venerdì 31 dicembre 2010

In arrivo sul binario (Quattrocento)


Se fosse un binario steso, mi piacerebbe passare palmo a palmo la mia vita, per scoprire gli snodi che hanno determinato il punto esatto dove mi trovo. Martedì scorso ho visto "A Christmas Carol", il canto di Natale di Dickens, riproposto per l'ennesima volta al cinema. La scena che più mi ha colpito è quando, ricapitolando il passato, Scrooge si trasforma dal bravo ragazzo che è in un uomo cinico e avaro. "La cosa avvenne da naturalmente" come direbbe Hugo, sassolino su sassolino trasformato in montagna e di cui ci si rende conto soltanto quando il danno è fatto e di coraggio per tornare indietro non se ne ha più. Essere indulgenti con se stessi, sapersi perdonare, tenere a bada l'orgoglio, dare un colpo di spugna al passato (qualunque esso sia) e ricominciare talvolta da capo mi pare buon antidoto alla discesa a picco, che spesso sembra ascesa soltanto per un difetto di vista, un vizio di prospettiva.

Se fosse un binario steso, mi divertirebbe contare le coincidenze dei treni che - spesso inconsapevolmente - ricamano il destino di un'esistenza. Prendiamo oggi: è l'ultimo giorno dell'anno e il post che sto scrivendo è esattamente il numero quattrocento (contare per credere, ma forse vi conviene fidarvi). Ieri, per caso, mi sono imbattuto in un pulsante che consente di sapere quanti visitano questo blog, quali sono gli argomenti ritenuti più interessanti, da dove provengono i lettori occasionali o fissi. Quando cominciai questa sorta di diario pubblico, mi ripromisi di non badare alle statistiche e a null'altro che non fosse il mio interesse personale, l'istinto. Ammetto però che non è facile, che sarei impostore se negassi che oltre al mio, cerco anche il gusto dell'altro, di un lettore immaginario eppure esistente in carne ed ossa che decide di passare di qui per scelta oppure per caso. Eccolo che ritorna, il caso. Giusto in tempo per chiuderla qui: quest'anno ho già dato, l'anno prossimo vedremo. Quattrocento post sono assai più del libro che non ho mai scritto: sono oltre tre anni di vita, tenuti per mano.


Foto by Leonora

giovedì 30 dicembre 2010

Il secondo libro di Piperno

Sto leggendo Persecuzione, il secondo libro di Piperno. Un romanzo tutto preliminari e niente orgasmo. Pipperno.

mercoledì 29 dicembre 2010

La seconda possibilità


Camminare in riva al mare. Più spesso, non solo d'estate, scalzo, la sabbia sotto i piedi, annusare il vento e il sale, sentire le onde che s'infrangono a riva, tenersi per mano, coi calzoni risvoltati fino alle ginocchia. Cuocere pane nel forno a legna e carne alla griglia, anche d'inverno, mangiarla attorno a un tavolo senza paura di sporcarsi le mani e bere vino rosso, mosso, e ridere, ricordare, piangere, chiacchierare. Piantare nell'orto basilico e sedano. Vestirsi meno, meglio. Avere poca fretta e correre di più, tenersi in esercizio, guadagnare fiato ed elasticità di tendini. Andare a teatro e al cinema e a cena, con regolarità, come a un rito. Viaggiare, all'estero, mangiare brioche senza crema, in piccole piazze, sotto i portici. Inseguire un sogno, almeno uno, uno solo, grande, arduo. Puntare in alto. Tenere la porta aperta aperta, essere generoso, con spontaneità, senza fare ogni volta di conto. Capire l'utilità della talpa, che mi devasta il giardino, e convincerla a spostarsi un poco più in là, nel prato libero, dove non dà fastidio a nessuno. Accarezzare il mio cane, l'unico ch'è rimasto, dopo che l'altro, cinico di specie animale (in greco) e di fatto, ha scelto d'essere adottato e viene a farci visita ogni tanto. Essere schietto. Attaccare bottone con chi è sconosciuto, prestare attenzione a chi già mi è amico, non dare nulla per scontato. Farmi passare le arrabbiature in un attimo, evitando di mettere il broncio. Seminare bulbi di tulipano, nelle bordure, all'entrata di casa. Prendere più sole, con la protezione, in terrazzo, mentre ascolto musica e penso e leggo.

Chiudo così una lista breve e infinita insieme. Alcuni buoni propositi che ho appuntato qui, pro memoria per i mesi che stanno arrivando e che attenderò sveglio, tra poche ore, con un pensiero fisso: immaginare che non sia quello nuovo, ma ancora l'anno vecchio, che torna, ricomincia, mi concede un'altra possibilità affinché viva meglio i miei giorni, un giusto tempo.

Foto by Leonora

martedì 28 dicembre 2010

L'Io pe(n)sante


Ci sono persone che assomigliano al sole: brillano, splendono, scaldano, ma se ti avvicini troppo rimani scottato. Sono astri, spesso geniali, ch'è meglio osservare da lontano e a cui non voglio assomigliare, pur se mi rendo conto che i miei principali difetti sono evidenti proprio alle persone che mi stanno vicine, a cominciare dai famigliari. L'aggettivo che più mi si addice è "pesante". A Natale, ad esempio, ho fatto una testa quadra ad Isabella, colpevole di aver fritto una specie di ravioli, appestando la casa d'un odore sgradevole. "Va bene, ho sbagliato, ma ti rendi conto che me lo hai ripetuto mille volte! Praticamente ogni volta che mi hai rivolto la parola, oggi!". Non esagerava. Poi l'ho messa sul ridere, non smettendo però di ripeterlo, facendo scuotere la testa e sorridere gli invitati al pranzo natalizio. Quando m'impunto su un aspetto, un concetto, so essere insistente quanto detestabile. C'è di buono che me ne rendo conto, per cui evito il peggio, prendendomi in giro per primo. Il paradosso è che quanto sono esigente con chi mi è vicino, tanto risulto tollerante e comprensivo con gli amici, con chi conosco meno o il cui vincolo di parentela va oltre il primo grado. Una sorta di doctor Jekyll e mister Hide del pianerottolo. Faccio outing per ricordare lo sbaglio a me stesso, più che per espiare colpe che invece si sommano ad altri difetti, che rinuncio a scrivere per dignità e amor proprio.
P.S. Ho ricevuto una lettera di Beatrice. Me l'ha spedita a novembre, l'ho letta soltanto ieri l'altro. Non so chi sia e quindi non posso risponderle in privato, ma volevo dirle che ho apprezzato la fiducia che ha posto in me, confidandomi un poco del suo mondo privato.
Foto by Leonora

domenica 26 dicembre 2010

L'occasione buona


Pur preparato bene (senza fretta) il Natale è passato, come quelli che lo hanno preceduto e come quelli che lo seguiranno. E' stato però un tempo di pienezza e mi mancherà meno dei momenti che invece non vivo consapevolmente, rendendomi conto di quanto sono importanti quand'ormai non ci sono più, finiti, passati, pietra posata su pietra. Ho imparato così a tollerare l'assenza, ad accettare il fatto che il passato non torna e che ciò che è dato una volta mai arriva una seconda. La casa in questa mattina di Santo Stefano è un campo di battaglia, dopo che ieri una mezza dozzina di bambini l'ha trasformata in reggia. Ora è l'immagine del tramonto della festa, con le luci dell'albero spente, le scatole ormai vuote dei giochi disseminate dappertutto, i palloncini colorati mezzi sgonfi e palline di polistirolo resistenti a qualsiasi passaggio di aspirapolvere o scopa. Solo il silenzio porta dignità a questa mattina grigia, con il cielo fuori ch'è tutto una nuvola (adesso che ci penso, non vedo il sole da una vita). Sono comunque fortunato, ho delle ferie da smaltire e starò a casa quasi una settimana. Mi concentro, cerco di mettere in pratica la teoria, pensando al ben di Dio che potrò fare da domani in poi: alzarmi tardi, fare qualche giretto, leggere, stare in compagnia degli amici, la sera. Prima di archiviare del tutto questo Natale, volevo ringraziare le persone che hanno avuto per me un gesto, un saluto, un pensiero d'augurio. Vorrei dire che ha funzionato, che davvero è stata una bella giornata. Anche solo con un sms, un messaggio su Facebook, una telefonata, ho sentito persone che da mesi non vedevo o con le quali non sono in una confidenza tale da prendere e scriver loro o dire: "Piacere, sono Giorgio e anche se può sembrare strano di te mi importa". Natale invece è un'occasione buona ed anche per questo mi piace: invita a bussare alla porta senza preoccuparsi di avere qualcosa da dire, semplicemente per fare un augurio, per creare un contatto, per gettare un seme che a volte rimane tale, ma altre volte diventa fiore, sboccia.
Foto by Leonora

lunedì 20 dicembre 2010

Cinque giorni


Cinque giorni. Cinque giorni poi sarà Natale, lo stesso Natale di quand'ero piccolo e sul tavolo, la mattina, trovavo i regali portati da Gesù Bambino. Ritrovo quello stesso stupore negli occhi di Giorgia, che ha il candore nell'animo ed è affettuosissima, anche se Giovanni non scherza e neppure Giacomo, che resta un cuore tenero. Oggi hanno rotto l'enorme vaso colorato di ceramica, che per sedici anni ha fatto bella mostra di nelle case dov'è stato. Così stasera tutti a letto presto, senza tv, lasciando me qui, solo, con le luci dell'albero e i miei pensieri, tra i quali nego le domande sul futuro, su ciò che accadrà domani, preferendo vivere alla giornata, godendo di questa pace relativa ch'è l'assenza delle disgrazie che negli anni recenti ci hanno accompagnato. Però capita, alcune notti, di svegliarmi e di non riaddormentarmi subito, di rimanere a ruminare idee, finché il cervello è stanco e pur se insoddisfatto per le risposte che non ci sono, torna in letargo, attendendo un'altra scintilla, un altro tempo.

Un cruccio ulteriore è il lavoro, la preoccupazione di non fare abbastanze bene, di non mettere tutte le energie a frutto. A volte sono così confuso. Eppure, dopo due anni e mezzo al giornale, ho una dimestichezza con la "macchina" che non avrei mai immaginato e ancora passione, entusiasmo... E persone che stimo, a cui devo molto. Certe sere mi manca mio padre. Non tanto le sue parole, lo sguardo, quanto lo starmi a sentire, sapere d'esser ascoltato. Basta però con la tristezza, Natale è ciò che nasce, ciò che comincia, un giorno nuovo, guardare avanti e non indietro. Intanto è già un regalo accorgermi che mancano cinque giorni, far sì che non si presenti all'improvviso, senza che sia preparato, senza poterlo gustare appieno, al contrario di quand'ero bambino e bastava quel giorno e render lieto tutto un anno.


Foto by Leonora

sabato 18 dicembre 2010

La vita Felice (o Sulle spalle dei giganti - 2)


L'ho appena accompagnato alla macchina ed è stato uno stupendo regalo di Natale. Oggi è venuto a trovarci Felice, storico "rutamàtt" di Guanzate. "Rutamàtt" (rottamaio, per i diversamente lombardi) gli calza a pennello ma è riduttivo: ha tre tir, un capannone grande quanto due campi da calcio, gru, camion e mezzi vari con cui commercia rottami metallici.

Felice è un uomo mite, che ha cominciato a lavorare sodo quand'era ancora un ragazzino. L'ho conosciuto perché tra i suoi clienti c'erano anche Ambrogio e mio padre: loro si occupavano del dettaglio, lui dell'ingrosso, portando in ferriera il tutto. Quando d'estate salivo sui camion e entravamo nel suo magazzino, per scaricare i cassoni, si scambiava sempre qualche chiacchiera, in genere in tono di scherzo, ma anche seriosa. Ricordo che avrei voluto stare lì, ad ascoltare per ore, ma il lavoro veniva prima di tutto e rendeva asciutto il contorno. A gennaio Felice Luraschi avrà sessantacinque anni. Quando lo vidi per la prima volta ne aveva una trentina meno, ma aveva gli stessi occhi seri, poche parole, modi spicci e quella risata improvvisa da bimbo che scopre il dolce nascosto dietro e piatti, nella credenza. Oggi mi ha raccontato cose che non avevo mai saputo. Che era molto bravo a scuola, con memoria d'elefante e passione per lo studio. Dopo le medie, che negli anni Cinquanta erano già un lusso, voleva fare il liceo classico, ma il padre gli disse: "Non c'è qualcosa di più rapido?". Scelse l'istituto tecnico setificio, spegnendo senza una lacrima il sogno di diventare medico. Tre mesi dopo, la vita svoltò di nuovo. Suo zio, a quarantacinque anni, restò secco mentre caricava un camion. Infarto. Il padre di Felice rimase solo e non era cosa. Lui lo comprese da solo, andò a scuola ancora qualche giorno, poi restò a casa e disse: "Lì ho chiuso". Un professore andò a casa sua per dissuaderlo, per spiegargli che stava gettando al vento l'occasione del riscatto, lo prese perfino per il collo, scuotendolo. Non cambiò idea. "Sono stato contento così, Giorgio" dice ora guardandomi dritto negli occhi e aggiungendo: "C'era troppa miseria, bisognava dare una mano". Non s'è più fermato, neanche con il diabete che gli ha fatto passare anni in bilico tra questo e l'altro mondo. Ora può permettersi di lavorare di tanto in tanto, quando ne ha voglia. I tre figli e una figlia, insieme agli operai, mettono testa e braccia per lui, che ancora ha il pallino del gioco. Poco fa ha suonato al campanello, lasciando un pacco di Natale, con una bottiglia di spumante e un panettone. Non c'è anno in cui non ne abbia lasciata una simile per noi, sia quando mio padre si era ritirato dal lavoro, sia quando non c'è più stato. Per pudore e paura di disturbare la lasciava ad Ambrogio, mentre quest'anno l'ha fatto di persona e mi ha commosso. "Tuo padre aveva un bel carattere, era una persona di spirito" ha detto parlando a voce bassa, quando ormai era fuori casa e stava per aprire il cancello. "Sono stato contento di essere venuto a trovarlo qualche giorno prima che morisse. Io sapevo dell'infanzia di povertà, che non aveva avuto il papà, dei sacrifici che aveva fatto, eppure mi ha detto: "Felice, io sono stato fortunato, ho avuto quello che volevo, una famiglia, dei nipotini". Sapeva di essere alla fine, poteva lamentarsi della malattia, di doversene andare ancora così giovane e invece vedeva positivo. E' stata una lezione... E adesso basta, che quando lo dico mi viene una cosa, qui, allo stomaco". Una cosa allo stomaco è venuta anche a me, ma dalla contentezza di averlo veduto, perché è grazie alle persone come lui che ricordo che mio padre non è vissuto invano.

Foto by Leonora

giovedì 16 dicembre 2010

Nazione Traviata


Ieri sera sono stata al teatro Sociale di Como, dov'era in scena "La Traviata" di Verdi. Era il regalo di Isabella per il mio compleanno e anche la prima volta che assistevo dal vivo a un'opera lirica. Tralasciando le difficoltà iniziali da contadino in gita (sono stato almeno cento volte al Sociale, ma sempre per articoli o servizi, mai da spettatore, così sono andato avanti e indietro prima di trovare l'entrata del pubblico, mi sono perso nei corridoi, ingarbugliato con i vestiti, fatto ridere le "maschere": insomma, Toto e Peppino sbiadivano) è stato bellissimo. Mi sono emozionato a sentire quelle voci, ma mentre con le orecchie e una parte del cervello mi beavo, l'altra continuava a muovere quelle due rotelle che ci sono e m'è venuto in mente questo: possibile che in una nazione come l'Italia, la televisione pubblica non riservi almeno una serata alla settimana alla lirica? Perché non l'abbiamo mai fatto, perché abbiamo gettato al vento anni e anni in cui il patrimonio artistico e culturale poteva essere promosso e non trascurato. "Non l'avrebbe vista nessuno" è un'obiezione comprensibile ma non paghiamo il canone forse per questo, per non essere vincolati soltanto dall'audience, dalla dittatura del grande pubblico? Il teatro italiano, la lirica, sono un segno distintivo, un vanto. Per fortuna non sono tutte spine, c'è pure qualche rosa. Nonostante tutto, i teatri italiani non si spengono, lo Stato italiano, gli enti locali, le Regioni, trovano ancora le risorse per finanziare le compagnie, per dare fiato a ciò che altrimenti si estinguerebbe. Ma questo è un motivo in più per arrabbiarsi, perché con una mano il pubblico dà e con l'altra toglie, si pagano gli spettacoli ma poi non si mettono a disposizione di tutti, alla televisione ad esempio. Qualche trasmissione spot (su Rai Tre, se non ricordiamo male, il sabato sera, in terza serata) ma nulla di efficace, sistematico. Per fortuna, a differenza di Violetta, non è mai troppo tardi per una nuova vita.

Foto by Leonora

domenica 12 dicembre 2010

L'Angelo


Oggi, in redazione, il mio collega Mario è sbottato, accusandoci di un eccesso di retorica quando nei titoli mettiamo la parola "angeli". "Premiati gli angeli della Croce Rossa"... "Hanno ucciso un angelo"... Cose così. Io non ho detto nulla, ma un Angelo oggi l'ho incontrato davvero. Don Angelo, un prete che gestisce comunità per minori con l'associazione Agorà'97. Non ne avevo mai sentito parlare prima, me l'hanno presentato Paolo e Cristina e stamani, con Isabella, lo abbiamo conosciuto di persona. Ci ha ricevuto senza salamelecchi, andando subito al sodo, con quella praticità che quando studiavo alla Cattolica giudicavo con la puzza sotto il naso e poi, una volta picchiato il muso contro i problemi concreti, ho imparato ad apprezzare. L'associazione che dirige ha tre comunità e in una di queste, la casa di Gabri, ci siamo incontrati. Sono ospitati pochi bambini, con patologie molto gravi. In pratica, è una sorta di mini ospedale, travestito da dimora domestica, per accentuare un accoglienza che solo il contatto di tante brave persone riesce a dare. Gabri, ci ha raccontato Don Angelo, era un bimbo che fino a due anni e mezzo è stato ricoverato nel reparto di patologia neonatale, senza mai uscire, senza nessun contatto con il mondo. La sua sorte era segnata ma i genitori hanno tanto insistito, allestendo quella casa per lui. Gabri a Rodero è vissuto sei mesi, prima di spegnersi. "Almeno è stato accudito, ha guardato anche i cartoni animati alla televisione e non soltanto il monitor sanitario che aveva davanti al lettuccio. E' riuscito persino a vedere un cavallo, dal vivo!". E mentre lo diceva, Don Angelo, senza accorgersene, chiudeva e apriva le mani, come a fare "ciao", quasi certamente il gesto di Gabri, quando se l'è trovato innanzi quello splendido, gigantesco animale. Il resto della visita preferisco tacerlo. Lì ho toccato con mano tutto il dolore e insieme tutto l'amore del mondo.

Foto by Leonora

lunedì 6 dicembre 2010

Diverso da chi?


Cinque giorni a casa sono una manna nel deserto. Dovevamo andare a Venezia, dovevamo andare a Ravenna, dovevamo fare questo e quello. Nevica. Restiamo a casa, tutto il giorno. Per me il paradiso è questo, seppur in dosi omeopatiche, perché l'ozio è condizione ideale solo se guarnita dal "negozio", dal darsi da fare prima e dopo. Ci pensavo stamattina, nel dormiveglia. Lavorare è un ottimo modo per non pensare ad altro, per evitare di confrontarsi con problemi, dilemmi, persino angosce che vanno dal banale al profondo, dalle preoccupazioni pratiche (dove andare in vacanza, comprare o no una nuova auto, come tirare la fine del mese...) alle domande essenziali del perché il dolore, la sofferenza, la malattia, la morte, lo stare al mondo. Quesiti a cui non si sfugge se non appunto fuggendo. Un modo meno impegnativo per me è leggere, mettere la testa nei libri, sostituire all'universo reale uno immaginario, che tuttavia dura il tempo d'un mattino. Se poi l'argomento è interessante le stesse domande esistenziali tornano con prepotenza in scena, lasciandomi sospeso nel dubbio. Ma non è per questo che oggi scrivo. I telegiornali, in queste ore, danno notizia della ragazzina scomparsa a Brembate, in provincia di Bergamo. Sospettano un terribile omicidio e hanno fermato un marocchino. A Lamezia un giovane, sempre di origine marocchina, ha investito e ucciso sette ciclisti. Persino tra i miei contatti di Facebook le reazioni non si sono fatte attendere, tutte dello stesso tono: rimandiamo gli immigrati a casa loro. Non voglio aggiungere nulla, se non che - può piacere oppure no - casa loro è ormai la nostra. Punire chi sbaglia è giusto, perseguitare un'intera categoria solo perché proviene da un paese straniero è sbagliato. Lo era quando gli immigrati eravamo noi in Svizzera, in Germania, in Belgio, lo è allorché a immigrare sono gli altri nel paese nostro. A questo proposito sono orgoglioso del reportage realizzato da Dario Tognocchi e dal mio collega Stefano Ferrari, in via Milano alta, a Como. Un video che consiglio di vedere a tutti coloro che hanno a cuore la verità e il reale, contro ogni pregiudizio.

Foto by Leonora

sabato 4 dicembre 2010

Italia for preside


Oggi sono tornato al liceo, per accompagnare Giacomo all'Open day. Mi ha fatto un certo effetto tornare alla scuola ch'è stata la mia, anche se allora era una semplice sezione staccata del Giovio, mentre ora si chiama Terragni ed è autonomo al cento per cento. Sono stato incantato dalla preside, dal discorso che ha fatto, parlando con passione del proprio lavoro e con stima dei colleghi che l'affiancano. Mentre parlava pensavo non solo che l'Italia ha un futuro, ma anche che è un gran paese perchè nonostante il rumore dei numerosi alberi che cadono c'è una foresta immensa che cresce, un immenso polmone che dà a questa terra, alla nostra gente, respiro. Mi riferisco alla scuola statale, non perché sia contrario a quella privata. Anzi, penso che la competizione tra i due modelli sia ciò che consente a entrambi di migliorarsi. E' però alle statali che vanno tutti e tre i miei figli e non c'è giorno che non rimanga ammirato dalla qualità umana e didattica che viene offerta loro. Non è vero che si stava meglio quando si stava peggio. Da quando avevo i calzoni corti io, le cose sono migliorate moltissimo, c'è un'attenzione, una cura, che anni fa non esisteva. Mi hanno fatto piacere, nei giorni scorsi, i commenti all'ultimo post. Lo riprendo per ribadire un concetto che, nella sintesi, è rimasto solo abbozzato. Non sono contrario alla protesta per principio. Guai al paese in cui si è abituati a chinare il capo. Semmai, credo che suonare sempre il tamburo sia un pessimo modo per sostenere le proprie ragioni, ottenendo come frutto indifferenza, invece di partecipazione, comprensione, condivisione. Ritorno sul punto che per me è il nocciolo: non ricordo una riforma o un tentativo di riforma che sia stata accolta senza strepiti e urla. Mi viene in mente la parodia che a Zelig un comico faceva di Emilio Fede: "Attentato!!!", gridava. Eppure non è possibile che sia sempre tutto gramo. La preside che elogiavo prima e che si chiama Erminia Colombo, a un certo punto ha detto: "Per quanto riguarda i licei, la riforma Gelmini ritengo sia stata migliorativa". Volevo abbracciarla. Anche se la penso in maniera diametralmente opposta rispetto al ministro, anche se sono certo esistano parecchie storture. Eppure in un tempo di tifo e casacche, in cui o stai di qua o stai di là, ammiro fino a commuovermi chi conserva autonomia di giudizio, ragionevolezza, buon senso. E sa suonare il proprio spartito variando strumento, affiancando alla gran cassa anche il fluato dolce, l'oboe, il clarinetto.

Foto by Leonora

mercoledì 1 dicembre 2010

La contestazione


Lavarsi la faccia e far cadere le gocce; non ripiegare l'asciugamani e lasciarlo appallottolato; mettere l'accappatoio uno sopra l'altro sull'attacapanni; far cadere le briciole dalla tavola; posare i gomiti e le braccia sul tavolo, mentre si mangia; non riporre tazze e tovagliette dopo colazione e merenda; disseminare e abbandonare le scarpe sulle scale e i vestiti per casa; non spegnere le luci; non chiudere la porta d'ingresso... Do un taglio alla lista, che se ci pensassi un minuto sarebbe assai più lunga. Ebbene sì, appartengo alla lista dei genitori rompiscatole, anche se non sono mai stato un precisetti e ricordo perfettamente gli sbuffi di quando ero un bambino io e venivo ripreso a mia volta. Dev'essere una ruota che gira, anche se spesso a girarmi non è la ruota. Appartengo a una generazione che non ha conosciuto contestazioni. Appena nato nel Sessantotto, troppo piccolo nel Settantasette, ho vissuto al liceo quella che delle turbolenze di quegli anni era ormai la coda, sovente sfociata in pantomima (ad una delle poche assemblee d'istituto, allo Scientifico, dopo tre ore di verbosi ragionamenti - pippe, sarebbe corretto definirle - stavo chiacchierando con i compagni quando la ragazza di quarta o quinta che parlava si bloccò, preso uno sgabello di legno e ferro e ce lo scagliò addosso, urlando e inveendo). Per il resto nulla. Oggi vedo vent'enni che protestano, fotografie di ragazzi nascosti da un cappuccio, in mezzo ai fumogeni, frasi di fuoco indirizzate a questo e quel ministro... Soprattutto un ministro, la Gelmini, che dà nome a una delle tante riforme della scuola (da che mondo e mondo, non ne ricordo una che non fosse contestata, che non abbia fatto stracciare vesti a studenti e professori, che sia venuta da destra o da sinistra: ho smesso da un pezzo di dare credito alla protesta, a qualsiasi protesta sulla scuola, proprio per questo). Mi sono sempre domandato cosa sarebbe successo se fossi stato io genitore di quei ragazzi ribelli del Sessantotto, come mi sarei comportato, cosa avrei detto loro, come avrei reagito. Mi domando tuttora se un Sessantotto, un Sessantotto vero, tornerà mai, se capiterà che i miei figli appartengano a quel tempo, se contesteranno me e il mondo che ai loro occhi rappresento, se metteranno in discussione tutto, anche in modo violento. Do un'altra occhiata all'asciugamani appallottollato, in bagno. Resterà a lungo umido, messo così. La linea che distingue la pedanteria dal buon senso è sottile. Comunque vada, è scritto nel destino: rimarrò fino in fondo un borghese piccolo piccolo.

P.S. L'ultima frase è un omaggio a Mario Monicelli, che a novantacinque anni l'ha fatta finita gettandosi dal quinto piano. Per me invece rimarrà sempre affacciato a quella finestra di casolare, nel film "Il ciclone", con i ragazzini che lo salutavano: "Ciao Marioooooo"...
Foto by Leonora