giovedì 31 marzo 2011

Nina Moric, l'isola dei famosi e mia madre che cuoce la pastina


Le orecchie sono state impegnate poco, una sessantina di secondi in tutto. Gli occhi ancora meno: venti, forse venticinque. Ero di ritorno dal funerale di mia zia Gemma (Dio l'abbia in gloria) sorella di mio nonno materno e sorella di Irene, che se n'era andata giusto qualche settimana fa. Erano le sei di pomeriggio, la televisione a casa di mia madre era accesa e mentre lei mescolava nella pentola due cucchiai di pastina, io le chiedevo della cerimonia, interrotto da un lamento lungo e stridente, come di sirena, provenire dal televisore. Era Nina Moric, che guaiva. Nel servizio, sulla Rai, raccontavano tutto: di Nina, Fabrizio, la suocera (di Fabrizio), il figlio (di Fabrizio e Nina), il presunto "ratto" (del figlio medesimo), il malore della suocera, la gita a Disneyland Paris con Belen (la fidanzata di Fabrizio e, ergo, rivale di Nina)... Non ne sapevo nulla ma dall'enfasi era certo la notizia che ha tenuto in apprensione la nazione intera: altro che tsunami e dramma nucleare in Giappone e guerra con la Libia. Gli ultimi venti secondi di tv (non) ve li risparmio. C'era Simona Ventura "approdata in versione maglietta bagnata" (così diceva il servizio) sull'Isola dei famosi, che avvertiva Nina di quello che era successo e via, con il replay del lamento, del guaito su quel volto prima angelico e trasfigurato da anni e anni di vita al limite e chirurgia plastica.

Mi sono fermato, ho guardato mia madre, che continuava a mescolare la pastina e senza neppure guardare né me né il televisore, fissando quietamente e imperturbabilmente la pentola, mi ha detto tre parole: "In tùt drùgà...". Sono tutti drogati. Ma non solo loro, anche noi, che ci facciamo tenere compagnia in casa da qualcuno che, se bussasse alla porta, non ci sogneremmo di aprirgli mai.


Foto by Leonora

mercoledì 30 marzo 2011

Il volto di Monnalisa (L'Aquila e dintorni)


"Ho creduto a quello che mi dicevano". Ascolto le parole di Giustino Parisse, un giornalista abruzzese che nel terremoto dell'Aquila ha perso i due figlioletti e si sente in colpa, perché alla prima scossa di quella notte tra il 5 e il 6 aprile, invece di prendere i bambini, fasciarli in una coperta e portarli in macchina, al sicuro, ha prestato ascolto agli esperti che lui stesso intervistava e che sostenevano che non ci fosse pericolo. Guardo per caso "Draquila" su Sky Cinema e non mi colpiscono né impressionano le accuse a Berlusconi e al suo governo (Berlusconi ha già vinto: il tasso di assuefazione e saturazione è già massimo, per cui se pure lo vedessi strangolare qualcuno, penserei tra me e me: "E che diamine sarà mai, tanti altri fanno di peggio" oppure "E che diamine sarà mai, perché, non lo sapevamo già prima che era così?", convinto che basti voltare lo sguardo dall'altra parte o girare canale con il telecomando, per dimenticare il già sentito, il già visto. Berlusconi è più che dannoso o eroico: è ineluttabile). Resto scosso - l'ho scritto d'impeto, ma mi accorgo ch'è un verbo beffardo oltre che tragico, in un simile contesto - non dalla cricca degli appalti o dai soldi gettati, bensì dalla parte finale del film, dalle immagini di ciò che è successo, dei crolli, del panico di quella notte, i muri diventati macerie, cumoli di mattoni, spezzoni di travi come legno di croce, case sventrate e gente impaurita, con le lacrime agli occhi. Le registrazioni delle telefonate di quella notte ai vigili del fuoco sono terribili e nella loro compostezza angoscianti. Mi domando dov'ero in quei giorni, come è possibile che non mi sia accorto di quanto avveniva? Eppure non ero dall'altra parte del pianeta. Di più, ero al giornale, ho curato pagine e pagine, messo fotografie, passato testimonianze e resoconti. Mi do due spiegazioni. La prima è il limite stesso della cronaca, ch'è un guardare la vita posando il naso sul foglio e far su e giù con il capo, vedendo perfettamente il dettaglio senza capire quale parte sia del tutto. La storia invece è un allontanarsi in tutto, perdendo definizione ma guadagnando in visuale, per cui posso scoprire che quella macchia impercettibile di rosso in realtà è un lembo della Gioconda dipinta da Leonardo. La seconda spiegazione non sta in un limite oggettivo, bensì nel modo in cui noi raccontiamo i fatti del mondo, dall'assuefazione di cui parlavo prima, per cui non distinguo più alcun rumore essendoci sempre chiasso. Battiamo la gran cassa tutto il giorno, non possiamo stupirci se, del pizzicar di dita sulle corde della chitarra o dell'appoggiar la mazzuola sullo xilofono, nulla percepiamo. Prendiamo un caso recente, un altro terremoto: quello in Giappone. Quando è entrato in crisi il reattore di Fukushima, per sei giorni siamo stati con il fiato sospeso, a tutte le ore un bollettino trasmesso da telegiornali, radio o Internet di turno. E' bastato l'aggravarsi della tensione con la Libia e su Tripoli i primi raid aerei della coalizione atlantica per eclissare il Giappone e l'incubo della tragedia nucleare. Ora l'interesse dei media s'è un po' riequilibrato, contaminazioni e centrali atomiche fanno concorrenza a bombardamenti e petrolio. Fino alla prossima emergenza, poi altro giro, altra corsa. Con il naso sempre appoggiato, schiacchiato proprio sul foglio della cronaca, sapendo tutto della macchia rossa di colore e nulla sul volto di Monnalisa.


Foto by Leonora

martedì 29 marzo 2011

La goccia e la roccia


Un passo alla volta. Se guardo la mia vita dallo specchietto retrivosore credo che le cose di cui posso andare più fiero e che mi danno maggiore soddisfazione siano legate ai piccoli passi, quelli intrapresi non badando a una meta troppo lontana per essere raggiunta, nella consapevolezza però che il sentiero fosse quello giusto. Tanto per entrare nel concreto, mi riferisco sia agli aspetti banali (la decisione di non tenere un'agenda, così da allenare la mente alla memoria oppure il fatto di non appuntarmi le intuizioni sforzandomi piuttosto di partorirne sempre nuove o, ancora, di continuare ancor oggi a scrivere pezzi di cronaca o a seguire conferenze stampa che potrebbero benissimo essere affidate all'ultimo dei collaboratori, per non diventare una torre d'avorio in redazione, perdendo contatto con il mondo e con la strada) sia a quelli fondamentali della vita (restare aggiornato, leggendo giornali e libri; avere cura del corpo e dello spirito a partire da ogni mattina; coltivare le amicizie cercando di tenere la porta sempre aperta; puntare non già sul successo o sulla moneta sonante, bensì sul poter dire ciò che si pensa, essere schietto, così da accumulare credibilità e stima...). A ben guardare, questo blog è a immagine e somiglianza di questo stile da goccia che scava la roccia, di formica che assicura la propria fortuna granello dopo granello. Ho commesso molti sbagli, alcuni dei quali dolorosi e infidi come serpe che si attorciglia attorno al braccio, ma sempre per debolezza o lassismo, mai per una pervicacia nel cercare il male, per un preciso disegno oscuro. Se c'è un pensiero da lasciare in eredità ai miei figli, una lezione che vorrei imparassero, è proprio questa: di prendere esempio dalla natura, che ha scatti in avanti e balzi prodigiosi, ma ciò che è lo deve soprattutto alla costanza, all'insistenza, a quell'instancabile sorgente di vita che fa sbocciare i fiori ogni primavera e l'erba che con calma ricopre tutto, persino l'asfalto e il cemento armato che l'uomo crede eterno e invece non sapravviverà, a differenza degli organismi viventi, della natura, di cui l'uomo è solo anello di catena, felice scintilla tra due parentesi di un'espressione algebrica assai più lunga e complessa...


Foto by Leonora

domenica 27 marzo 2011

Il grande ritorno (Un futuro a misura d'uomo)


Levataccia nel giorno dell'ora legale, per accompagnare Giacomo a Gallarate, dove di buon ora aveva la partita di calcio. Poi pranzo, lavoro, cena e finalmente divano, con il desiderio di tornare a scrivere qualcosa qui, ora che il guasto a Internet è stato individuato e sommariamente riparato. Non era colpa della Telecom, bensì il modem wi-fi che - nonostante avesse tutte le luci a posto - s'è incriccato dentro, dopo cinque anni di onorato e ininterrotto servizio. Lo preciso a discolpa della compagnia telefonica, che pur essendo un gigante ingordo e onnivoro, questa volta non si è dimostrato sordo. Dopo una settimana giorni di inutili tentativi di risolvere il problema, mi hanno persino mandato a casa un ometto che mi ha fatto simpatia, facendo dimenticare per un istante il potere arrogante di tutti i Marco Tronchetti Provera del mondo e ricordandomi il tempo in cui i telefoni avevano ancora la ruota da far girare per comporre i numeri, non serviva prefisso, c'erano i gettoni e sulle cabine stampato il marchio della Sip. Mi domando se il processo che ha ingigantito e spersonalizzato le maggiori aziende, gonfiandole a dismisura, possa in qualche modo essere reversibile. Siamo abituati a scenari fantascientifici, con il mondo in mano a poche multinazionali o addirittura a un unico organismo: forse è altrettanto immaginabile un futuro in cui i rapporti umani tornino al centro, a scapito di ciò che finora impone il percorso e il cammino, cioè il margine utile, la quota di mercato, il profitto. Perché no? Perché non considerare l'ipotesi che il tempo attuale sia il principio di una nuova possibilità, in cui anche grazie agli strumenti tecnologici il piccolo produttore o gestore di servizi acquisisca importanza e spazio vitale? Perché il modello "a rete" o "a nuvola" non dovrebbe essere applicabile all'economia contemporanea? Non sarebbe poi lo stesso che è avvenuto con i computer, allorché i giganteschi hardware sono stati superati e sostituiti da Internet, una rete appunto? La vicinanza, la fedeltà, l'accessibilità, la reciproca conoscenza, tutti quei valori tipici del negozio di paese o di quartiere, non sono forse validi tuttora, non hanno forse un peso maggiore di quello che recentemente è stato ad essi riconosciuto?

Quante domande. Forse è soltanto il risotto alle fragole di questa sera o il bianco mosso che l'hanno accompagnato. Oppure non sono discorsi così peregrini, che meriterebbero di essere ponderati e valutati meglio. Magari una sera che non segue una giornata di diciotto ore e che prelude a una notte con sole cinque ore di sonno.


Foto by Leonora

venerdì 25 marzo 2011

Il prezzo della credibilità (blogger, giornalisti e affini)


Scrivo poco, ma non è colpa mia. Un guasto alla Telecom ha tolto la linea Adsl da casa mia, impedendomi di fatto di aggiornare il blog quando di solito lo faccio: terminato il lavoro, la sera. Il lato positivo è che ho riscoperto il piacere della lettura dei libri, che nelle ultime settimane avevo sacrificato perdendomi nel mare magnum della rete informatica, scoprendo nuovi blog, compagni di viaggio incredibili, capaci di farmi appassionare alle loro vite, togliendo però un poco di spazio alla mia. Ho constatato quanto sia vero ciò che diceva Luca (Mascaro) sulla divisione del "tempo media". Per amor di precisione trascrivo le sue parole: "Quello che stiamo realmente osservando negli ultimi anni è sì un frazionamento del tempo media ma anche un'effetto di concorrenza dell'attenzione. In pratica quello che accade e che usiamo sempre più media nello stesso momento (l'iPad davanti alla tv, il telefono mentre leggiamo il giornale, etc...) e dunque l'effetto non è solo quello della riduzione di tempo ma anche della riduzione di attenzione". Parole sante. In attesa di tornare ad occuparmi di vicende personali (la primavera! Quant'è bella la primavera, ch'è arrivata così prepotente, verde, coi primi fiori rosa, e il sole e il tepore nell'aria?) appunto qui una questione che mi appassiona: il rapporto tra i blog e stampa. Essendo blogger convinto, oltre che assiduo, ma anche giornalista, mi sono convinto che i due strumenti non siano alternativi, bensì possano e debbano integrarsi a vicenda, per offrire un'informazione il più possibile libera e completa. Non è una teoria che professo, bensì la traduzione di ciò che avviene nella pratica. Sul giornale non pubblico ciò che scrivo sul blog e viceversa, lasciando soltanto alcuni punti di contatto, cerniere o punti di sutura tra mondi simili ma distinti.

Sulla grandezza ma anche sulla debolezza ho trovato parole spietate e pure efficacissime su Prima Comunicazione, dove l'autrice della rubrica "Fashion Victims" scrive: "Sono finiti gli stilisti, sono rimaste le aziende che fanno guadagni, sono finiti i giornali sono rimasti i blogger che fanno pietà. Ormai non c'è più sfilata che non veda uno di questi ragazzi (le ragazze meno) vestiti più o meno da donna che sono seduti in prima fila, osannati e riveriti dagli stilisti e anche dalle giornaliste che non capiscono che rappresentano la loro fine finale. Anche io, vecchia scema, pensavo all'inizio che con loro l'informazione di moda sarebbe diventata più seria. Speravo che loro avrebbero potuto dire quello che volevano senza peli sulla lingua, che avrebbero potuto criticare gli stilisti e le aziende. E invece vedo che non è così. Vedo che i blog sono pieni solo di "J'adore" e "I love", di "Amazing" e di "Wonderful". Mai una critica, mai una notizia vera. E poi ho capito che il sistema ingoia chiunque. Basta un posto in prima fila al più spregiudicato ragazzino asiatico per metterlo a tacere su qualsiasi indiscrezione. Basta regalargli una pelliccia io un cappottino di serpente per comprarselo a vita. Basta una foto sul giornale per fargli credere che è uno che conta(ma come, non dovevano distruggere per sempre la credibilità della carta stampata? E invece sono loro che ci credono per primi). Qual è l'apporto venuto da loro? (...) Mi ricrederà quando qualcuno di questi che si farebbero ammazzare per l'ultima mantellina di Chanel inventerà qualcosa di simile a quello che ha inventato Samuel Irving Newhouse, o Edmund Farchild o, più modestamente, Angelo Rizzoli e Edilio Rusconi".

Io sono meno pessimista, ma il pericolo evocato da Fashion Victims non è campato per aria. Esiste però un sistema per risultare credibile: non accettare regali. O, se proprio il caso, dichiararli, non tacerli. Se il sistema vuole comprarti, si abbia almeno il coraggio di mettere il prezzo in vetrina.
Foto by Leonora

lunedì 21 marzo 2011

Breve elenco dell'interlocutore molesto


Causa tuoni e fulmini, i primi dell'anno, sono rimasto senza Internet due giorni, forse tre, visto che non so se a casa il danno sia stato riparato o meno. Me ne sono fatto una ragione, realizzando quanto mi manca la connessione con il mondo ma pure che posso farne a meno (respirando a fondo, piano e ripetendo: "Sono solo due giorni, posso farcela"). Intanto inizia la primavera, con una giornata fresca ma di sole e cielo terso, buon preludio per i giorni che spero verranno. Tra i buoni auspici c'è quello, puntualmente disatteso, di incontrare con la bella stagione soltanto persone interessanti, per niente moleste o noiose. Ne appunto qui una breve lista.


  • Quelli che quando gli racconti qualcosa, a loro è capitato o sta capitando di peggio

  • Quelli che appena apri bocca annuiscono, dicono "Sì, come ho detto prima..." e proseguono loro ciò che (sono certi) volevi dire tu

  • Quelli che ti interrompono dopo due secondi e mezzo e partono per la tangente, con un altro discorso

  • Quelli che, dopo dieci minuti di preambolo e un quarto d'ora di monologo, non comprendono alcuno dei tuoi indicatori di attenzione satura (in progressione: sguardo assente, occhio a mezza palpebra; intercalare di espressioni quali: "Certo...", "Chiaro...", "Effettivamente..."; sbadiglio; sbadigli; moltissimi e enormi sbadigli; bolla al naso; coma; stato vegetativo; flebo indovenosa e richiesta di estrema unzione al primo pirla che ti passa di fianco)

  • Quelli che dopo che parli cinque minuti, mentre loro ti guardano fisso negli occhi e annuiscono, dicono: "Puoi ripetere, stavo pensando ad altro".

  • Quelli che se non rispondi al telefono, riprovano dodici volte di fila, senza tregua, e quando finalmente rispondi dicono: "Scusa, disturbo?"

  • Quelli che ti chiamano da numero privato o sconosciuto, ti salutano e partono con il quiz: "Hai capito chi sono?" (no, non l'ho capito, a volte non capisco neanche quando chiama mia madre, figurati te, che sei un imbecille e fai queste domande trabocchetto del cavolo!)

Potrei andare avanti, mi fermo. Oggi è primavera, per gli stupidi c'è sempre tempo (soprattutto considerando che lo stupido molesto, talvolta, sono io).


Foto by Leonora

venerdì 18 marzo 2011

L'unica via (e i ghirigori sulla sabbia)

Il piacere di spegnere la tv e ascoltare musica, mentre accendo il computer, dimenticando immancabilmente lo spunto partorito durante la giornata, mentre sono fermo al semaforo o leggo una frase sul giornale e penso: "Ecco, devo scriverlo sul blog". Poi, mentre lo schermo si illumina, realizzo che quell'idea è volata chissà dove, via. Per farla tornare non resta che occuparmi di altro, confidando che la memoria trovi da sola la strada di casa.
Incontro tanti amici qui, persone di cui nemmeno sospettavo l'esistenza e che "sulla parola" si fidano di me, di questa fotografia "in positivo" di Giorgio, che da queste parti non si fa mai trovare in pigiama, con la barba lunga o le dita nel naso. E' il mio lato A: quello che preferisco e che posso portare a vanto, come un tempo facevo col vestito della festa, la domenica. Oggi, a pranzo, sono stato protagonista di una sorta di "Caramba, che sorpresa", con gli interpreti della storia raccontata sul giornale e anche sul blog, del ragazzino immigrato dal meridione e del padrone di tintoria, che lo fa lavorare ma gli permette pure di studiare. Con me c'era Beppe, il ragazzino nel frattempo diventato stimato professionista, e Ambrogio, che non è l'autista dei Ferrero Rocher, bensì il figlio di quell'Angelo Cavallasca, a cui Beppe deve l'opportunità di aver potuto abbinare il talento al sacrificio, per cambiare vita. Di solito sono restio a questo tipo di appuntamenti, ma ero stato responsabile di quell'incontro e mi spiaceva mancare. Eravamo solo noi tre ed è stato piacevole, oltre che commovente. Mentre parlavano, scambiandosi riferimenti e ricordi, pensavo al destino e a come i fatti, gli eventi, le storie, si debbano giudicare soltanto dalla coda. Beppe da ragazzino aveva tutto, era figlio di un imprenditore che in Sicilia aveva una posizione, oltre che una piccola fortuna. La malattia del padre ha distrutto quel limbo e dilapidato il tesoro accumulato, costringendo un ragazzino di tredici anni a cominciare da zero, straniero in una patria che solo negli anniversari si dimostra unita. Le vicessitudini hanno piegato ma pure dato forma e nerbo a quel giunco spezzato, che se adesso è quel buono che è, lo deve anche alla prova che ha dato di sé, nella sventura. Chissà chi sarebbe ora Beppe se suo padre non si fosse ammalato, se la radice non fosse stata strappata. Magari un capitano d'industria, un luminare dell'isola o forse un poco di buono, cresciuto nella bambagia. Non lo sapremo mai: unico è il solco che lasciamo tracciato in terra, i "ma" e i "se" sono buoni per i ghirigori sulla sabbia, ma non spostano di un granello la realtà accaduta, l'unica senza appello e senza via di ritorno. Proprio come la vita.


Foto by Leonora

giovedì 17 marzo 2011

Fratelli d'Italia extra strong


Prendo per la coda questo compleanno nazionale, che ha messo a dura prova persino chi - come me - è orgoglioso del tricolore e ritiene l'Unità nazionale una fortuna. Lascerei perdere, perché ognuno ha già detto la sua e le parole sono state spesso spreco che ha offuscato la sostanza. Mi limiterò perciò ad annotare che numerose sono state le occasioni in cui essere italiano m'è stato d'orgoglio e il "verde" legato alla speranza, qualche altra in cui s'è rivelata imbarazzante e sono diventato "rosso" di vergogna oppure "bianco" per la rabbia.
L'Italia che detesto è: il furbo che cerca di sorpassare che gli sta vicino, in coda e fa finta di niente, manco alza la mano e si scusa; le case abusive lasciate senza intonaco, in riva al mare o in collina; il cartello "torno subito" allo sportello pubblico o l'impiegata strafottente in comune o in posta; il politico che cambia casacca ma non lascia mai la poltrona; l'onorevole Domenico Scilipoti e il senatore Sergio De Gregorio; il Trota; Massimo D'Alema in barca a vela; le comitive chiassose e caciarone in gita all'estero, che pensano di essere spiritosi e invece sono soltanto cafoni; i dieci anni che si impiegano per una causa civile; le pagine e pagine di giornale sul bunga bunga; colui che fissa un appuntamento in ospedale e per due fiocchi di neve non si presenta; chi va in motorino senza casco; tutti quelli - e sono tanti, troppi - che se ne fregano e confidano che tanto qualcun altro più stupido provvederà a sistemare le cose, se proprio necessita.
L'Italia che amo è: l'inno di Mameli e la maglia azzurra quando gioca l'Italia; il pane, il vino, la pasta e la pizza; le tavolate di paese e le feste in piazza; l'inventiva nel risolvere i problemi prendendoli dalla parte che nessuno aveva mai immaginato prima; Roberto Benigni che legge e spiega la Divina commedia; Valentino Rossi, la Ferrari e chi partecipa alle Olimpiadi, magari vincendo una medaglia; i paesi con un campanile, una chiesa; il festival di Sanremo, anche quando vincono i Jalisse; Natale con i tuoi e Pasqua con chi vuoi, ma se stai anche a Pasqua con i tuoi è meglio; il mare e la montagna; i vestiti di Armani, Valentino e pure quelli di Dolce e Gabbana; le cento città capoluogo, prima che venisse introdotta la provincia Verbano Cusio Ossola e similari; i film neorealisti e Fellini, quand'era in forma; gli scrittori siciliani, sardi, piemontesi e qualche lombardo, come Piero Chiara; le feste del patrono; il marmo di Carrara; Pertini, Bearzot e il mondiale di calcio vinto in Spagna; Prodi che va in Parlamento, viene sfiduciato, se ne va a casa e non grida allo scandalo, non urla, non minaccia, non torna, neanche se glielo chiedono; i magistrati che combattono le organizzazioni criminali e che rischiano la vita ogni mattina; chi potrebbe lavorare o insegnare all'estero e invece rimane in patria; i cipressi delle colline in Toscana; il sindaco di Lampedusa, che non ricaccia la gente in mare; Anna Valle a miss Italia; la Gran Torino della Ford, che la chiamano così per rispetto alla Fiat e alla Lancia; la Vespa, soprattutto la mia; gli alpini e i bersaglieri, ma più gli alpini; le opere liriche di Verdi e Rossini; Reinold Messner, Gustav Thoeni, Armin Zoeggeler, Isolde Kostner e tutti quelli che hanno dato lustro al nostro paese con un cognome composto più da consonanti che da vocali; gli uomini e le donne del Friuli che ricostruiscono le loro case, dopo il terremoto; i dodici professori universitari- unici, in tutta Italia - che con semplice: "Preferirei di no" rifiutarono il giuramento imposto da Mussolini; Don Lorenzo Milani e la scuola di Barbiana; Venezia ch'è triste, ma niente in confronto a Porto Marghera; le trattorie e le osterie; la Barbera; De Gasperi che parla alla conferenza di pace di Parigi, subito dopo la disfatta della seconda guerra mondiale, e dice: "Sento che tutto è contro di me, qui, tranne la vostra personale cortesia"; il segretario di Stato degli Stati Uniti d’America James Byrnes che, nel gelo più totale che segue il discorso di De Gasperi, si alza in piedi e gli stringe la mano (d'accordo, Byrnes è americano ma questo gesto è talmente bello... E descrive meglio di ogni parola la dignità che ci viene riconosciuta all'estero. Non potevo ometterlo, proprio oggi, nel giorno della nostra festa).


Foto by Leonora

mercoledì 16 marzo 2011

Buongiorno tristezza (mutande incluse)


"Sempre cose tristi", mi hanno detto. "Scrivi sempre cose tristi". Non è colpa mia se piove, se fa freddo, se all'orecchio arrivano sempre brutte notizie, se, se, se... Oggi in più sono andato anche a un funerale, quello del papà del mio amico Maggi (Mauro, per tutti, ma mi piace chiamarlo anche Maggi, che anche per cognome è uno che sembra di famiglia lo stesso). E' stata una cerimonia non banale, con un prete che credeva a quello che faceva e canti antichi, che mi hanno ricordato quand'ero bambino e quelle note erano pace, casa. Pensavo che con canti così si lascia questo mondo più volentieri, ci si stacca dalle ricchezze che abbiamo accumulato e che sono tanti lacci che ci tengono inchiodati al suolo, incapaci di volare e anche di morire in pace amen. Forse non ha torto chi mi ha detto che scrivo solo cose tristi, ma sono fatto così: questo non è lo spazio e il tempo delle chiacchiere fatte per caso. Per quello c'è la piazza, la tavola e altri momenti di convivialità che non mi faccio mancare, pur nella pigrizia che m'è connaturata.
Oggi scrivevo a un'amica che a volte ho il desiderio di restare solo, magari passando giornate in una cittadina tra la Francia e la Svizzera, dove mi sono fermato un momento, anni fa. Era alle pendici del passo del Gran San Bernardo e c'era una chiesa meravigliosa, medioevale, con un chiostro, odore d'incenso e silenzio attorno. E una piazzetta, con pasticceria e panetteria, vasi di gerani rossi e lilla, tavolini all'aperto e lampioni vecchio stile. Ho sempre pensato di tornarci, un giorno.
P.S. Giuro che per la prossima volta penso a qualche storiella divertente, da raccontare, oppure metto una mia foto in mutande, che così sì, che si ride
Foto by Leonora

lunedì 14 marzo 2011

Aristodemo Taroni, avvocato e onesto comunista

Il gran comunista. Me lo avevano presentato così, Aristodemo Taroni, avvocato penalista, prima di mandarmi ad intervistarlo, descrivendomelo come un leone del foro, con occhi "di bragia" e fare profetico. Lo trovai mansueto, istrionico, umile e costretto forse alla parte del "comunista diabolico", mentre in realtà era soltanto un uomo d'altri tempi, che credeva in valori che "compagni" ben più famosi avevano disprezzato a favore di soldi, potere, poltrone. Era il 15 gennaio 1998.

Gli avvocati possono stare simpatici solo a chi non ne ha mai pagato una parcella.
Aristodemo Taroni ci attende nel suo studio. Anzi, siamo noi ad attendere lui. Indaffarato ed occupatissimo, alla soglia dei settantotto anni, il penalista ha ancora l’impegno e la dedizione del principiante. Per parecchio tempo lo aspettiamo, sbirciando da una finestra che si affaccia su Piazza Vittoria. Le vie che contornano le mura del centro sono un brulicare continuo di automobili fredde e colorate. E’ questo, pensiamo, il novello fossato che cinge i bastioni. Un tempo, per entrare ed uscire dal borgo, serviva un ponte levatoio. Oggi basta un semaforo.
Alto, magro, capelli candidi, voce profonda e capace di mille sfumature. Se indossasse un saio, invece del completo grigio, ricorderebbe uno dei vegliardi dell’Apocalisse. Contrariamente all’impressione iniziale, basta un saluto per scoprire che Taroni non ha né il piglio né il buzzo di un Jorge da Burgos, il severo e austero monaco che ne “Il nome della Rosa” attendeva l’Anticristo. Le sue maniere sono cortesi, ma non appiccicose. Il tono è gentile, pur non ignorando fermezze. Egli conosce la misura, ma anche la schiettezza di tutti coloro che, essendo intelligenti e discendendo da umili origini, non devono chiedere grazie di nulla, perché si sono fatti da sé.
Il nome non se lo è scelto, ma gli calza a pennello. Aristodemo significa “il migliore del popolo”.
“Migliore” come l’eccellenza che ha ricercato attraverso una vita di studi. "A me studiare è sempre piaciuto, così come tutto ciò che comporta l’impiego della ragione, della logica e del buon senso. Presi la mia prima laurea in filosofia, ma era la storia ad appassionarmi. Per ragioni di carattere economico, poiché si pativa la fame, dopo aver insegnato otto anni, ho approfittato della laurea in legge, ma non mai abbandonato la storia, soprattutto quella delle idee. Ho cercato di approfondire, sul piano ideologico, la diversità su liberalismo, democrazia, socialismo".
“Del popolo”, perché da esso proviene. "La mia era una famiglia di lavoratori. Mia mamma faceva la sartina. Mio padre aveva solo la licenza di terza elementare, ma non smise mai di studiare e, partendo da marinaio, arrivò ad essere il capitano della navigazione di Como. I miei genitori sono stati soprattutto esempio di onestà. Avevano il culto dell’onestà".
Quello dell’onestà era l’unico culto di casa?
"Mia mamma era molto cattolica. Io stesso ricevetti una profonda educazione cattolica e fondamentalmente non sono mai stato contro quei sentimenti. Mio papà era socialista e la mia anima è di sinistra. Di sinistra, nel senso del riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo. Di sinistra, perché radicalmente antifascista. Ecco l’altro culto: il ricordo di tutti quelli che hanno lottato contro quel regime. Anch’io feci la mia parte, dapprima con la costituzione dei movimenti “Giustizia e Libertà”, nel 1938, poi con l’adesione al Partito Comunista Italiano, nel 1944, e guai se mi toccano coloro che in quegli anni si sacrificarono o morirono. Devo ammettere, francamente, che mi sento doppiamente fortunato a non esser morto, perché oggi, di fronte a ciò che è avvenuto in Italia, direi: quanto siamo stati fessi!".
Cosa ricorda di quegli anni?
"Tutto. Ad esempio la grande solidarietà che ci univa, a prescindere dall’idea liberale o cattolica o comunista. E il valore dell’avvocato Peretta, nostra anima e coordinatore, che finì fucilato dai tedeschi. Era un ex giudice, espulso dalla magistratura per aver condannato e definito “banda di teppisti” un gruppo di fascisti che si erano resi autori di un pestaggio. A Como antifascisti eravamo veramente in pochi. E’ sempre stata una città di destra. E lo è tuttora. Dico sempre – sorride - che, se potessero, i comaschi nominerebbero sindaco il Vescovo".
Non si sente a disagio a vivere qui?
"E perché dovrei? I comaschi sono conservatori e attaccati al denaro, ma sono anche della gran brava gente, che non fa fatica a lavorare ed è, almeno per la maggior parte, onesta".
Cambiamo argomento. Non esiste un conflitto generazionale tra voi avvocati?
"Premettiamo, innanzi tutto, una verità. I giovani hanno diritto – e scandisce con teatralità questa parola, quasi a sottolinearne il valore sacro – hanno diritto di trovare una sistemazione. D’altro canto, noi anziani, col passare degli anni perdiamo mordente e qualche volta anche clientela. Sovente paghiamo proprio la pubblicità negativa dei colleghi più giovani. Però riconosco e capisco che ci considerino vecchi, poiché purtroppo lo siamo. Anche se intellettualmente non mi sento vecchio affatto – il vigore della voce aumenta, come per testimoniare che la lucidità è almeno pari al possente fiato - io detto ancora tutte le comparse, cito gli articoli a memoria, discuto per tre ore senza servirmi di un appunto. Non mi sento superato, perché ancor oggi studio moltissimo. Come del resto fanno molti giovani. Ne conosco di veramente bravi e preparati. Sfortunatamente non sono sempre questi ad essere riconosciuti tali, bensì quelli che sanno vendere bene il loro molto fumo, anche quando sono prepotenti, supponenti o tanto scorretti da approfittare della caccia inumana al denaro e al guadagno".
Lo abbiamo scritto in premessa poiché, quando siamo prevenuti, non ci piace nasconderlo. Non siete troppo cari? "Ma. Dunque". Attacca formale l’avvocato, come ogni difensore di razza, salvo poi protendersi e modulare un soffio di voce che pare preannunciare segreti e rivelazioni. "Sono le tariffe. Sono le tariffe non giuste. Però le do la mia parola d’onore che mai, mai ho abusato delle disgrazie altrui. Non si può non tener conto del risultato e delle oggettive possibilità dei clienti. Lo dico a voce alta – e il sospiro torna a farsi tuono – al diavolo anche le tariffe. Se tu porti a casa centomila lire, massimo ne puoi pretendere dieci, quindici mila. Vorrà dire che quando ti capiterà la causa buona l’onorario sarà più rispettabile. Questo è ciò che ho sempre praticato. Anche perché vissuto nel terrore che mi dicessero: bella sinistra la tua, che quando fai le parcelle sei un ladro".
Come si trova un “vecchio leone del foro” con le nuove procedure?
"A disagio. La discussione, che ho sempre preferito, nel penale non esiste più, tranne che nei processi gravissimi. Ora tutto si patteggia, per la gioia e la fortuna di quelli che non sanno fare l’avvocato, ma sono maestri a frequentare corridoi, tessere amicizie, tenere pubbliche relazioni, invitare il pubblico ministero a pranzo".
Tra poco l’ordine degli avvocati eleggerà un presidente. "Lanni non vuole continuare. Per sostituirlo occorre un uomo che goda di un certo prestigio e che sia stimato per correttezza, rettitudine e onestà. Spero, soprattutto, che non si elegga una persona con esclusive ambizioni di carriera. Se c’è una cosa che ripugna è quella dei candidati che per ottenere il voto ti aspettano, ti prendono a braccetto, ti offrono da bere. Disgustoso. Nella vita devono contare i meriti e le capacità e non i favori o le conoscenze".
Giorgio Bardaglio

Qualche appunto mai trascritto.

Dalla finestra di una disadorna sala d’aspetto che si affaccia su Piazza Vittoria, il centro di Como non si rivela. Le vecchie mura nascondono cosa accade oltre Porta Torre.
"Non sono stato mai un fazioso politico. Non ho mai pensato, di un uomo, è un fesso perché non la pensa come me".

"Il migliore del popolo. Non credo di meritarmelo. Lo devo ad uno zio, morto nella guerra del 15-18, che portava lo stesso nome e che a sua volta lo doveva ad un altro zio, acquisito, che aveva promesso una catena d’ora se la nonna lo avesse chiamato con lo stesso nome".

"Aristodemo era re di Messene, che aveva sacrificato la figlia, a cui il Monti dedicò una tragedia".

"Sono ancora appassionato della mia professione, che incontrai occasionalmente, poiché in principio mi iscrissi alla facoltà di giurisprudenza per aver qualche licenza in più dal servizio militare. Così diventai avvocato".

Non nota un eccesso di protagonismo nella categoria?
"C’è sempre stato. Ero molto amico e ho imparato il mestiere da Luzzani, bravissimo penalista, ma con la mentalità del protagonista".

sabato 12 marzo 2011

Un padre, l'allenatore di calcio e la tentazione malefica

Lavoro un fine settimana sì e uno no. Questo è quello sì e come ogni sabato scalo il Tourmalet, a occhi sbarrati e testa bassa, puntando dritto verso il traguardo della domenica sera. La mazzata è arrivata a metà pomeriggio, quando ho barattato la pausa pranzo per andare a vedere giocare Giacomo. Il fantasma di Giacomo, l'ombra. Un pallido ricordo del ragazzo gioioso che era, quando metteva maglietta, calzolcini e scarpe da calcio. Anche oggi sembrava portare sulle spalle il peso di Atlante e ha impiegato più energie ad allargare le braccia e scuotere la testa che a correre in lungo e in largo per il campo. Lui di carattere è uno che si demoralizza ed è il contrario di me, che al posto dei piedi avevo un ferro da stiro, ma stringevo i denti e non avevo paura di mettere la gamba. L'allenatore dopo cinque minuti l'ha piazzato in difesa e se prima girava a vuoto, di colpo è naufragato come tutta la squadra. Per la prima volta in vita mia m'è spiaciuto per lui, perché si vedeva lontano un miglio che delle qualità che deve possedere un difensore non ne aveva mezza: era lento, non anticipava, non contrastava e manco aveva la malizia di fare fallo quando un'attaccante lo superava, andandosene tranquillo e beato verso la porta. S'impegnava ma era inadeguato, come un albatro quando tocca terra e invece di spiegare le ali deve correre impacciato, sulla spiaggia.
Lo dico? No, non lo dico. Ma sì che lo dico! No, non lo dico. D'accordo, lo dico: per un istante ho anche pensato di andare a parlare con l'allenatore. Io! Io che mi vergogno per tutti quei genitori che credendo di avere in casa Maradona mettono becco e urlano e se la prendono, sbraitano, dispensano perle, consigliano: pensano di essere Mourinho e in vita loro non hanno mai neanche tirato un calcio al pallone davanti alla porta del condominio. Io! Io che ho sempre detto a Giacomo: "Se vuoi con l'allenatore ci parli tu. Se pensi che dovresti giocare più avanti perché nei contrasti sei scarso ma quando alzi la testa riesci a mettere la palla dove vuoi tu e qualche volta anche a segnare, come facevi l'anno scorso, non hai che prendere coraggio e dirglielo. Nella vita mica c'è sempre un padre che si preoccupa per te, che ti allaccia la bavaglia". Io! Io che ho sempre sentenziato serafico quanto il maestro Shifu o Oogway di Kung Fu Panda: "Un calciatore deve imparare a giocare dappertutto" e "Importante è allenare la propria debolezza per trasformarla in forza". E la mia d'una debolezza? M'è passata, scrivendo qui, mettendo in piazza la tentazione, esponendo la colpa. Giuro che non lo farò, giuro che manterrò fede ai miei principi, giuro che continuerò a pensare che Giacomo deve cavarsela da solo, che è soltanto un gioco e che altre sono le cose importanti della vita, giuro che non parlerò all'allenatore!
(Ma allora perché sto tenendo incrociate le dita?)


Foto by Leonora

venerdì 11 marzo 2011

Aldo Rossini, medico e umanista

Una casa vagamente razionalista, come l'avrei desiderata io (seconda soltanto, nei miei gusti, ad un'abitazione tutta in legno). Aldo Rossini, filosofo, medico e umanista, abitava arroccato a mezza costa, dominando Tavernerio. A differenza di altri personaggi, che non ho più rivisto, lui ho avuto modo e fortuna di incontrarlo altre volte, approfondendo una conoscenza che considero tuttora un privilegio. Ricordo benissimo quando misi in pagina questa intervista, realizzata qualche giorno prima, il 12 febbraio del 1998. Il direttore, Adolfo Caldarini, che mi voleva bene senza però risparmiarnmi critiche quando un pezzo non era scritto come lo avrebbe voluto, mi fece chiamare nel suo studio. Era un sabato, ne sono certo, e già mi arrovellavo pensando a cosa non gli piacesse, dove avessi sbagliato. Invece appena entrato si illuminò in un sorriso e allargò quelle mani affusolate e le braccia lunghe, da pianista o direttore d'orchestra mancato, come per accogliermi in un abbraccio. "Giorgio! - mi disse, ridendo contento, come un bimbo - Giorgio! E' proprio così, vero? Come hai scritto tu, all'inizio! Di fronte a Rossini, alla sua cultura, ci si sente un nessuno!".

Uno legge in vita sua qualche libro. A volte parla in pubblico. Ha modo di farsi una certa esperienza lavorativa. Si ritiene una persona informata e presume di poter comprendere ciò che gli capita quotidianamente di ascoltare. Crede, insomma, di sapere il fatto suo.
Poi incontra il professor Rossini e scopre la miseria delle proprie certezze.
Aldo Rossini, non vanta natali illustri. Egli stesso rammenta come il padre, operaio, abbia faticato non poco per tirar grandi i suoi quattro figli e per farlo studiare (“Ricordo quel periodo come faticoso. Non avevo mezzi. Era dura”). Nato il 1922, ad Albese con Cassano, a vent’anni ha già una laurea in filosofia (“Una passione che ho sempre coltivato”). Nel frattempo inizia la guerra che interrompe le vite, ma non i sogni. Il giovane Rossini vuole diventare medico e, dopo il servizio militare, si iscrive alla facoltà di medicina. “Avevo un forte desiderio di concretezza. Cercavo quel tipo di cultura in cui il pensiero astratto si combinasse con la realtà concreta. Qualcosa non appeso sulle nubi, ma a contatto con la realtà obiettiva, nella quale si può operare in termini di partecipazione umana effettiva. Che poi dovrebbe essere il concetto vero della medicina. Ci sono due momenti del pensare. Lo scrive bene Heidegger, che parla di “pensiero calcolante”, che porta a dei risultati ed è sempre orientato ad uno scopo, e di “pensiero meditante”, che è stato abbandonato, scrive lui, ed è la libera attività della mente, dell’anima. Senza fini particolari, serenamente”.
Il professor Rossini attualmente è in pensione. Una pensione operosa. “Sono presidente del comitato etico del Valduce, dell’associazione per la cura del dolore, della casa di riposo Prandoni di Torno. Tengo le lezioni di storia della filosofia all’università della terza età. Continuo a visitare. Sono assai impegnato”. E’ anche esperto di storia dell’arte e la sua casa somiglia ad una galleria (“E’ il mio modo di salvarmi. Qualcosa per lo spirito tra il pensiero razionale e il lavoro di medico”).
Lei è medico internista. Ha ancora senso la sua professione in un tempo in cui domina la settoriale specializzazione?
Come no, la specializzazione è solo un ramo della complessità. L’internista, o generalista come dicono gli americani, è quello che incontra il paziente. Tutto il paziente. E cerca di conoscere la totalità di questa persona con la sua psiche, il suo morale, la sua storia. Da questa base di partenza trae un’ipotesi, che poi deve essere verificata o falsificata, come dice il Popper, oppure si stende un programma di ricerche, con un certo ordine. Questo può farlo soltanto il medico che possiede una sintesi culturale abbastanza importante”.
Quando parla Rossini non sentenzia. Semmai offre, propone, suggerisce. Anche in questo modo di porsi comunica modestia (“Mi raccomando, non scrivete ciò che non ho detto e, soprattutto, niente enfasi”). Il suo discorso non procede lineare. E’ piuttosto come un bosco fitto di aneddoti, ricordi, citazioni.
La bioetica è la scienza del futuro, ma pone problemi antichi quanto il mondo. Già Plinio il Vecchio ammoniva “non omne fas est”. Non tutto è accettabile, non tutto ciò che si può fare si deve fare. Ci sono dei limiti da rispettare, che variano a seconda del concetto di filosofia di ognuno”.
Vorremmo evitare le solite domande, ma le centinaia di persone che hanno assistito al Forum organizzato dal nostro giornale a Villa Olmo sul così detto “metodo Di Bella”, ci inducono ad una deroga.
Quanto sostiene Di Bella non è scientifico. Condivido quanto espresso durante quel dibattito dal Dott. Cavalli: a Di Bella tocca l’onere della dimostrazione. Una seria sperimentazione è assolutamente indispensabile. Deve riscontrarsi una connessioni di fatti, poiché le percezioni non bastano. Per quanto ne sappiamo ora, potrebbe trattarsi di un caso simile alla polvere simpatica o al fungo cinese o altri molti rimedi che in passato sono stati spacciati per scienza”.
Ci passa per la mente una curiosità. Il professor Rossini, “medico umanista, che ha saputo riportare la professione medica all’antica dignità di arte liberale”, come hanno scritto, crede ai miracoli?
Se credo in Dio onnipotente il miracolo è possibile. Per verificare se si tratta di un miracolo deve però esser dimostrato che quel fatto non rispetta le leggi della natura”.
Ne è mai stato testimone?
Ho visto delle cose incomprensibili e meravigliose. Ho fatto anche la parte del diavolo in un processo di beatificazione. Dovetti interrogare i testimoni. Lo feci rendendomi conto, e lo riportai nella relazione, che con i dati conosciuti dalla scienza moderna quello che era accaduto era incomprensibile. Ma non so se ha leso una legge naturale, poiché forse noi uomini non la conosciamo ancora”.
"La conoscenza - è lui stesso a spiegarcelo, prendendo a prestito le parole del Croce a commento dell’opera di Platone - non avviene esclusivamente attraverso l’intelletto. C’è il sentimento. C’è la memoria”. Ci sono le intuizioni e le percezioni e le pulsioni e le sensazioni. Lo sperimentiamo noi stessi. Per conoscere l’uomo che ci sta di fronte, più ancora dell’udito, ci è utile l’olfatto. Non dimenticheremo mai l’odore dello studio nel quale ci accoglie. Odore di carta, odore di libri. Davanti, dietro, da parte. Recenti e antichi, preziosi e economici. Dovunque ci sono libri. Libri usati, letti, vissuti.
Poco incline ad accettare complimenti, il professore si distingue in scrupolosità. “Maria, Maria – si lamenta con la moglie – ho trovato due errori nello scritto che ho mandato a Trieste. Due errori, Maria, stravolgono il senso del discorso, bisogna rimediare, Maria” e nella richiesta si infervora, reclamando quell’attenzione che non gli pare sufficientemente concessa. Ci mostra gli errori. Non ricordiamo il secondo, ma nel primo deve aver scritto un né al posto di un non. Gravissimo. Almeno per lui, che ha la rigorosa abitudine di scrivere nulla senza riportarne la fonte. Chissà se aggiungerà la bibliografia anche sui biglietti augurali, ci scopriamo a pensare al momento del commiato.
Questione di carattere (“Sono un pignolo”) ma soprattutto di serietà. La stessa per cui rifiuta di citare uno scrittore preferito (“Non mi garba una graduatoria, poiché col passare degli anni, gli autori si leggono sotto una luce differente”), ma accetta di consigliare un lista di opere del pensiero filosofico, che lui ritiene fondamentali.
Io leggerei – e intanto prende carta e penna e comincia a scrivere come se si trattasse di una ricetta medica – Platone e la metafisica di Aristotele. Di seguito metterei il Vangelo e, se uno a tempo, non trascurerei la Bibbia. Sant’Agostino. Va bene fin qui? – si interrompe di tanto in tanto, per assicurarsi della nostra comprensione, proprio come fa il medico prescrivendo la posologia dei farmaci - Di San Tommaso il “De ente ed essentia”. Galileo Galilei e il suo “Dialogo sopra i massimi sistemi”, che segna l’inizio della scienza moderna. Cartesio, il “Discorso sul metodo”, 1637. Ancora, la monadologia del Liebniz. La “Critica della ragion pura” di Kant e poi Bergson e, tra i moderni, la ”Estetica” del Croce. Questo è già un bel inizio”.

Giorgio Bardaglio

giovedì 10 marzo 2011

Stinco di santo e piede di porco: Berlusconi e la questione morale


Morale. E' quando si ha paura delle parole che il pensiero diventa debole. "Morale" è una di queste. La uso anch'io con pudore, come si fa con le cose che si sanno necessarie, ma di cui in fondo un poco ci si vergogna e si vorrebbe non mostrare. Lo stuzzicadenti, la carta igienica, le mutande. In parte per colpa dell'accezione da positiva a negativa che la società tende a darle. La "questione morale" è un po' il servizio da tè di certe anziane signore: impolverato e che quando si toglie dalla credenza rischia di andare in frantumi. Il "rigore morale" poi sa di barbe lunghe e discorsi pedanti, anch'esso riesumato da epoche antiche e in fondo ipocrite. "Far la morale" infine, da lodevole esercizio pedagogico è diventato riprovevole e sconveniente, come mettersi le dita nel naso o ruttare, al ristorante. E se anche fingessimo di ignorare questo modo attuale di intendere la morale, l'esitazione è dovuta alla constatazione (amara) che non solo non possiamo scagliare alcuna prima pietra, ma che se portassimo i nostri errori in piazza verremmo abbandonati da tutti gli amici e da buona parte dei famigliari. Fuor di metafora: non mi drogo, non stupro né ammazzo bambini, non rubo e nemmeno rapino arzille vecchiette fuori dalla Posta, però - per rimanere all'anatomia - finisco comunque per somigliare più al piede di porco che allo stinco di santo. Perciò taccio. Fischietto, fisso lo sguardo altrove, fingo di essere sordo, mi guardo bene dall'espormi, specialmente in pubblico, dove c'è sempre chi potrebbe alzare un dito, chiedere la parola e dire: "Ma ti sei visto allo specchio?".

"Cosa diavolo sta dicendo, dove vuole andare a parare?". E' probabile che ve lo stiate domandando. Rispondo subito. Berlusconi. No, calma, non il politico. Neanche l'imprenditore. L'uomo, sto parlando dell'uomo. Perché è vero che ognuno di noi ha qualche scheletro nell'armadio (i suoi sono sovente in carne, ossa e silicone, ma non è questo il punto) però anche se da ragazzo aspettavo che arrivasse Postal Market per rifarmi gli occhi con la collezione primavera - estate di reggiseni e intimo e pure da adulto ho sulle spalle il mio bel fagotto di peccati in pensieri, parole, opere e omissioni, ciò non può esimermi dal dire che quello di cui abbiamo notizia è una corposa vergogna (l'aggettivo non è scelto a caso).

Ne parlavo con Beppe, che non è Severgnini, l'altro giorno. Qualcuno prima o poi dovrà alzarsi in piedi e dire che qui non ci sono soltanto il problema politico e la vicenda giudiziaria, ma anche la questione morale. E se pubblicare le intercettazioni che non hanno rilevanza penale è una barbarie giuridica, mettere nero su bianco i colloqui telefonici vale più di qualsiasi rapporto Istat per descrivere come la società sia cambiata. A me i nomi non interessano, non m'importa che quel padre o quel fratello si chiamino Tizio o quella ragazza abbia nome Caia piuttosto che Sempronia (beh, se è proprio Sempronia un po' per lei mi spiace), mi sconvolge invece che delle ventenni dicano ai genitori che a scopo di lucro si stanno concedendo a un quasi coetaneo del loro bisnonno e invece di uno schiaffone ricevano in cambio consigli, approvazioni e incoraggiamenti a darsi da fare (soprattutto 'a darsi'). Ora, io non so se come dicono molti tutto ciò sia colpa del consumismo, della televisione commerciale e dunque alla fine sempre del solito Berlusconi. Non so se egli sia causa, effetto o, come credono i suoi sostenitori, vittima del sistema. So che questo sistema fa schifo. Ecco, ho alzato il dito, e l'ho detto.


Foto by Leonora

Franco Soldaini, un gentiluomo toscano a Como

Franco Soldaini era un amico. Discreto, comprensivo e generoso quanto solo gli amici sanno essere. E' morto ieri, a settantadue anni, logorato da un male che nell'ultimo scorcio di vita gli ha sfilato poco a poco la salute, non la gioia e il gusto per l'accoglienza, l'ospitalità, la gentilezza. Era toscano d'origine, ma a Como aveva trovato ben più di una casa. L'intervista che pubblichiamo qua è il frutto di un incontro avvenuto il 23 luglio del 1999. Un dialogo fitto, avvenuto per la maggior parte in balcone, perché l'appartamento era sottosopra in attesa dell'imminente trasloco in un'altra abitazione, ma sempre a Como, eletta a patria, pur se le radici erano ad Empoli, sulle colline toscane che profumano già di mar Tirreno.

In centoventi scatoloni, trentacinque anni di matrimonio. Franco Soldaini ha cominciato a traslocare due giorni fa e in poche ore i locali della sua nuova abitazione sono stati invasi in ogni angolo da pigne e pigne di cartoni. Non ignari dell'avvenuto esodo, l'abbiamo contattato prima ancora che si pigliasse il tempo di riprender fiato.
Fossimo stati noi, quando l'apparecchio telefonico (da pochi istanti collegato) ha cominciato ha squillare, neppure avremmo osato alzare la cornetta. E se anche per errore, stanchezza o incosciente abitudine avessimo sollevato il ricevitore, dopo aver scoperto che non di un idraulico o di un elettricista si trattava, bensì di un cronista con l'assurda pretesa di un appuntamento immediato, non avremmo minimamente esitato a mandarlo a quel paese col pensiero e a declinare con decisione ogni richiesta di incontro per almeno i restanti cento sessantun giorni dell'anno.
Se fossimo stati noi da quella parte del filo, voi ora non leggereste alcun articolo. Ma al capo opposto c'era un gentiluomo. E che egli lo sia, nessuno può aver la spregiudicatezza di negarlo. Franco Soldaini è un gentiluomo nei modi di essere, prima ancora che di fare. Misurato senza ristrettezze e cordiale senza smancerie, Soldaini è un gentiluomo nei modi di essere, prima ancora che di fare. Un raro esempio di forma che rispecchia la sostanza. Una galanteria istintiva, temprata ed affinata in sessant'anni di pratica. Una capacità di accoglienza ed ospitalità che le difficoltà, invece di mortificare, esaltano.
Se Alcinoo fosse stato chiamato a dar rifugio all'errante Odisseo non tra le comodità del palazzo regale, ma nel bel mezzo di un cantiere, e se al posto delle candide ginocchia Nausica avesse offerto all'eroe acheo una medusa di tubi e cavi e un mezzo olimpo di cartoni, è probabile che il prode Ulisse, invece di fermarsi nove anni a raccontare la sua storia, avrebbe girato lesto i tacchi e sarebbe tornato volentieri in mare. A meno che tra i Feaci, nell'isola di Scheria, fosse vissuto un avo di Soldaini, il quale l'altro ieri con due sedie è stato capace di trasformare tre metri quadri di balcone in un salotto. Seduti lassù, a quindici metri d'altezza, magicamente sospesi sopra i tetti e i ballatoi delle case sottostanti, a mezza cresta tra il limpido azzurro del cielo e l'intenso verde del monte, in un istante il caos ha lasciato posto al ritmo suadente delle sue parole.
Sono nato ad Empoli, a un tiro di schioppo da Firenze. Eravamo tre fratelli. Mia madre si dedicava alla casa, mentre mio padre era maestro vetraio, un artista che senza capir nulla di chimica riusciva ad ottenere colori stupendi. Io ero un figlio capriccioso, che si oppose decisamente a continuare il mestiere del babbo per seguire il destino di un uomo straordinario, che si chiamava Mauro e che ho sempre considerato alla stregue di un secondo padre. Era amico di famiglia e faceva il direttore di albergo. Fui affascinato dalla sua eleganza e dal suo portamento principesco. A undici anni decisi che volevo diventare come lui”.
Quattro anni più tardi Franco lascia la famiglia per frequentare la scuola alberghiera di Strasburgo. Cinque anni di gavetta, girando i migliori hotel d'Europa. Francia, Inghilterra, Germania, Olanda. Ogni quattro, cinque mesi un cambio.
C'era molto da imparare. L'esperienza contava e non a caso i vecchi, con saggezza, dicevano che prima dei cinquant'anni non si poteva diventare direttori”.
Una regola valida per molti, ma non per tutti. Certo non per lui, che a soli venticinque anni viene chiamato a dirigere un prestigioso albergo in Sardegna. Sei anni più tardi, gli viene proposta addirittura la direzione di una scuola alberghiera, a Salice Terme.
Sono stato molto fortunato. A quel tempo nulla mi pareva impossibile e devo riconoscere che ero un vero Ganimede”.
Ganimede, per la verità, è il secondo termine che ha usato, quasi per coprire il primo vocabolo che gli era uscito dalla bocca. “Ero un "ganassa"” aveva detto, in genuino milanese. Più che un vezzo da ostentare, quella di infarcire i discorsi con espressioni internazionali o regionali, è un'abitudine che Soldaini ha acquisito in seguito al parecchio viaggiare e al molto voler capire. Un desiderio di conoscenza che ha riscoperto pian piano, pungolato dall'incontro della moglie Carla. Una voglia di sapere a cui si è dedicato con il puntiglio di chi, essendosi allontanato dai libri troppo presto, quando vi ritorna fa propria la stessa energia e determinazione con cui professano la loro fede i convertiti.
Fu nel 1969 che diventai direttore della scuola alberghiera di Bellagio. Nei tredici anni che vi son rimasto non l'ho fatta diventare prestigiosa, poiché lo era già prima, grazie al valore inestimabile dei docenti che vi insegnavano, ma credo di aver dato un contributo non indifferente alla sua crescita. Il pregio migliore di quella scuola era l'internazionalità. Quando hanno voluto limitare la provenienza degli allievi ad un ristretto territorio è cominciato il declino”.
Un declino risultato fatale.
Un assassinio. Di questo si è trattato. La Regione Lombardia non doveva permettersi di far morire quell'immenso patrimonio”.
L'amarezza lo turba, ma non lo scompone. Da qualche anno questo toscano che di Como si è innamorato tanto da sentire questa terra come la sua vera casa, ha lasciato ogni posto di responsabilità per dedicarsi alle consulenze e agli scritti di gastronomia ed enologia.
Qualcuno pensa che sia un cuoco, ma non è così. A me interessa la cultura del mangiare e del bere ed il senso del tragitto del cibo che dall'uomo, attraverso la terra e l'industria, torno di nuovo all'uomo”.
E in questi discorsi, sospesi a quindici metri d'altezza, dimentichi dei sacchi, sacchetti e pacchettini sparsi tutt'intorno, ci siamo lasciati cullare dal sapere e dalla cortesia di quest'uomo che direttore e gastronomo è diventato, ma signore lo è sempre stato.
Giorgio Bardaglio

mercoledì 9 marzo 2011

Giorgio Luraschi e giurisprudenza a Como

Se c'è un cruccio, tra i molti, che mi è spina nel fianco, è quello di non vivere e godere appieno dei contemporanei meritevoli che questo tempo mi ha messo accanto. Giorgio Luraschi, il professor Giorgio Luraschi, è uno di questi. Ho avuto la fortuna di conoscerlo molti anni fa, comprendendo a pelle che avevo di fronte un personaggio fuori dal comune. Da allora mi sono sempre ripromesso di tornare a incontrarlo, di assistere più spesso agli incontri che lo vedono protagonista. Un desiderio che non ho mai soddisfatto, se non in saltuarie occasioni, in cui ogni volta sono rimasto affascinato dal suo eloquio, dal modo di porsi, dal piacere quasi fisico che si ricava ascoltandolo, senza poi andare a cercarlo con maggiore frequenza e più impegno. Suo è anche il libro ("Storia di Como antica") che ho sempre voluto leggere, ma che non ho mai comprato, accampando mille scuse (tra cui il costo, visto che quand'è uscito mi pare avesse un prezzo di settantamila lire, che per me, con i guadagni di allora erano uno sproposito). E anche adesso, che potrei permettermelo, l'obiettivo, l'idea di comprarlo è diventata quasi più interessante del libro stesso.
L'intervista che riporto qui sotto, molto ampliata rispetto a quella che uscì sul Corriere di Como, la feci il 14 maggio del 1998. Passammo insieme un intero pomeriggio, nella sua casa, e mi confidò cose come fa un padre a un figlio, anche se prima ci eravamo incrociati soltanto di sfuggita, ma leggeva le mi interviste e sapeva di potersi fidare del ragazzo che ero. Mi colpì un discorso sulla vita, sul figlio che gli era morto piccolissimo, sul rapporto duro e dolce insieme con la moglie, dopo quel lutto. Conoscevo già Licia, la figlia che ebbero subito dopo e che contribuì a rimettere sui binari un convoglio famigliare che rischiava di schiantarsi o rimanere impantanato. Da allora sono capitate un sacco di cose. Luraschi s'è ammalato, ha rischiato di lasciarci la pelle, ancora oggi lotta strenuamente contro il male subdolo, ha una nuova, giovanissima compagna, da cui ha avuto un figlio, maschio, a cui ha dato due nomi, non uno. Di lui tutto si può pensare, ma resta un personaggio unico.

Che parli di Cornelio Nepote o di Alberto Botta, poco importa. Che tratti di Publio Virgilio Marone o di Paolo Maggi, non fa differenza. Giorgio Luraschi racconta la storia con il ritmo della cronaca e la cronaca con il rigore della storia. Per questo non annoia.
È vero che “ne plurimum valeant plurimi”, il numero non conta, come ammette lui stesso, prendendo a prestito le parole di Cicerone. Tuttavia, se l’aula in cui insegna è sempre colma, un motivo ragionevole ci sarà pure. Egli sa trasmettere entusiasmo. E quando si accorge che la “mancipatio e in iure cessio” o qualsiasi altra chincaglieria di diritto romano comincia a provocare tra gli universitari un’inesorabile sonnolenza, non ci pensa due volte a raccontare cosa gli sia accaduto domenica l’altra per strada o allo stadio. Qualche studente non apprezza. Qualcun altro gli scrive persino bigliettini di disapprovazione. Lui incassa, non lascia e rilancia. Invece che dirottare il messaggio nel cestino, lo legge ad alta voce. “La pianti di divagare” c’è scritto, ma le restanti centinaia di studenti comincia ad applaudire e ad augurarsi che Luraschi torni ad essere ciò che è: un uomo apparentemente grigio e polveroso come certi ragionieri, ma in realtà vivace e colorato come solo i giullari sanno essere.
Lo considero un complimento. Il giullare, il buffone, coloro che salvano la pelle senza tralasciare di criticare il padrone, mi hanno sempre affascinato”.
Comasco, nato cinquantasei anni fa a Genova, dove il padre era militare, Giorgio Luraschi non vanta natali illustri o patrimoni ingenti. La sua infanzia la trascorre nel quartiere popolare di san Giuseppe. “Sono una persona che si è fatta da sola, seguendo una vocazione che altri hanno scoperto in me”. Gli altri sono gli insegnanti che via via lo hanno accompagnato. Il maestro Duvia alle elementari. Il professor Ercolani, che in prima media gli mette in mano “Civiltà sepolte”, il primo libro di archeologia divulgativa (“Fu una folgorazione”). Paolo Maggi al liceo. All’università sceglie giurisprudenza, come compromesso tra la facoltà di medicina, suggerita dal padre, e la passione per l’archeologia che coltiva da sé. La vita, come a tutti, impone mediazioni, ma che egli abbia le idee chiare e sia cocciuto al punto da arrivare sempre dove vuole è un dato di fatto. Alla prima lezione, il professor Gaetano Scherillo tratta delle origini di Roma. Luraschi, alunno novello, ascolta incantato e al termine dell’ora chiede al docente di essere relatore della tesi. Scherillo crede sia uno scherzo, ride, chiama divertito gli assistenti, poi capisce che quel ragazzo ancora in odor di latte fa sul serio, cerca di dissuaderlo, ma alla fine acconsente.
Ottenuta la laurea, mi offrirono la possibilità di collaborare come ricercatore, ma accontentai i miei genitori e intrapresi la professione forense. In mattinata seguivo le cause. Nel pomeriggio mi precipitavo in università a Milano, all’insaputa di mio padre. Quando cinque anni dopo morì, io mi sentii affrancato dalla promessa fatta, lasciai la toga, vinsi una borsa di studio e nel 1971 diventai assistente ordinario all’università di Pavia. All’insegnamento ho dato tutto”.
Giorgio Luraschi, come tutte le persone che sanno di valere, non è modesto, senza però esagerazioni. “Ho scritto un libro” dice quasi di sfuggita, ma negli schedari della biblioteca di cartellini coi titoli e i dati delle sue opere, se ne trovano almeno una trentina. “La “Storia di Como antica” – dice sommesso - è l’ultima mia opera. Troppa fatica. Non ho più tempo per studiare”. Evidentemente del tempo deve averne dedicato in misura abbondante in passato, poiché di pagine ne ha scritte a manciate. Con vari e opinabili interessi. Dagli “Aspetti giuridici della romanizzazione del Bruzio” a “Il Castellum nella costituzione politica dei ligures comenses”. Passando per l’illustre “La lex vatinia de colonia Comum deducenda” o per l’imprescindibile “Il praefectus classis cum curis civitatis nel quadro politico e amministrativo del basso impero”.
Da quattro anni, più che alla ricerca deve dedicarsi all’organizzazione e all’amministrazione della facoltà di giurisprudenza con sede in Como. Un’opportunità irripetibile, ottenuta con insistenza e ostinazione, contro l’ostilità di molti e l’indifferenza dei più.
L’università a Como non piace a tutti coloro che apprezzano solo quello che è immediatamente utile e produttivo. Nessuno pensa all’incremento culturale, bibliografico, economico che può avere la nostra città. Como ha perso un sacco di treni, non possiamo permetterci di lasciar passare anche questo. Siamo su un crinale: o si fa una scelta coraggiosa che permetta di continuare un ciclo virtuoso oppure si chiude baracca e burattini. Se gli studenti devono mangiare sulle scale, se non possono andare a studiare in biblioteca, se devono stare in piedi durante le lezioni, non c’è futuro. Il chiostro di Sant’Abbondio, non chiediamo altro”.
Giorgio Luraschi ha fatto dell’università non solo una scelta, bensì una vera e propria missione, a cui si dedica con piglio, zelo e caparbietà. Dal fervore con cui la difende, per essa Luraschi sembrerebbe disposto a tutto. Quasi a tutto. Perché il professor può ingoiare rospi, incassare critiche, affrontare ostacoli degni dei titani, ma su una cosa non transige. “Non ditemi di andare a tenere lezioni in un cinema, perché se così fosse io me ne tornerei a Milano o a Pavia. Io sono comasco, ma a tutto c’è un limite. Il cinema equivale a una resa”.
Victor Hugo scrisse che: “Ogni qualità sfocia in un difetto…ci son nelle virtù altrettanti vizi quanti buchi nel mantello di Diogene”.
Gli uomini sono esseri contraddittori. I comaschi lo sono di più. L’individualismo, ad esempio, che è un nostro pregio perché non permette mai di trasformarci in gregge, può facilmente diventare egoismo, chiusura a riccio”.
Vizi e virtù sono scritti nella storia delle popolazioni. Qual è la nostra?
I primi che si insediarono da queste parti furono i liguri, da cui ci deriva la tenacia, la laboriosità. Gli etruschi in seguito portarono la fantasia e l’intraprendenza commerciale. I celti, infine, compresero la superiorità della civiltà romana e la recepirono a tal punto che nel primo secolo avanti Cristo il meglio della cultura latina era data da celti romanizzati. Livio nasce a Padova, Virgilio a Mantova, Catullo a Verona. Per questo Cicerone chiama l’Italia settentrionale “flos Italiae”, fiore d’Italia. Come visse un’età dell’oro. Era una città di marmo, con splendidi monumenti, governata bene, con molti ricchi e nessun povero poiché gli indigenti erano mantenuti quotidianamente da elargizioni di frumento, di soldi. Plinio stesso inaugurò un sistema di sovvenzione per i poveri, copiata poi dall’imperatore Traiano.
Roma portò il diritto, fondamentale per evitare la litigiosità, l’architettura, con i ponti, gli archi, le strade, le terme. Prendersela con Roma vuol dire non capire noi stessi. Conoscere la storia vuol dire non subirla. E farla. Ecco perché la insegno
”.
Giorgio Bardaglio

Qualche appunto che avevo preso, ma nell’edizione breve sul giornale è finito scartato e che dunque ad oggi risulta inedito.

Egli di interessare l’interlocutore non si accontenta. Pur di convincerlo delle proprie ragioni è disposto ad avvinghiarlo fino a persuaderlo. E se la prosa scorrevole e limpida non basta, aggiunge dell’altro, arrivando persino a dare spettacolo con battute, frizzi e lazzi. In questo senso, il professor Giorgio Luraschi è un autentico istrione.
Cosa può fare Como per l’università?
Darci lo spazio che vogliamo, il chiostro di Sant’Abbondio. La delibera c’è. Mancano i soldi e soprattutto l’accordo degli enti pubblici. Tuttavia se tardiamo un po’ troppo, se non compare una gru, tutto si perde”.
Qual è il suo timore maggiore?
Di perdere anche questa motrice che conta 1800 studenti, di cui solo un terzo provenienti dalla città. Tutti comunque potenziali utenti di servizi dovrebbe loro offrire, quali mense, biblioteche, librerie, fotocopisterie. Cosa c’è attorno a Viale Cavallotti di tutto questo? E sono quattro anni che siamo lì. Abbiamo trovato un gran ostilità e parecchia indifferenza”.
A chi deve dire grazie?
Al sindaco Alberto Botta, che è una persona disponibile. Giurisprudenza c’è per merito suo, che come primo atto dopo la sua elezione convocò me e il preside di Milano e disse: si parte. Senza sede, strutture. Ora che noi elemosiniamo spazi, ci rinfacciano di aver dovuto iniziare solo quando tutto fosse stato pronto”.
Ci parli del suo ultimo libro.
Nell’ultimo libro, ho raccolto metà dei miei scritti che riguardano Como. Uscirà il secondo volume. Ho detto: “diamo ai comaschi una visione scientifica della nostra storia, perché circolano idee, date, nomi, istituti fantasiosi. Quest’opera anche laddove è leggera e divulgativa è verificata scientificamente”.
C’è un personaggio da cui Como deve trarre lezione ed esempio?
Più che individui, fenomeni collettivi. Ad esempio, i magistri cumacini. A Como qualcosa funziona bene quando ci sono queste coralità. Il Duomo l’hanno voluto tutti, anche se poi c’erano i Rodari. O il razionalismo. La facciata della Casa del Fascio sembra riprodurre in quella scacchiera di finestroni l’impianto della città romana vista dall’alto. Sono le geometrie semplici, lineari del romanico. Ogni volta che lo dico gli architetti ridono, ma io insisto. Tra le individualità la più grande è a mio parere il Volta, ma ci sono stati anche i due Plini, che hanno dato alla città una notorietà infinita e fatto vivere a Como il periodo migliore della sua storia”.
E Roma ladrona?
Cesare, fondatore di Como nel 59 a.c., che Bossi porta a paladino era un romano, alle spalle non aveva i celti con le corna e i bragoni, ma la civiltà romana. Cesare è la quintessenza della romanità”.
Come nacque la ricchezza di Como?
Vi si insediò una flotta e divenne base per il vettovagliamento. Così fiorirono monumenti preziosi, come la Porta Pretoria, che si trova sotto la media Parini”.
Immigrazione è solo il nome che diamo a un fenomeno che è sempre esistito.
Cesare portò cinquemila coloni, più cinquecento siciliani. Mano d’opera qualificata, che portò la navigazione sul Lario e l’ulivo”.
Cos’è la cultura?
Mi dicono: sono i libri. Io ne ho settemila, ma non è quello. Leggerli dà semmai informazione. La cultura è entusiasmo, professionalità, consapevolezza. Amore per il proprio mestiere. Una certa umiltà per poter imparare. Gli intellettuali oggi non sono colti, sono solo informati. Sanno tutto di tutti. Non leggo un romanzo da trent’anni. Chi ha entusiasmo ha in mano il mondo. Cosa facciamo noi per dargli entusiasmo? Con l’esempio ci riusciamo”.
Quale altre passioni ha?
Il Genoa. Mio nonno, mio padre ed io siamo nato tutti a tre a Genova. Per caso, ma un caso che fa pensare. La partita in curva è una cosa di cui non ha idea. Dieci anni fa, eravamo primi con Scoglio in B ed io non andavo allo stadio. Mia figlia mi sentì gridare una volta, poi una seconda finché mi disse: papà mi devi portare. È fatta, pensai! Accesi un cero a Santa Rita e la domenica successiva andammo a Monza. Ora siamo abbonati, siamo andati a Liverpool, andiamo ai ritiri. È una passione. Fa parte del mio essere. È un complemento, uno sfogo alla dura vita quotidiana. Poi viaggio, sono stato recentemente in Persia, andrò in Tunisia. La sindone, grande passione. Lo sci, ormai sempre più con calma. Non sono un tuttologo. Preferisce coltivare i suoi interessi. Uno che non sa divulgare, nemmeno sa”.
Dov’è cresciuto?
Ho vissuto nelle case popolari di San Giuseppe, tra la gente più umile, che mi ha insegnato molto. Mio padre era ragioniere alla previdenza sociale”.
Torniamo sulla sua scelta di insegnare.
A me è sempre interessata la storia. Ebbi la fortuna di assistere la prima lezione di Gaetano Scherillo, che trattava dell’origine di Roma. Alla fine dell’ora io scesi da quell’esimio professore e gli chiesi la tesi. Lui rise, chiamò i suoi assistenti, cercò di dissuadermi ma alla fine si convinse che facevo sul serio. Riuscii a completare l’iter della facoltà grazie alla tesi. Facevo gli esami ogni tanto e preparavo la tesi. Oltre a Scherillo, l’altro grande maestro che ebbi fu Gabrio Lombardi, che mi disse: Giorgio, il tuo destino è questo, se vuoi ti aiuto, ma devi smettere di fare l’avvocato. Il fato volle che mio padre morisse proprio in quei tempi e io, sentendomi affrancato dalla promessa che gli avevo fatto, comunicai ai miei amici che l’indomani non sarei andato allo studio. Passai, nel 1969, da uno stipendio di 500.000 ad uno di 25.000 lire al mise. Fu una scelta non compromissoria. Vinsi una borsa di studio e l’anno dopo, nel 1971, diventai assistente ordinario a Pavia, dove sono rimasto ventiquattro anni”.
Le sue lezioni sono sempre seguitissime. Qual è il segreto?
Riesco ad interessare i giovani perché vivo con una mentalità giovanile

domenica 6 marzo 2011

Piange il telefono (e anch'io non rido)


Vorrei dire qualcosa di sinistra: le intercettazioni telefoniche non si dovrebbero pubblicare, prima che sia finito il processo. Mi domando per quale oscuro mistero Berlusconi possa talmente condizionare migliaia di persone e i buoni principi che in secoli di convivenza civile abbiamo conquistato. Chi sbaglia? Lui a dire una cosa giusta, anche se lo fa per tornaconto personale e interesse privato, oppure chi rinuncia alla parte della ragione, soltanto per fargli un dispetto? Non sono mai stato un uomo di sinistra, nonostante sia finito come "comunista", peggio, come "cattocomunista", nel tritacarne di chi applica alla politica il tifo da stadio. Anche in questo, cerco di non farmi condizionate, perché questa sì sarebbe una tragedia: costringerci alle regole di chi non la pensa come noi, abbassarci al livello che altri hanno creato. Io mi ritengo un moderato, sforzandomi di giudicare gli atti e in second'ordine le parole, in virtù del contenuto e non perché chi le ha proferite mi è simpatico o antipatico. Della sinistra apprezzo l'attenzione verso i più deboli, l'idea di pari opportunità per tutti, un certo rigore morale; della destra il rispetto per la legge e per l'ordine, il riguardo per i valori della tradizione, dei padri. Oggi non vedo che confusione, ripicche, negazioni dei principi, nel tentativo di far lo sgambetto all'avversario. Da parte mia, cerco di badare più a ciò che è giusto e meno a ciò che è conveniente. Dicevo delle intercettazioni. Da giornalista mi ingolosiscono, poiché la loro pubblicazione fa vendere migliaia di copie e con le copie vendute noi campiamo. Ma da cittadino non posso far finta di nulla e negare ch'è ingiusto rendere pubblico un colloquio telefonico, in cui non traspare nulla di illegale, ma giudizi grevi o volgari, come credo siano buona parte delle conversazioni al telefono, comprese le mie, che nell'intimità del dialogo assomiglio più a un camallo del porto di Genova che ai probiviri di Oxford. Una legge in questo senso è necessaria, oltre che auspicabile. Qui non è questione di Berlusconi o non Berlusconi, bensì di civiltà, e non sono disposto a fare sconti a nessuno, neppure a chi cerca di fare (inutilmente) lo scalpo di un politico che non stimo, né ammiro e che giudico responsabile di buona parte del dissesto morale e sociale per cui "tutto è niente" e non si sa più dove stia di casa la serietà. Ma proprio per questo non posso permettermi di essere poco serio anch'io. Io voglio tornare a vivere in un paese diverso da quello in cui se voto questo sono bravo, se voto quell'altro sono colluso, mafioso o comunista, statalista o effemminato. Voglio continuare ad avere fiducia nei giudici, continuando a dire che è uno scandalo se i tribunali chiudono - come di fatto avviene - due mesi all'anno, con quel carico di arretrati che pende al collo di migliaia d'imputati in attesa di processo. Voglio continuare ad avere fiducia nella democrazia, sostenendo però che chi ha avuto più voti non può essere immune da leggi che valgono per tutti, compreso chi è eletto, fosse pure con un plebiscito. Voglio - più di ogni cosa - chiudere gli occhi e svegliarmi già domani, ma senza trovarmi io stesso cambiato, diverso, in qualche modo contaminato da questo tempo per troppi aspetti livoroso e perverso.


Foto by Leonora

sabato 5 marzo 2011

Francesco Somaini, scultore "in grande"

Timido e riservato nei rapporti umani, amava confrontarsi con l'immensità dell'arte che aveva dentro. Incontrammo Francesco Somaini il 29 gennaio del 1998, in una giornata tersa e gelida. Ricordiamo le sue mani, bianche come il marmo che scolpiva, e lo sguardo da miope, che tuttavia non perdeva un dettaglio di ciò che lo circondava. Lo apprezziamo più adesso del momento in cui l'incontrammo: il vino necessita di tempo, di decantazione, per diventare buono.

Come acqua di fonte. Gli occhi chiari. La naturalezza con cui spiega le cose. La limpidezza dei pensieri. Francesco Somaini, scultore, è come acqua di fonte.
Per descrivere e commentarne vita e opere i critici hanno scritto pagine su pagine. Arduo è aggiungere qualcosa al molto che è già stato detto, inventandoci per di più competenze che non abbiamo. Del resto, neppure lui pare abbia interesse a parlarsi addosso.
Pur avvezzo ad usare la parola, Somaini le preferisce il gesto. Il primato delle mani sulla voce si manifesta anche al momento delle presentazioni. Dopo lo scambio di saluti e nomi, lo scultore non ci dice chi è, ma ci mostra dove lavora e cosa fa. Quasi che il luogo del modellare e dello scolpire fosse chiamato a dare testimonianza dell’essenza piena e vera dell’autore. Il suo è un biglietto da visita che misura svariati metri quadri ed è composto da pietre, disegni, bozzetti, argani, ponteggi, paranchi, pompe, utensili. Il laboratorio non somiglia ad una vecchia bottega. Ricorda piuttosto una piccola azienda. Non è un caso. Francesco Somaini è un artista, ma soprattutto un professionista dell’arte. La differenza sta nel fatto che il primo con l’arte è in amore, il secondo con essa lavora e riesce pure a campare.
Essere professionista è per Somaini una necessità ("chi fa grandi sculture non può creare un’opera di quindici tonnellate e sperare di venderla. Bisogna esserne certi. Per farlo occorre predisporre preventivi, pianificare costi e ricavi, stipulare contratti, stabilire prefinanziamenti") e anche una virtù. Lo scultore discende da una famiglia di imprenditori e le origini di una persona significano sempre qualcosa. Il sole può cambiare il colore delle fronde, ma l’albero non dimentica la terra in cui affonda le radici.
"Mio padre possedeva un cotonificio e osteggiava la vocazione che avevo. Non giudicava l’arte una cosa seria. Per accontentare la famiglia frequentai il Liceo Classico a Como e mi laureai in giurisprudenza a Pavia, facendo nel contempo l’accademia di Brera. Realizzai le prime opere. Nel 1959 vinsi il Primo Premio Internazionale alla V Biennale di San Paolo del Brasile. Un riconoscimento inatteso, poiché vinto in precedenza solo da grandissimi, come Giorgio Morandi, mentre io ero il più giovane dei giovani in una delegazione che contava fior di maestri, come Burri, Consagra, Fontana, Minghuzzi, Pomodoro. Cambiò la mia vita. Feci mostre a New York, esposi nei maggiori musei americani e aggiunsi anche uno zero al valore delle mie opere. Ebbene, quando raccontai a mio padre del premio, mi rispose: “che gran venditore. Dai, vieni in ditta”.
Quando comprese di avere del talento?
"Da bambino. Avevo otto o nove anni e mio nonno mi portò in visita al museo Vela. Il custode ci mostrò una piccola acquasantiera con scolpita una testa di angioletto. Posso farla anch’io, pensai. E così feci".
Qualcuno oggi comincia dai muri o dai treni.
"Un gesto pseudo artistico, che è solo danneggiamento. Ogni volta guardo i dipinti sui treni con la speranza di vederne uno bello. Non mi è mai capitato. Sono volgari ripetizioni dei grafitisti americani di venticinque anni fa. Non c’è inventiva. L’arte non ha nulla a che spartire con il vandalismo che non rispetta persone e luoghi".
Ci stupiscono alcune immagini realizzate dal figlio Cesare (che fotografo d’arte è per mestiere, mentre la figlia Luisa insegna a Brera). Il padre è immortalato al lavoro. Somaini dalle fotografie non si riconosce. E’ celato da uno scafandro che lo fa sembrare un palombaro. Sbaglia chi lo pensa alle prese con martello e scalpelli. Per scolpire usa un getto di sabbia che esce da un piccolo ugello con la forza di dieci atmosfere, sollevando un polverone denso. Non lo vediamo all’opera, ma ce lo immaginiamo avvolto da una bianca nube, simile a quella che deve aver circondato il Dio creatore. E’ il destino di chi non si accontenta delle piccole cose e ha il gusto dei monumenti imponenti.
"Ho voluto sempre far cose grandi. Ho un’idea antica della scultura. Per me l’artista che fa delle cose minute ed intime, che parlano di sé, non segue la grande tradizione italiana, che di fatto si è immiserita dopo il Canova, nell’ottocento. Un segno dell’impotenza del nostro secolo, che ha paura di fare grandi opere. Ma cosa lasceremo noi? Le autostrade, le gallerie e poi? Ho sempre pensato che il destino della scultura è quello di arricchire le piazze, oggi come ieri".
Il contesto è però cambiato. Un tempo si abbelliva l’agorà, poi la cattedrale, oggi i supermercati. Paragone irriverente?
"Perché mai? L’ho sempre sostenuto e anche realizzato".
Con “La porta d’Europa”, davanti al Bennet di Montano Lucino, ad esempio.
"Venne Enzo Ratti e mi disse: “voglio l’opera tua migliore, la più importante che puoi fare”. Realizzai un bozzetto. Piacque tanto al committente da indurlo persino a cambiar nome al centro commerciale. L’idea che avevo era quella di rappresentare l’abbondanza e la carestia".
Non ne abbia a male, ma da lontano “La porta d’Europa” sembra un dolmen, quei massi che si vedono anche nei fumetti di Asterix.
"Perché dovrei prendermela? Sono soddisfatto quando un comune visitatore si pone delle domande su ciò che vede. I nemici della scultura sono coloro che dei monumenti non si accorgono neppure, troppo impegnati a correre, a fare e disfare. La mia idea è quella di realizzare opere che interroghino le persone e che la gente di buona volontà possa tentare di capire. Ecco perché ritengo necessario che l’opera contenga in sé un aggancio, un’indicazione, una traccia che rimandi al suo significato. La forma del triglite prende spunto proprio dai dolmen. Il motivo è semplice. La cultura delle grandi pietre, di cui si conserva la memoria nelle più svariate zone del continente, dall’atlantico al baltico, dall’Inghilterra fino alla Sardegna e a Malta, fu elemento unitario europeo più ancora dello stile gotico o romanico".
Come giudica la Como artistica?
"Una città abbastanza gretta, fatta eccezione per alcuni mecenati. E’ sempre stata provinciale, soffocata dalla vicina Milano. Como vivacchia. Negli anni ’50, quando aprii un piccolo studio, preferii il niente di Lomazzo al provincialismo di Como. Se si pensa che i disegni del Sant’Elia non sono ancora esposti".
Se le dicessero, scegli un angolo della città di Como dove mettere una tua scultura, quale sceglierebbe?
"L’ho già detto – sorride quasi con malizia, come un bimbo di cui è stato rivelato il luogo dove nasconde i dolci – Piazza Roma. Perché in fondo a questa piazza c’è un punto dove si vede il monumento di Piazza Volta. Questi due luoghi segnano la memoria della vecchia Como".
Che tipo di opera metterebbe?
"Un monumento ai nostri Maestri Cumacini, che per secoli hanno esportato arte e importato arte".
Si sente un po’ loro figlio?
"Certamente. Io mi ritengo mitteleuropeo, è tale è la mia scultura. Anche Como lo è, ma non si rende conto di esserlo, mentre sarebbe importante risvegliare in noi una cultura mitteleuropea".
Giorgio Bardaglio

E altre domande e risposte, mai pubblicate prima.

"Ogni scultura parla di sé. Per sé. E’ la pietra che, modellata dall’uomo, riesce a comunicare. Ogni parola che si aggiunge non è però vana. Non è facile realizzare una scultura per il pubblico. Quel che nel contesto urbano è un cumulo di sabbia scaricata da un camion, in una galleria d’arte diventa una scultura".
Como è una città bella?
"Lo è, ma sbaglia a pensarsi per questo turistica. Turistica è Lugano che, tanto per cominciare è rivolta a sud mentre Como guarda a nord. Poi non basta un pista da ghiaccio o un babbo natale che scende dal campanile".
Piazza Cavour?
"E' pericolosa per un artista. Da manuale è una piazza morta. Dove si instaurano le banche e le assicurazioni muore il tessuto urbano. La loro è una clientela frettolosa, di passaggio. Le amministrazioni precedenti avrebbero dovuto imporre le banche dal primo piano in su, lasciando il sotto per i parrucchieri, i bar, i ristoranti per tutte le tasche, anche i fast-food e le pizzerie. Piazza Cavour non ha niente perché la gente ci stia lì. Neanche la fontana del Bernini risolverebbe qualcosa. Dopo qualche mese si sarebbero già annoiati di vederla. Bisogna ricostruirne, magari rimpicciolendola, il tessuto urbano. Guardiamo piazza San Marco, a Venezia. Quanti bar ci sono? Non ho però certezze a riguardo".
Qual è il committente migliore?
"Quello che ha pazienza. In vita mia non ho mai chiesto una lira in più del pattuito. A volte ho avuto però bisogno di più tempo. Qualche volta sono stato anche accontentato".
E gli intermediari?
"Se posso ne faccio a meno. Si prendono almeno il 50% del ricavo, all’estero anche il 60".

venerdì 4 marzo 2011

La biblioteca di Lurate Caccivio sarà femmina


Speriamo che sia femmina. E infatti lo sarà, la nuova "biblioteca / centro civico" di Lurate Caccivio, appena il sindaco si deciderà ad aprirla, comprendendo non solo ch'è giusto averla lì, dov'è stata progettata. E sono certo che sarà così. Non solo perché lo stesso sindaco Palamara prima o poi capirà che ha solo da guadagnarci a tagliare il nastro e fare bella figura ad inaugurare un'opera che praticamente s'è trovato già bella e pronta, piuttosto che tenerla bloccata per anni, con la vaga promessa che "forse, magari, può darsi, probabilmente" fra tre anni ci rimetterà una parte della scuola elementare. Tanto più che, se fosse lungimirante, potrebbe lo stesso perseguire il suo disegno, aprendo la "biblioteca / centro civico" e impegnandosi ugualmente a ristrutturare tutto il resto, secondo ciò che lui pensa giusto, rimettendo poi ordine ai vari edifici una volta che potrà farlo per davvero e non promettendo promettendo senza garanzia alcuna che riuscirà a fare questo e quello.

In ogni caso, non è del sindaco che volevo parlare, ma di tutti quegli uomini e quelle donne che si stanno impegnando non per soldi, non per gloria, non per potere, bensì per una semplice idea che reputano giusta. Soprattutto le donne. L'ho capito ieri sera, tornando a casa tardi, notando sulla rampa delle scale tre enormi cartelloni e un cesto di volantini che Isabella, insieme ad altre amiche, ha distribuito stamane al mercato. L'ho capito perché bisogna avere fede in un principio e sapere di essere nel giusto se ci si alza presto e si dedica l'unica mattinata libera della settimana per restare al freddo, sotto la pioggia, a parlare con la gente, accettando di discutere e sostenendo le proprie ragioni senza timore di giudizio alcuno. L'ho capito perché so quanto sanno essere generose ma soprattutto ostinate le donne, che a differenza di noi uomini sanno cos'è il puntiglio e una volta stabilito l'obiettivo, raramente mollano la presa prima di raggiungerlo. E sono proprio le donne l'anima vera di una battaglia che non ha alcun colore politico ed è trasversale, va da destra e sinistra, andata e ritorno, affrontando una semplice questione amministrativa, che però riguarda il nostro paese, la comunità in cui viviamo, il presente e soprattutto il futuro. Ecco perché non invidio il sindaco, professor Rocco Palamara, che potrà pure essere cocciuto, ma su questo tema si gioca non soltanto la poltrona, ma anche il ricordo che lascerà della sua amministrazione, per generazioni e generazioni. Con qualcuno potrà pure fingere ch'è una questione di fazioni, con altri continuerà a sventolare la bandiera della nostalgia, ma alla lunga la questione rimarrà nella sua nuda semplicità: tagliare un nastro e prendersi un applauso, ripromettendosi di fare ancora meglio in futuro, oppure lasciare tutto com'è, mantenendo un edificio nuovo vuoto e cominciando una serie di battaglie con chi ha già l'elmetto in testa: i genitori delle attuali elementari, gli insegnanti, gli anziani del circolo delle bocce, che faranno le barricate quando capiranno che a breve saranno sfrattati, per allargare un plesso che ad oggi è perfetto per la biblioteca, ma troppo piccolo per la scuola. Senza contare il bilancio comunale in rosso, dove sarà difficile persino trovare i soldi per pagare gli stipendi ai dipendenti, figuriamoci reperire milioni e milioni di euro, lasciando nel mentre tutto paralizzato, sospeso. Ecco perché so che alla fine avranno ragione loro, le donne. Adesso o fra tre anni, quando si andrà a votare di nuovo. In ogni caso, per quando sarà inaugurata, propongo che l'aula magna della futura "biblioteca / centro civico" sia intitolata a tutte "Le donne di Lurate Caccivio". Se lo meritano, più di chiunque altro.


Foto by Leonora