonostante i nostri sforzi non riusciamo a trattenerlo. Però lo sforzo dell'uomo spesso porta a un risultato magico, oltre che meraviglioso: bloccare l'istante, esattamente come l'ambra fa con l'insetto. Ecco, queste righe vogliono essere una goccia d'ambra, una di quelle da tenere sempre al collo e non farci per anni caso e un giorno qualsiasi, per un ghiribizzo, ci si sofferma a guardarla più attentamente , si fa caso al segreto che ha imprigionato e per un istante la barriera del tempo di frantuma e il passato e il futuro scompaiono, esiste soltanto l'adesso, un eterno guardare la tv con i miei figli rimasti piccoli, sul divano.

Foto by Leonora

domenica 5 giugno 2011

Bennet Cantù in finale: trent'anni, un giorno

  • Per tutte le ho partite che ho guardato aspettando questo momento.
  • Per tutte le delusioni che ho provato in trent'anni che attendo.
  • Per chi era di sentinella e se n'è andato prima che arrivasse questo giorno.
  • Per quella volta che Giacomo ha preso le convulsioni, Isabella credeva fosse morto e io non c'ero perché stavo vedendo una partita di coppa Korac contro una formazione albanese.
  • Per Dan Gay e le semifinali con Caserta che ha perso.
  • Per i milioni di parole che ho scritto sulla squadra di pallacanestro.
  • Perché se non ci fosse stato il basket non sarei quello che sono.
  • Per Aldo Allievi che non c'è più.
  • Per Gianni Corsolini e Francesco Corrado, due amici veri, a cui debbo molto.
  • Per Dino Merio, che è l'unico motivo per cui non ho chiuso i conti con il passato.
  • Per il voto che ho fatto tre anni fa e che aspetta di essere esaudito ma non è mai stato tanto vicino.
  • Per tutte le persone che al Pianella ho conosciuto.
  • Per gli sputi che mi sono preso una volta a Livorno.
  • Per la gradinata di fronte alle panchine, dove ho comprato la tessera per anni.
  • Per Mauro Colombo, mio compagno di banco al liceo, che mi ha portato per la prima volta in prima fila, a bordo campo.
  • Per Denis Innocentin che ho conosciuto di striscio e per Chicco Ravaglia, di cui invece ero amico
  • Per Fischetto e la sua Bic Trieste, che ne presero quaranta di distacco e mi sembrava la partita più bella del mondo
  • Per chi paga da cinquant'anni l'abbonamento.
  • Per il numero 27 della tribuna stampa, ch'è stato mio per ventun anni, prima che facessi il voto.
  • Per Sabatini e il garage in cui secondo lui giochiamo
  • Per il freddo d'inverno e il caldo in estate che in quel garage ho patito
  • Per Dan Peterson, che è stato un signore, fino in fondo
  • Per tutti gli allenamenti che da ragazzino mi sono visto
  • Per la Elena e la Paola e tutti i tifosi, in testa gli Eagles
  • Per Federica
  • Per l'unica volta che ho chiesto un autografo in vita mia
  • Per gli anni della A2 e per i giorni in cui s'è rischiato di scomparire davvero
  • Per chi non sbandiera la sua gioia ma se la coccola dentro.
  • Per tutti coloro che non hanno mai smesso di crederci, che ci hanno sempre creduto.
  • Per tutti e ventinove motivi che ho scritto e per questo, il trentesimo, uno per ogni anno in cui ho atteso che Cantù arrivasse alla finale scudetto. Resta ancora molto da fare, quasi un miracolo, ma era davvero troppo che non respiravamo da così in alto.

sabato 4 giugno 2011

L'occidente ha già vinto (povero Mao)


I cinesi russano. All'università. In classe. In prima fila proprio. Se la dormono della grossa, con tanto di bavetta al lato della bocca e in qualche caso bolla al naso, ragazzi e ragazze, incuranti del professore a pochi centimetri, che in dieci minuti è passato dall'attonito al basito, scocciato, incredulo, perplesso, meravigliato, sconcertato. Non sa cosa fare. Interrompere la lezione e dare loro una sveglia o far finta di nulla? Fa finta di nulla. Poi, sale le scale, entra nell'ufficio del rettore e espone il caso. Aspettano. Il giorno dopo stessa aula, medesima scena, finché alla fine della settimana l'addetta agli studenti stranieri del Politecnico chiede motivo a una delle ragazze cinesi su tale comportamento. "Da noi si usa così" si sente rispondere. A raccontarcelo è lei stessa, l'addetta agli studenti stranieri, non la cinese che russa. Siamo a tavola e dice che l'indomani avranno un incontro con tutti i trecento e passa studenti provenienti da ogni parte del mondo che studiano a Como. "Abbiamo preparato un opuscolo per spiegare le norme di comportamento in Italia. Ci siamo resi conto di quanto fosse necessario qualche anno fa, quando si verificarono gli episodi dei cinesi che russavano in prima fila. Non un pisolino, proprio una domrita bella e buona e non negli ultimi banchi, proprio sotto gli occhi del docente! Nella loro cultura, abbiamo scorperto, si dà molta importanza alla presenza fisica e il messaggio che si vuole dare è questo: sono così stanco che non riesco a stare sveglio, ma nonostante tutto sono qui, a lezione, al mio posto. Non è l'unica differenza, ce ne sono moltissime. Gli indiani ad esempio hanno un tono di voce fortissimo e urlano anche quando sono a lezione, invece di bisbigliare gridano, e disturbano. Non si fa". Già, non si fa. Non qui almeno. Chissà se andassimo noi in quei paesi, che maleducati saremmo... In ogni caso non è per questo che scrivo questo post, bensì per rivelare che i cinesi hanno già perso, sono già stati colonizzati, alla faccia della loro potenza econimica, del loro roboante progresso. Me ne sono reso conto sempre sentendo raccontare dalla ragazza addetta agli studenti stranieri del Politecnico il suo ultimo viaggio in Cina. Per caso ha assistito a un matrimonio. Si sposavano un ragazzo di campagna ("E quando dico campagna dico un giorno di auto in mezzo a campi sterminati per arrivare all'unico villaggio di duecento anime nell'intera regione") e una ragazza di città. Così hanno fatto due matrimoni. Il primo, quello tradizionale, in campagna, è iniziato alle sei del mattino ed è durato cinque giorni, con banchetti, danze e persino pantomine, con il promesso sposo che girava di casa in casa cercando la sua futura compagna armato di un cosciotto di agnello. Poi la ragazza e i genitori di lei hanno preteso di farne un secondo, questa volta in città, come va di moda adesso, in un ristorante di un mega albergo a sei stelle, molto occidentale e anche molto pacchiano. "Non c'erano ufficiali d'anagrafe o preti, monaci o altro, soltanto un presentatore, che per un'intera giornata ha inscenato una vera e propria trasmissione, ripresa con telecamere e mandata in onda su un megaschermo, con tanto di interviste a sposi, parenti e ospiti. C'è da capirli - dice sorridendo la ragazza - se si pensa che il programma più seguito sulla televisione pubblica, la sera, in prima serata, è una sorta di "Amici", modello Hollywood, che guardano decine e decine di persone".
E' qui che mi si è accesa una lampadina. "Povero Mao Tse Tung - mi sono detto - guarda la lunga marcia dove l'ha portato: a un Claudiano con gli occhi a mandorla e a una qualsiasi Den Filipp In con residenza a Pechino...".

P.S. So già cosa scriverà David: "Anche tu all'università dormivi". E' capitato una volta, all'ora di Mozzanica. Ero stanco morto, sedevo in penultima fila ed ero appiattito sul banco, tanto che neppure un satellite spia avrebbe saputo distinguere dove iniziavo io e finiva il banco.

Foto by Leonora

venerdì 3 giugno 2011

Berlusconi scricchiola e i topi pensano alla fuga


Ho una cosa da dire sull'egemonia culturale del mondo (una cosuccia di poco conto, una frivolezza d'argomento, qual è il predominio planetario, cinese o americano...) ma prima voglio chiudere il triduo della politica, dedicando quest'ultimo e breve post con una riflessione che mi ronza nella testa da ieri l'altro. Vediamo se riesco ad esser chiaro. Dopo la vittoria di Pisapia a Milano (ci sta, la Moratti aveva stufato) e di De Magistri a Napoli (l'uomo a pelle, non m'è simpatico, non gli affiderei la gestione di un condominio, ma magari mi sbaglio) tutti a sparar contro Berlusconi, a dire che è colpa sua, che ha esagerato. I "mea culpa" (quasi tutti "sua culpa") collezionati dal Foglio e da cui ho copiato il più bello, quello di Annalena Benini, nel post che precede questo, sono il riscontro più evidente di un malumore ampio, non già relegato all'opposizione di ogni ordine e grado - che sono vent'anni ormai che mugugnano e gridano allo scandalo - bensì esteso alla sua parte politica, ai fedeli alleati, ai servi più ossequiosi, fino ai milioni di cittadini che l'hanno votato. Ora, non vorrei passare per il solito bastian contrario, ma devo essermi perso qualche cosa, perché anche ripassando a ritroso la campagna elettorale, il Berlùsca non ha detto nulla che fosse fuori tema rispetto allo spartito che ha sempre suonato. I giudici tutti rossi e i comunisti alle porte sono una costante da quando nel '94 è sceso in campo. Il dipingersi come vittima, promettere tutto a tutti, contornarsi di nani, leccapiedi e ballerine, dire che ciò che non va è colpa soltanto dei giornali non sono una novità, bensì un copione più volte ripetuto. Allora si dica che non piace più, che ha stufato, non che ha esagerato. Sono sedici anni che esagera e ha (quasi) sempre vinto, raccolto maree di voti, governato in lungo e in largo. Io non l'ho mai votato, però ho imparato a non demonizzarlo, a considerne i molti limiti senza credere che sia il male assoluto. Non sono convinto che siamo a fine corsa, che a breve si chiuderà il sipario. La sinistra pasticciona è capace ancora di farsi del male, dimostrando che non è tuttora matura per costituire un'alternativa credibile, per cui per il de profundis aspetto. A meno che non faccia davvero chiudere Annozero. Ma se non è stupido - e Berlusconi non lo è - non lo farà mai. Annozero e tutti gli antiBerlusconi accaniti sono rimasti l'unico coagulante di una compagnia briscola allo sfascio, in cui i topi stanno già pensando di abbandonare la nave, indecisi soltanto se sia il momento giusto o sia necessario aspettare ancora un pochetto...

Foto by Leonora

giovedì 2 giugno 2011

L'altra metà del sole (Annalena e il centrodestra che ha un'anima)

Ciò che non sarei mai riuscito scrivere ma che mi è piaciuto un sacco leggere. A conferma che il bene e il male non abitano in una sola casa (nel caso, in quella delle libertà), che le donne la sanno lunga e che Annalena Benini ha una penna deliziosa.
Il suo articolo, pubblicato su "Il Foglio" di ieri, mercoledì, lo copio qui sotto, perché merita.
Troppe figuracce, doveva finire così. Cambiare canzone
Per Milano sono contenta (per Luigi De Magistris è piuttosto difficile essere contenti, anche se, nella confusione dell’entusiasmo, c’è perfino chi lo trova sexy).



Era giusto che andasse così: troppe figuracce, troppo spirito di dissoluzione, troppa gente impresentabile, troppo cerone, troppe frasi imbarazzanti sui giudici comunisti e su zingaropoli, e nessun guizzo, un progetto responsabile, un sogno, qualcosa di convincente per cui si potesse dire: forza, provate a farcela, non siete così male. Prima c’era gusto nel contrastare, con ironia, l’assalto mediatico, intellettuale, giudiziario, mondano, l’odio antropologico, ci si divertiva a vedere le facce scandalizzate di quelli che annunciavano di lasciare il paese se avesse vinto Berlusconi (Berlusconi vinceva, nessuno partiva), a leggere i commenti sul regime e sulle coscienze addormentate, comprate dalle televisioni, con la certezza che invece stanno tutti con gli occhi aperti e sanno benissimo dove andare.


Adesso resta poco: un premier rancoroso, che canta sempre la stessa canzone, si fida di se stesso oltre ogni limite ma senza slanci, senza vero coraggio, e una gran quantità di facce sbagliate, rabbiose, arriviste, mostrificate, invecchiate male. Sono andata a sentire Vinicio Capossela all’Auditorium e ho dovuto ascoltare un comizio emotivo prima di ogni canzone, battute da quattro soldi, le solite gravi banalità sul bunga bunga: vorrei poter sentire canzoni ai concerti, vorrei comprare tutti i giornali in edicola senza i commenti feroci di quello dietro di me, vorrei che l’indignazione perenne e l’idea di una resistenza che divide il paese in belli e brutti venisse sostituita da qualcosa di meno idiota.


Ma non sembra che questo centrodestra (tranne pochi) sia adatto all’impresa. A meno di inventarsi un programma nuovo, gente nuova in grado di stare al mondo, avere un contraddittorio, avere un’idea, comprarsi case col mutuo, non dire cretinate al telefono, non diventare carne da rotocalco. Berlusconi deve cambiare tutto (anche se stesso), perché todo cambia e perché sennò si cambia.

mercoledì 1 giugno 2011

Il futuro sindaco di Como (spiegato a un'amica)


Tra un anno a Como si vota. Oggi su Facebook mi è arrivato un messaggio dalla mia amica Selena, a cui ho risposto in privato. Alla fine, mentre salutavo, mi sono reso conto che non ci sarebbe stato nulla di male a rendere pubblico il tutto. Per la serie: il futuro politico di Como secondo me, evviva la trasparenza.
Questo il messaggio ricevuto.
Ciao caro come stai? Lo so che son cose che non si chiedono a un giornalista, ma tu come interpreti il futuro di como in termini di elezioni del primo cittadino? A Milano si respira un'aria incredibile di cambiamento, non sappiamo cosa ne sarà di Pisapia ma resta il fatto che la città ha mostrato i muscoli e questo è tanto. Ho letto l'intervista al cavedano e quella a Butti, il dibattito mi appassiona. Per me Como non ha chances, o almeno io non gliene do, però sarebbe bello vederla cambiare... Che mi dici di rapinese? Quante domande! Ma il giornalista sei tu! Fammi avere un tuo autorevole parere. Grazie ciao
Sele

E questa è la risposta.
Selena! Il mio parere (per nulla autorevole) lo do volentieri. Io credo che pure a Como il tempo sia maturo, anche se ho il timore che la sinistra pasticciona come al solito si'ingarbugli da sola e il vento del cambiamento che ora soffia potente prima dell'anno venturo sia già trasformato in bonaccia o, peggio, in brezza contromano. Come ho scritto sul giornale (lo leggerai domani, se vorrai) io credo nel valore dell'alternanza e la vera svolta per Como sarebbero le primarie. Ragion per cui, non le faranno mai. Nè a destra, dove Gaddi vincerebbe a man bassa, scontentando tutti gli altri litigiosissimi capipopolo, né a sinistra, dove sono più impanati di una cotoletta e infatti già dicono: "Perché fare le primarie se siamo tutti d'accordo su un nome solo?". Improvvidi. Davvero non hanno capito nulla e si sono limitati a veder perdere gli altri, piuttosto che vincere loro. A Como comunque un nome alternativo a Pdl e Lega per ora non c'è neppure a cercarlo col lanternino. A destra invece è un bel busillis. Butti ha il sacro terrore di presentarsi alle urne da candidato, ma ha troppi interessi per permettere che lo sia uno non di suo gradimento (Gaddi) e sa che con l'aria che tira se presenta uno dei suoi fedelissimi (Antinozzi o Mascetti) potrebbe perdere capra, cavoli e la faccia persino. Ma come dicevo, scendere in campo di persona vorrebbe dire lasciare la comoda culla romana, dove ormai da decenni sguazza indisturbato. Sarebbe un bel sacrificio, senza contare che se l'opposizione presenta un candidato credibile potrebbe perdere addirittura, come una Moratti qualsiasi (anche perché metà del suo partito e l'intera Lega godrebbe a vederlo precipitare dallo scranno). E gli altri? Punto interrogativo. Rapinese, di cui mi chiedi, è un ragazzo simpatico, creativo e schietto, ma tra il Pierino rompiscatole e lo spessore, oltre che la dignità di un sindaco, passano tutte le paratie, muro a lago incluso. Io ad esempio come consigliere lo voterei, come sindaco no. Ma ora che ti ho scritto tutta questa spatafiata, mi rendo conto di averti fatto venire la bolla al naso. Sai cosa faccio? Prendo le tue domande e le mie risposte e scrivo un post sul blog. Anzi, è già scritto...

Foto by Leonora