lunedì 31 maggio 2010

Il punto di contatto


Angelo è tornato dagli Stati Uniti, i simpatizzanti di questo sito sono diventati trentasei, in settimana sono stato a Sestri Levante, domani comincia una nuova giornata di lavoro, vedo poco o nessuno che non sia legato al mio mestiere, Isabella se ne andrà in barca vela per cinque giorni da mercoledì, il tempo non ne vuole sapere di mettersi definitivamente al bello, oggi ho portato i bambini al cimitero (ci vado di raro, i morti mi piace portarli con me) e mio padre pareva sorridere proprio a noi, che lo guardavamo in quella foto scattata al matrimonio di Laura. Sono solo sette o otto cose su di me, che appendo qui come si fa con i panni appena lavati e le mollette. Ne ho omesso una, forse la più importante: ho finito "La messa dell'uomo disarmato", il libro di cui ho parlato in un precedente post e che ho letto con pazienza, assaporandolo appieno. Ne ho sottolineato qua e là qualche frase, gustandone il passo da romanziere vero e l'abilità nel dare un nome ad ogni cosa, ma soprattutto il culto del fare memoria la capacità di parlare al cuore, come se stesse scrivendo a me e per me soltanto. Non dico di più, lo lascio decantare sul comodino, attendendo il giorno in cui lo riaprirò su una pagina non a caso tornando a scoprire in quel poco la pienezza del tutto. Avviene anche con le amicizie: basta un nulla, un punto di contatto, perché i pezzi sparpagliati si rimettano insieme formando il tutto.
Lo scrivo per Angelo, ch'è tornato dopo tre mesi passati ad Harvard ad imparare cose e scoprire un'altra fetta di mondo. E anche per i simpatizzanti di questo sito, che ora sono trentasei, ma che si aggiungono alle moltissime conoscenze vecchie e nuove di Facebook: anche con loro condivido un'intimità, un percorso. E per Bruna, che ho incontrato passando da Lavagna mentre andavo a Sestri Levante: "La famiglia prima è un tana e poi diventa una trappola" mi ha detto, senza astio, serena e come sempre buona, mentre aveva accanto la mamma di quasi cent'anni che da dieci vive su una carrozzina e ch'è diventata delle sue giornate l'alfa e l'omega. E lo scrivo per i miei colleghi di lavoro, che sono diventati panorama fisso e devono sopportare le mie bizze, i nervosismi di colui che vede dritto il cammino e sopporta a fatica che gli altri ci inciampino, magari per troppa sua fretta di cambiare, di imprimere una direzione di marcia senza tenere conto del terreno, s'è liscio o accidendato. E per Isabella, che non passerà con me l'anniversario di nozze ed è più dispiaciuta lei di quanto lo sia il sottoscritto, che conosce i sacrifici che fa e che sa che qualche giorno di vacanza lo merita. E per l'orto, che non gode del protrarsi del freddo e l'insalata stenta a spuntare, nonostante sia ormai passata una luna dal seminato. E per i miei figli, che oggi ero così orgoglioso di avere a fianco -così già alti, belli, sereni - che dentro mi sentivo un pavone e mi pareva davvero che il loro nonno sorridesse, anche se da due anni e passa li vede con altri occhi, dietro il vetro di una foto. Lo scrivo per tutti loro, che messi assieme fanno anche il mio, d'un tutto.

Foto by Leonora

venerdì 21 maggio 2010

Cronos e Kairos


Non scrivo, ma è solo questione di tempo. Tempo che manca, tempo che sfugge, tempo. Il tempo. Cronos, che mangia i suoi stessi figli e scorre inesorabile, un granello di sabbia dopo l'altro. Ma per gli antichi greci il tempo non era solo Cronos, ma anche Kairos: il tempo giusto, il momento opportuno. E' lo stesso momento caro alla sapienza degli ebrei: "C'è un tempo per ogni cosa". Ieri è nata Emma, ieri è morto Gino. Gino era il papà di Sarah, Emma è la figlia di Antonella. Si sono passati il testimone senza che nulla li legasse, senza null'altro in comune che il giorno dell'andata e del ritorno. Era il loro tempo giusto e anche un po' il mio: di ricordarmi di loro, di farne memoria, anche se al cospetto dell'eterno è soltanto scrivere un nome sull'acqua: sapendo però che più forte di Cronos è Kairos, messo l'uno in fila all'altro.

P.S. Nel fondo della borsa, un poco stropicciate, ho ritrovato due lettere scritte a mano e giunte mesi e mesi fa. Una mandata da Beatrice, l'altra senza nome: senza volto entrambe, perché sono persone che non conosco, ma che leggono o leggevano questo blog e hanno avuto per me parole dolci e un pensiero affettuoso. Per tutto questo tempo ho rispettato il loro desiderio di riservatezza, che infrango soltanto perché, non conoscendole né avendo recapito alcuno, non ho altro modo per dire loro che la gentilezza e la purezza dimostrata nei miei confronti mi hanno reso orgoglioso e commosso. Chiedo scusa se ho aspettato fino ad ora: attendevo il tempo giusto.

Foto by Leonora

mercoledì 12 maggio 2010

La voce dentro


A ciò che ho scritto ieri, vorrei aggiungere poche righe, una postilla. Perché è dalla notte che ci penso ed è come se una voce insistente mi avesse fatto compagnia tutto il giorno, chiedendomi di allargare il pensiero per coloro che la mamma non ce l'hanno più o è malata al punto tale da riconoscere poco o nulla di ciò che accade attorno. Non conosco lo squarcio che si crea quando il cordone ombelicale è tagliato del tutto, anche se forse del tutto non è tagliato mai ed è per questo che si soffre un dolore tanto profondo. Non ho parole di consolazione e, dico la verità, ho esitato a lungo, cominciando questo post e rinunciando altrettante volte, nel timore di procurare soltanto altra sofferenza e spargere sale su ferite aperte. Ho pensato a Federica, che la mamma l'ha persa da poco, o Isabella, che sono passati quasi vent'anni eppure so, quando sento le sue lacrime nel letto, che ci pensa ancora, che le manca, che darebbe la sua stessa vita per poter tornare indietro, per guardarla negli occhi, tenerle ancora la mano. E ho pensato a Sabrina e a Raffaele e a Sonia, che non l'hanno persa del tutto, ma per malattia e destino beffardo conoscono un'altra persona rispetto a colei che li ha messi al mondo ed è un cruccio maggiore, perché brucia più uno strappo d'un taglio netto.

Se ho cambiato idea, se ho deciso di dare retta alla voce che avevo dentro, è perché - anche se non ci credo - a volte bisogna dare una possibilità di farsi sentire alle persone che non sono più a questo mondo. Portano un messaggio. E non so se l'ho capito bene, ma questa volta credo fosse dedicato a chi la mamma ce l'ha ancora e consistesse in questo: godetevela, non lasciate che il giorno scorra invano, gustate il dono del presente, senza aspettare che rimanga solo il ricordo o che, per parlarvi, dobbiate aspettare che un uomo distratto - che per giunta non ci crede - ascolti la voce di chi non c'è più e che dice di non disperare, che ci sarà ancora un'occasione d'incontro e insieme un tempo.

Foto by Lyonora

martedì 11 maggio 2010

Stabat mater


Tre anni. Sono passati tre anni da quando Gianni, per me l'unico zio, ha girato l'interruttore e ha lasciato che camminassimo da soli, restandoci sempre a fianco. Non ho memoria per le date, ma non dimentico i giorni passati e stamattina, quando ho aperto la mail, non mi ha sorpreso di trovare il messaggio di Arnaldo, suo collega e fratello, un amico come forse io non avrò mai, con tutto il rispetto per Angelo e David e Raffaele e Mauro e ogni persona a cui voglio un bene ricambiato. "Ti, nan", era la frase con cui esordiva sempre zio Gianni. Tu, ragazzo. Grazie ad Arnaldo lo sento ancora vivo e mi fa compagnia quando spengo la luce ripensando ai tanti momenti trascorsi insieme. Non mi manca per quello che abbiamo passato, bensì per non poterlo avere testimone ora, al mio, a fianco di una famiglia ch'è tale perché lui ha tessuto per anni trama ed ordito. Manca forse più a sua sorella, mia madre, che ha varcato la soglia di coloro che rivolgono alle spalle lo sguardo. Ieri l'altro volevo scrivere un post su di lei, su Anna. Era la festa della mamma, la sua festa, e m'è venuto in mente che lei non passa mai di qua, che non ha familiarità con il computer e non conosce i pensieri nero su bianco di suo figlio, di cui invece ritaglia con pazienza e nascondimento gli articoli di giornale, conservandoli chissà dove, senza clamore, con quello spirito di utilità che l'ha sempre distinta nel mettersi al servizio. In questo blog ho parlato spesso di mio padre, mai (quasi mai) di lei, che pure è l'altra metà della luna e che mi vuole più bene di tutti al mondo. L'unica che mi perdonerebbe tutto e, per la medesima ragione e radice, colei che più rimarebbe ferita dagli errori che faccio, che ho fatto. Ho vissuto intensamente gli ultimi anni con mio padre, con cui c'era più intesa intellettuale, mentre lei paga pegno alla naturalezza con cui mi è sempre stata a fianco, senza fare rumore, senza pretendere nulla in cambio. Così mi pare che sarà sempre e rimando troppo spesso momenti che non torneranno e di cui mi pentirò, ne sono certo, un giorno. Approfittando che non passerà di qua e non leggerà a breve ciò che scrivo, vorrei renderle grazie per non avermi voluto tutto per sé, per avermi messo sul trampolino di lancio e fatto in modo che diventassi adulto, indipendente, autonomo. Ricordo che quando ero piccolo e con un carattere introverso, mentre io desideravo solo trascorrere lunghi pomeriggi nella mia stanza, senza nessuno intorno, lei mi costringeva ad uscire, mi portava di peso all'oratorio, e accoglieva i miei coetanei con generosità, in modo che fossi circondato da amici e non crescessi asociale, avulso da ciò che accadeva attorno. Non è esente da difetti, in primis quel carattere serio che è tipico del comasco puro, ma ha cuore generoso e un bene maturato col cervello anche quando viene meno l'istinto. Volevo dirglielo, ho cominciato a scriverlo.

Foto by Leonora

giovedì 6 maggio 2010

Parole di vita


Dopo due settimane senza proferire verbo, tre post in tre giorni: benedetto equilibrio. Riprendo (metaforicamente) carta e penna, per l'urgenza di sviluppare un temino da niente: la vita. Sì, l'avevo detto anche giorni fa che in questo tempo da far orto prima o poi ci scappava la ramanzina sulle lezioni di madre terra. Chi sono io per privarvi di una simile gioia? Come potrei deludere questa vostra impaziente ed anelante attesa?

Prima che spuntino baffi e barba, vengo al sodo. Giorni fa, leggendo "La messa dell'uomo disarmato" (ho già detto che mi è piaciuto? E che l'autore, Luisito Bianchi, ha il passo dei grandi romanzieri? Beh, ce l'ha) sono incappato nel discorso che il vecchio arciprete fa al giovane protagonista. Il succo, letterale, è questo: "La vita non la si può fermare. Se io ti parlo è perché la vita ha la sua ultima parola anche sulla morte". Lì per lì m'è piaciuta subito, come frase, ma era una di quelle infatuazione di cui non si coglie pienamente il motivo e la cui verità si comprende d'istinto, sfuggendo invece alla ragione. E' stato masticando quelle parole con calma, mentre vangavo l'orto e poi mentre falciavo il prato e infine strappavo le erbe grame in giardino, che quel lampo abbagliante s'è trasformato in lume, facendo tutto chiaro attorno. E' un universo il nostro che sprizza vita e in cui la vita stessa ha sempre il sopravvento sulla decadenza, sulla morte. Ogni anno strappo le erbe grame e ogni anno si riformano, il prato che falcio cresce a prescindere da tutto, all'orto basta restare cinque giorni senza toccarlo che già nella terra dissodata spunta nuovo verde, lo stesso verde che si fa largo pure in un millimetro di crepa lasciata dal cemento. Vale anche per gli animali: le mosche tornano ogni anno, le formiche mai si fermano, la talpa ch'è caduta in trappola anni or sono ha lasciato posto a un'altra venuta da chissà dove ma arrivata precisa precisa all'interno del mio recinto. E i merli che fino ad anni fa abbondavano, sparendo poi con l'avvento delle cornacchie, ora hanno ripreso a fare bella mostra di sè, specie i maschi, con il becco giallo giallo e piume e penne di un nero corvino (merlino, sarebbe più corretto). Alcune specie animali o vegetali possono scomparire, ma altre ne prendono il posto e la cifra che ne deriva è un ribollire continuo della vita, un'eruttare (bel significato, brutto verbo), un suo esplodere ed espandersi a dispetto di qualsiasi caducità, della morte. "E' la vita che continua - si legge sempre in quel libro - a volte con strappi, sbandamenti, audacie non bene calcolate, ma sempre vita". Un buon pensiero, prima di addormentarmi, in pace con me stesso.


Foto by Leonora

mercoledì 5 maggio 2010

Il calcio secondo me



Lo sapete, se passate da queste parti, ogni tanto vi tocca leggere di calcio. Questa volta interisti inclusi, poiché cercherò di trarre il meglio di me e non essere (troppo) fazioso. Per chi il pallone dà noia, clicchi altrove e attenda il prossimo post, se non vuole farsi venire la bolla al naso.



  • L'Inter merita di vincere la Champions League (per me rimane la Coppa Campioni). Ha eliminato Chelsea e Barcellona, cioè le formazioni migliori al mondo e che non a caso si apprestano a vincere il loro rispettivo campionato. L'Inter è una vera squadra. I migliori per me sono Maicon, Julio Cesar, Cambiasso e Zanetti e, tra i nuovi, Sneijder senza dubbio. Però la chiave per capirne la grandezza è vedere Eto'o e Milito che all'occorrenza si comportano per intere partite come terzini, facendo tutto il campo avanti e indietro e diventando persino mastini, mordendo le caviglie dell'avversario di turno. Sono quindici anni almeno, cioè dai tempi di Vialli, Del Piero e Ravanelli nella prima Juve di Lippi, che non vedevo una cosa del genere. Tanto di cappello...

  • La Roma, che dovrebbe vergognarsi per come ha concluso la finale di Coppa Italia, meriterebbe di vincere lo scudetto. La qual cosa presumibilmente non si verificherà, ma il campionato che hanno fatto è encomiabile, anche perché sono partiti ad handicap e potevano contare su un potenziale pari alla metà di quello dell'Inter.

  • Leonardo, oltre ad essere un gran bell'uomo, per me è un buon allenatore. Se fossi Andrea Agnelli lo prenderei alla Juve.

  • Le squadre vincenti hanno il proprio punto di forza nella difesa: in Italia abbiamo il mito del bel gioco spumeggiante, ma le squadre dominanti hanno innanzi tutto una saracinesca dietro, a cominciare dal Manchester United, che Fergusson fa giocare da vent'anni allo stesso modo.

  • La Juventus ha pagato caro l'ansia di voler saltare le tappe e affermarsi subito. Ora tutti parlano di altri ottanta milioni di euro da spendere nei prossimi tre anni, ma ricordo che la Juventus vincente (al di là delle ironie e delle esagerazioni) era quella che spendeva pochissimo, o meglio, si autofinanziava con un mercato entrate - uscite oculato, cambiando spesso i campioni, in modo che arrivasse sempre gente nuova, con fame di vittorie e voglia di spaccare il mondo.

  • Rafa Benitez - colto, poliglotta, preparato - è l'allenatore avversario che più ammiro e nel contempo quello che non vorrei vedere sulla panchina della Juventus: in tanti anni ha vinto pochissimo. Speriamo che il mio sia uno sbaglio.

  • Ha ragione Zaccheroni: attenti a vendere i giocatori che in bianconero quest'anno hanno deluso. Pazienza, ci vuole come in tutte le cose pazienza.

  • Sono contento se la Juve ingaggerà Marotta, uno che mi sembra sappia il fatto suo, un "Moggi più presentabile" come mi ha detto ieri qualcuno.

  • Lippi, da fenomeno che era, è diventato l'allenatore più antipatico del mondo: arrogante e saccente, incapace di sorridere ed essere sereno, come dopo tutto dovrebbe essere colui che in carriera ha vinto tutto. Però sa il fatto suo e se riesce a creare quel clima da sfiducia totale fuori e dentro la squadra da fortino assediato, l'Italia non farà brutta figura al Mondiale. Ciò non significa che vincerà di nuovo, perché più di tutto conta il fattore C e la fortuna non sorride sempre allo stesso volto. Però non sarà imbarazzante. Importante è lo stato di forma fisica in quei venti giorni che contano e in quel caso l'età dei giocatori non conta. Vedremo...

Foto by Leonora

martedì 4 maggio 2010

Fratelli per dono ricevuto


"Che fine hai fatto?" mi chiede Wilma, proprio due minuti prima che mi metta al computer e riprenda il filo spezzato troppi giorni fa. Coincidenze. Anche se non avessi trovato il suo monito, oggi sarebbe stato il giorno in cui avrei scritto, perché forte è la pigrizia ma maggiore il desiderio, quasi la necessità, di mettere in fila qua i miei pensieri, nero su bianco.

Ho trascorso un fine settimana intenso e memorabile, grazie a Milan, un ragazzo di ventiquattro anni, alto due metri e con una faccia da uomo buono, che induce simpatia e rispetto. Quando l'ho conosciuto aveva poco più di dieci anni, era magro come un chiodo e aveva un viso già bello ma serio serio. Rideva pochissimo, però quando lo faceva era come se il cielo spazzasse via le nuvole d'un colpo e gli occhi gli diventavano sottili e s'illuminava in viso. Quel modo che ha di ridere è rimasto lo stesso, ma per spiegare come mai è tornato tra noi devo raccontare la prima volta ch'è arrivato. Era la metà degli anni Novanta e la guerra ha sconvolto tutto. Per lui, croato di nascita ma con sangue serbo, nel paese dov'era cresciuto con padre e madre e due sorelle gemelle più piccole non c'è stato più posto. La storia di quella notte del 4 agosto 1996 - in cui dovette chiudersi alle spalle in fretta e furia la porta di casa e abbandonare sua madre e le sue sorelle, mentre del padre non si sapeva nulla e sull'interminabile colonna di auto in fuga piovevano le bombe degli aerei croati - l'ho saputa solo adesso. Allora, quando venne con il gruppo di altri trenta bambini, ospitati da altrettante famiglie di Lurate Caccivio e del circondario, cavargli una parola era impresa che riusciva solo a mio padre, la cui pazienza era pari soltanto all'assenza di pressione che metteva su ogni interlocutore avesse a fianco. Milan, come ho detto, era magro e taciturno. Restò con noi tre mesi e poi altri tre, l'estate dopo. L'anno successivo fu mia sorella Laura ad andarlo a trovare, a Vrsac, una città tra il confine con la Romania e Belgrado, dove la famiglia si era ritrovata dapprima ospite di una zia, l'unica parente che fosse in grado di ospitarli, e poi per rifarsi una vita, un mondo. Con Milan abbiamo tenuto contatti sporadici, fino a un paio di anni fa, quando con l'aiuto delle nuove tecnologie le nostre strade si sono unite di nuovo. Venerdì scorso è tornato a trovarci ed è stato per noi un magnifico regalo. Lui è cresciuto in altezza e non soltanto. Mi sono commosso quando ha rivisto mia madre, l'ha abbracciata e dopo essersi seduto l'ha guardata negli occhi e le ha detto: "Anna, prima ero piccolo e non capivo, ma ora so, ho capito tutto", facendo segno con le mani come quando si disegna nell'aria e si chiude un cerchio.

Non so se ha capito tutto, perché il male è un abisso di cui è raro vedere il fondo, figuriamoci il senso. Certo Milan è un ragazzo saggio, che ha imparato sulla propria pelle ciò che a me stesso è stato soltanto narrato: la guerra, la fuga, il dolore, la miseria, gli stenti... Ne abbiamo parlato spesso, negli ultimi quattro giorni: mi sono fatto l'idea che da una simile tragedia si esca soltanto più disperati e rancorosi o più saggi e buoni. Lui ha avuto il merito e la fortuna di scegliere quella strada seconda. "Da due o tre anni stiamo bene - mi ha detto, con quell'aria compita da studente modello - perché mio padre e mia madre lavorano e anche io lavoro, ma prima è stata dura. Ora so che nella vita contano soltanto la salute e le persone a cui si vuole bene". Con i soldi che guadagna Milan riesce a mantenere se stesso agli studi e anche le sue sorelle, che vivono in un campus, a Novisad, studiando pedagogia l'una ed economia l'altra. Vorrei raccontare più cose del fine settimana trascorso, dei momenti passati con Isabella e i miei figli o con Laura, Roberto, Anna e Matteo, che sono stati ottima compagnia, trasformando in un campo fiorito anche il silenzio. Mi fermo qua, ribadendo quanto a Milan sono grato, per avermi ricordato che si può essere fratelli anche senza avere lo stesso sangue, ma per elezione e dono ricevuto.
Foto by Leonora