lunedì 7 febbraio 2011

Gianni Clerici: una (vecchia) intervista

Sono grato a questo mestiere e in particolare ad Adolfo Caldarini, perché ho incontrato persone che altrimenti sarebbero rimaste lontane e di cui invece ho potuto cogliere almeno un riflesso, l'ombra. Ho deciso di ripubblicare su questo blog alcuni "incontri", pubblicati a suo tempo sul Corriere di Como e di cui non c'è più traccia in rete. Il primo in assoluto fu Gianni Clerici, scrittore e giornalista sportivo. Correva l'anno 1997. Era il 28 novembre.

Ci sono persone triviali anche quando pregano. Gianni Clerici non lo sarebbe neppure se bestemmiasse.
Giornalista, commentatore televisivo, romanziere, autore di opere teatrali, scrittore ("scrivo per conoscere me stesso") e altro ("sempre a che fare con le parole, però"), con un riguardo speciale per il tennis.
Lo raggiungiamo in una delle case che possiede, una sorta di studiolo collocato a mezzacosta, sul monte che sovrasta Villa Geno. Dalle finestre lo sguardo domina il primo bacino del lago. Non un caso. Scrutare dall’alto, distaccato, ma non lontano, è il suo destino. Che stia a Londra, Parigi o in via Torno, seduto su un aeroplano o su una tribuna.
Magro, più alto di quanto immaginassimo, il viso appena segnato dal tempo, Clerici non gesticola. E’ vivacissimo, ma misurato, nei movimenti quanto nelle parole.
Parla a lungo e la conversazione
avviene da sé naturalmente, come si fa la notte quando il giorno dilegua.
"Ormai rimango a Como pochi giorni all’anno. Meno di un’ottantina. La conosco veramente poco, mi sento uno straniero. Vado ancora in libreria, qualche volta in biblioteca, a Villa d’Este quando gioco a tennis. Poco altro. Passo per strada, esco in bicicletta".
Con tutto il traffico, è ancora possibile?
"Ma sì. Milano è peggio. E’ vero che non siamo ad Hannover e nemmeno a Parma, dove esistono splendide piste ciclabili. Una questione geografica e culturale. Como si trova circondata da pendii impegnativi e dall’acqua del lago, entrambi poco adatti per pedalare. E poi si ha sempre premura. Ma questo è un problema che non si esaurisce nel perimetro della nostra città. La fretta dei contemporanei è terribilmente contagiosa. Ho fretta anch’io".
La chiusura geografica della città ha a che fare con quella caratteriale di chi vi abita?
"Non saprei. Di certo i comaschi sono introversi. Uno dei maggiori esperti di letteratura tedesca, insieme a Claudio Magris, è Giorgio Cusatelli, che è professore, credo a Genova. Quando lo incontrai mi rivelò di aver insegnato a Como, per undici anni. Gli dissi: “e dove sei stato, che non ti abbiamo mai visto?” Rispose: “non mi invitava nessuno”. Questa caratteristica di chiusura esiste. E’ una società, quella comasca, che non accoglie facilmente. A meno che non si tratti del questore o del capo della Finanza, perché in quel caso si hanno porte aperte. Ed è giusto, una città mercantile deve coltivare buoni rapporti con le autorità".
In cosa si rende evidente questa vocazione mercantile di Como?
"In tutto. Basti pensare all’architettura. La nostra città è stata distrutta e ricostruita più volte, secondo le esigenze dei fondaci. Chi aveva la sua fabbrica, che andava bene nel ‘600, settant’anni dopo aveva bisogno di più spazio e la buttava giù. In uno dei pochi articoli che non mi hanno pubblicato spiegavo le connotazioni dei comaschi, facendo la distinzione tra “comacinus faber”, che sono in maggioranza, e “comacinus sapiens”.
La mia famiglia è sempre appartenuta ai “faber”. Mio nonno paterno commerciava vino, quello paterno tessuti, mio padre carburanti. Personalmente, invece, ho sempre avuto più affinità e amicizie coi “sapiens”, cioè con coloro che hanno interessi fuori dalla dimensione produttiva della città, senza per questo pretendere che siano migliori. E’ pure vero che anche tra i “faber” ci sono degli illuminati. Mi viene in mente Ratti, che non conosco di persona. Una volta andai a New York, a scrivere un pezzo per il “Giorno”, su una straordinaria mostra di abiti indiani, esposti al Metropolitan Museum. Alla fine vidi che lo sponsor era il signor Ratti. Ne sono stato molto onorato. Di questi esempi ce ne saranno molti altri, che però non conosco. L’ho ammesso, non sono un referente significativo, purtroppo sto troppo poco in città per conoscerla davvero".
Non le manca Como?
"No, no. Mi va molto bene tornare, quello sì. Si ama di più quando si è lontani. L’amore, quando c’è un riscontro di presenza continua, è meno facile che immaginarselo. Agli amici ripeto che, se non avessi passaporto italiano, l’Italia mi sembrerebbe un paese meraviglioso e straordinario".
C’è una notizia riguardante Como che l’ha incuriosita di recente?
"Ho visto che gli ultras della squadra di calcio sono stati molto cattivi a Livorno. Riscontrando incidenti in casa altrui, pensavo: a Como queste cose non succedono. Era un buon segno per la città. Ci differenziava in meglio da altri. I recenti episodi sono un segnale negativo, che andrebbe studiato a fondo. Magari raccogliendo il parere dei protagonisti stessi, perché non c’è di peggio che criminalizzare chi ha qualche tendenza criminale".
Qualcos’altro, magari di positivo?
"L’università a Como. Importantissima, come lo fu a suo tempo l’istituzione del setificio, perché contribuì a sprovincializzare, allargando il cerchio, attirando anche studenti stranieri. Una città non può definirsi tale se mancano scuole decenti e belle biblioteche".
Dimenticavamo, come mai non pubblicarono l’articolo sull’Homo Comacinus?
"Perché colui che me l’aveva richiesto, un tipo assolutamente sconosciuto, che lavorava per l’Alitalia, si indignò, pensando a me come ad un leghista e razzista".
Aveva ragione?
"No, ma chiunque viva in una città del nord di frontiera nasconde qualcuna delle caratteristiche del leghismo e del razzismo, inteso non come cattiveria, bensì come una sottolineatura marcata delle differenze tra persone provenienti da paesi diversi e una volontà di evitare commistioni".
Giorgio Bardaglio

P.S. Di questa intervista, compresi alcuni retroscena, ne avevo parlato in un precedente post. Lo trovate cliccando qui.

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