mercoledì 24 febbraio 2010

Pane e cipressi


Non butto mai nella pattumiera il pane. E non sopporto che venga posato capovolto sulla tavola. Comportamenti che mi sono stati tramandati dai miei genitori, cresciuti in un tempo in cui il cibo era sacro e non si conosceva abbondanza, se non di stenti e vita agra. Ci pensavo oggi, a pranzo, mentre mia madre diceva ai miei figli: "Con il pane non si gioca". Giovanni e Giorgia l'hanno ascoltata ma senza neppure guardarla, comprendendo di quella frase il precetto, non la ragione. Chissà se un giorno, tra quaranta o cinquant'anni, anche loro diranno ai nipoti di aver cura del pane. Chissà quante cose faccio io ora e che mi sono state trasmesse senza che, a differenza del pane, ne conosca il motivo, ne comprenda l'origine. Chissà quante cose si perdono da una generazione all'altra.

Passo di palo in frasca e non per modo di dire. Oggi parlavo con Sabrina dei cipressi. Ne ho voluti in giardino tre e lei, quando l'ha saputo, s'è scandalizzata. "Mi ricordano i cimiteri" ha detto. Lo diceva anche mio padre, che infatti non li ha mai voluto attorno a casa. Io però ho in mente la Toscana, i casolari, le colline ben curate, i lunghi viali, i prati... e i cipressi, così lineari, snelli, ordinati, eleganti. Mi spiace per mio padre e per la mia amica: per me i cipressi sono un tutt'uno con quella meraviglia dell'uomo, quei capolavori realizzati non con pittura e pennello, bensì seminando e piantando alberi, modellando non blocchi di pietra o creta, ma l'intero paesaggio. Sono orgoglioso dei miei tre cipressi, così come del "cornus" e dell'acero che fa intravedere già le gemme, anticipo di primavera nonostante il gelo. Sono piante piccole, è vero. Isabella brontola, perché le avrebbe volute già alte, robuste. Forse ha ragione, ma cresceranno, tenendo compagnia alle nostre giornate e insegnandoci la pazienza che noi, esseri con le gambe, non riusciamo più ad avere e neppure immaginare.
Foto by Leonora

venerdì 19 febbraio 2010

Polvere di memoria


Sessantasei persone, relatore incluso. Si parlava di etica e giustizia, questa sera, al mio paese, che conta diecimila abitanti e neanche un auditorium, una sala pubblica, accontentandosi dell'atrio di una scuola e di cinquanta sedie sparse, ma questo è un altro discorso. Comunque sessantasei persone sono molte, specialmente se fuori piove e fa freddo e restarsene a casa, al calduccio, è la prima opzione di qualsiasi essere adulto con del sale in zucca. Il relatore era Giuseppe Anzani, giudice al tribunale di Como e editorialista del quotidiano Avvenire. E' stato bravo, come sempre, un comunicatore affascinante, anche se per la prima volta m'è sembrato non al passo con i tempi, specialmente quando dall'analisi è passato alle proposte, ancorate a un mondo in cui sono le istituzioni e la politica a governare, mentre sono trent'anni almeno che questo sistema è in crisi.

C'è un altro aspetto che mi ha incuriosito: la registrazione audio e video dell'incontro e, insieme, gli appunti frenetici che prendeva qualcuno. M'è venuto da sorridere, pensando a tutte le volte che - ormai tanti anni fa - l'ho fatto anch'io. Dove sono finiti quei quaderni, dove le agende o i foglietti sparsi? In qualche scatolone, senza dubbio, pacchetti ben ordinati e conservati con cura, nei ripostigli di casa o in garage, con l'idea di riprenderli, prima o poi. Ma il poi non viene mai, non è mai ora e - lo so con quasi matematica certezza - rimarranno lì a fare polvere, finché anch'io me ne sarò andato e i miei figli o chi per loro caricheranno l'auto e porteranno tutto in discarica. Forse, adesso che ci penso, domani o dopo andrò alla caccia di qualche ricordo e caverò dai depositi quelle carte, sfogliandole anche, e commuovendomi persino, abbinando le parole scritte a situazioni, occasioni, circostanze dimenticate da un pezzo. Se anche sarà così - e non sono certo di farlo - sicuramente sarà un correre sulla superficie delle cose, lontano mille miglia dalle intenzioni visionarie e al tempo stesso miopi di allora. Mi rendo conto adesso di aver accumulato e accumulato appunti per fare memoria, come muratore che crede di essere previdente e posa con foga, senza pensarci, mattone su mattone su mattone, convinto di costruire una casa e infine si accorge che ha costruito per tutta una vita senza abitare un istante, senza godimento di dimora.

Non voglio sia così, anche se - a rifletterci bene - non è del tutto esatto. Lo comprendo se penso a questo blog, che tengo aggiornato proprio con l'intento di conservare memoria, in modo che un giorno io o i miei figli o chi mi conosce o anche chi di me non sa nulla, possa leggere e attraverso la lettura conoscere, condividere un'esperienza, una vita. Probabilmente non sarà così, probabilmente queste parole, proprio come quelle agende impacchettate nel cellophane, rimarranno lettera morta. Ma vive sono ora e, se anche non conoscessero meta, sarò sempre ad esse grato, perché è scrivendole che mi si sono illuminati di volta in volta il cammino, la strada.
Foto by Leonora

martedì 16 febbraio 2010

Questo è un uomo


Lungo è l'inverno. E freddo. Quest'anno più del solito, mi pare non abbia mai fine, in giardino c'è sempre neve e per quanto mi copra avverto gelo dentro. Non vedo l'ora di sentire il tepore di un sole vero, di tornare sul terrazzo, guardare il cielo la sera e vedere le foglie sugli alberi, mangiare all'aperto e restare in silenzio, ascoltando la natura che fa chiasso tutt'attorno. Pensieri che non avevo da bambino: dev'essere l'età che mi rende nostalgico. Anche stanotte non riesco a dormire. Mi capita da una settimana almeno, di svegliarmi nel cuore della notte e di non prendere sonno per un'ora, due. Però non è la veglia agitata dei tempi grami, quando mio padre era malato o al lavoro mi sentivo stretto e sulle spalle sentivo un peso, un cruccio. E' tempo quieto, questo, ma mi sveglio lo stesso, come se non conoscessi pace del tutto, come se il ribollire dei pensieri fosse condizione abituale, quasi un'urgenza di vita, di non sprecare attimi, consapevolezza di esistere davvero, senza abbandonarsi al sogno. Che sciocco. E' così bello sognare. Ma la ragione non accetta facilmente la condizione naturale, il primato dell'istinto. Così oggi, a differenza degli altri giorni, ho vinto la pigrizia e mi sono alzato, stanco di rigirarmi inutilmente nel letto e assecondando la molla che ha innescato il mettersi in moto. Ieri sera ho letto quasi per intero "La notte", un libretto di Elie Wiesel, che racconta lo sterminio del popolo ebraico e la sua personale esperienza, in campo di concentramento, ad Auschwitz, Buna, Birkenau. Mi ha fatto male dentro, facendo il paio con la visione del film "Il bambino con il pigiama a righe", che trattava il medesimo argomento e insieme ad Isabella e ai bambini abbiamo visto una settimana fa. E' un film poetico e crudo insieme e ho insistito perché Giacomo, Giorgia e persino Giovanni lo vedessero. Il male merita di essere conosciuto, un modo perchè - pur rimanendo senza senso - non sia passato invano. Non mi si venga a dire che è duro, che sono piccoli e sarebbe meglio risparmiargli finché sono più grandi l'orrore di quanto accaduto: avevano la loro età e anche meno migliaia di bambini caricati come bestie sui vagoni del treno, separati da fratelli e genitori, spogliati, uccisi, bruciati e diventati fumo in un camino. Farne memoria è il minimo. Quando è finito, ne abbiamo parlato due minuti e prima di mandarli a letto ho preso dallo scaffale il libro di Primo Levi, per leggere loro le parole magnifiche e terribili scritte in principio di "Se questo è un uomo". Non sono riuscito però, mi veniva il magone e pur se le avevo lette mille volte almeno, per la commozione il fiato non mi usciva dalla gola. Le ha lette Giacomo, per tutti, ma non mi sono vergognato della debolezza mostrata in quel momento, del silenzio strozzato di un adulto. Forse non era casuale, forse era un segno: ogni adulto dopotutto porta nella coscienza le stigmate dello scempio, anche se a quell'epoca non era nato, anche se non ha fatto nulla di concreto, e solo un bambino ha l'innocenza, la purezza di cuore per pronunciare quelle parole senza esserne schiacciato dal peso.
Foto by Leonora

mercoledì 10 febbraio 2010

A testa alta


Oggi ho fatto scorta di libri. Ne ho comprati nove, perché sono tornato goloso di letture e onnivoro, con gli scaffali domestici ormai sguarniti di novità. L'ultimo che mi è capitato tra le mani mi è piaciuto moltissimo e lo consiglio. E' edito da Fazi e s'intitola "Mia sorella è una foca monaca" di Christian Frascella (per chi ne volesse sapere di più, ha anche un blog, I fuochi di Sant'Elmo). C'è una vanteria che non ho pudore di nascondere: credo di riuscire a capire se un autore ha il passo, il talento del cavallo di razza, oppure se si tratta di dilettanti allo sbaraglio o mestieranti della penna. Frascella è un fuoriclasse, almeno a giudicarne l'opera prima, in attesa che tra un mese esca il suo secondo romanzo. Il primo ha per argomento un ragazzino che crede di picchiare duro, mentre è la vita che picchia duro lui ed è scritto in una prosa limpida e senza nodi. A proposito di giovani uomini e di coraggio, ieri un intero paese ha accompagnato al camposanto un uomo speciale, un educatore come ne esistono pochi. Si chiamava Carlo Negretti, per tutti Carluccio, e attraverso il gioco del pallone ha insegnato la vita a generazioni di calciatori, che ieri non hanno voluto mancare l'ultimo saluto. Carluccio avrebbe compiuto i settanta l'anno venturo ed era ammalato da molto tempo, ma non ha mai ceduto alla tentazione di abbandonare prima la partita, uscendo dal campo a testa alta, come pretendeva di vedere i suoi ragazzi giocare, come andrebbe sempre vissuta la vita.
Foto by Leonora

sabato 6 febbraio 2010

Viale del tramonto (sereno)


Non avendone molte, adoro le giornate di sabato in cui mi alzo senza aver nulla di preciso da fare. Nel pomeriggio, con Giacomo sono andato a far visita all'insegnante di matematica e scienze che avevo alle medie. Si chiama Carolina Valsecchi, ma per noi sarà sempre la professoressa Taborelli, che ora è in carrozzina, accudita in una casa di riposo, pur se la grinta e il piglio sono gli stessi, oggi come allora. Appena entrato mi ha riconosciuto e dopo avermi salutato ha squadrato dalla testa ai piedi mio figlio, dicendogli: "Tuo padre chiacchierava sempre, aveva una parola da dire su tutto, tanto che gli dicevo: tu devi fare l'avvocato delle cause perse, così le vinci tutte!". E' vero, me lo diceva. E non solo quello. In scienze me la cavavo egregiamente, ma in matematica ero un asino, per lo più svogliato, tanto che in terza media fu chiara con i miei genitori. "Giorgio non può continuare a studiare, non ce la farà mai - disse loro - al massimo due anni di scuola professionale". Si sbagliava, ma gliene sono sempre stato grato, perché senza scogli le onde non riuscirebbero a salire tanto in alto e lei fu per me quella roccia, quel masso. Vuoi per orgoglio, vuoi per spirito di contraddizione, è anche pensando a quelle parole che ho sempre tenuto duro, prima al liceo, poi all'università, infine sul lavoro. Oggi però non gliel'ho detto, ho preferito rimanere in ascolto, apprezzando la vivacità mentale che ha conservato, nonostante l'età e un ictus. Mi ha fatto sorridere, riflettere, commuovere persino, quando mi ha detto che non ha più voluto passare nella casa della Malpaga, a Lurate, dove ha trascorso una vita e che alla fine ha venduto. Così rimarrà sempre come l'ha vissuta, nel ricordo. Gli occhi azzurri però sono tornati a guizzare un istante dopo, quando mi ha parlato dei cinque nipoti. "Sei - mi ha detto - perché una s'è sposata e ora è mio nipote anche il marito". Ci siamo salutati dopo un'ora, con la promessa che tornerò a trovarla di nuovo. E' stato un bel pomeriggio.


Foto by Leonora

venerdì 5 febbraio 2010

Crescerà, ancora


Torno da una cena in compagnia di tutta la famiglia, per il compleanno di Giorgia, che oggi compie dieci anni e a tavola vuole assaggiare tutto, insaziabile d'occhi più che di gola. Tra qualche anno avrà altri giri e priorità differenti che il suo papà e la sua mamma. Non mi spaventa, né questo pensiero mi dà noia: so che è il cerchio della vita e farò di tutto per non diventare patetico, aggrappandomi all'idea di lei bambina. In questi giorni non riesco a togliermi dalla testa le due figlie di Alberto Arrighi, l'uomo che lunedì ha ucciso Giacomo Brambilla. Due bimbe più o meno coetanee della mia, che da tre giorni hanno lasciato Como, la loro casa, la loro scuola, i compagni di giochi e che si troveranno a diventare grandi per forza, doccia d'acqua gelata a cui non c'è alternativa. Le penso spesso anche al mattino, quando Giorgia dopo essersi vestita viene nel mio letto e resta un minuto con me sotto le coperte, avvinghiata e infreddolita, prima di darmi un bacio sulla guancia e dirmi: "Ciao papà, ti voglio bene".

Penso che sono fortunato, ma anche ai miei sbagli, alle debolezze d'uomo che lasciano un'impronta, all'immagine che restituisco di me e alla saccenza che a volte ho, nel giudicare l'altro senza camminare - per usare un'espressione dei pellerossa - nei suoi mocassini neanche una luna. Vorrei far mie le virtù di prudenza e temperanza e usare la gomma per cancellare i gesti che hanno recato dolore alle persone che ho urtato, salendo le scale della vita senza sospettare che esistesse una discesa. Non sono pensieri tristi, semmai un riconciliarmi con una dimensione più profonda della corsa quotidiana, un guardare negli occhi ciò che a volte mi turba e che proprio per questo accantono, senza riflettere che proprio il non affrontarlo lo ingigantisce e mette assai più paura. Basta però un sorriso di Giorgina per spazzare via le nubi e lasciare pace, che - come diceva Victor Hugo - non è altro che la digestione della felicità.




Foto by Leonora