giovedì 26 novembre 2009

Dare volto e nome


Non uso quasi mai abbreviazioni per chiamare qualcuno. E ho poca simpatia per chi lo fa, con un'eccezione bonaria per Mauro Migliavada, a cui viene spontaneo, quasi una seconda pelle (in redazione a Espansione Tv, se sentivo: "Ciao Cinque", sapevo esser lui che parlava al telefono con l'assessore Cinquesanti). Mi piace poco nella lingua parlata e meno ancora in quella scritta. Quando sul "Foglio" o sul "Giornale" o su "Libero" leggo titoli di questo tenore: "Il Cav. non ne vuole sapere di mollare" o, ancor peggio, "Il Gius e quei ragazzi della Barona", giro volentieri pagina. Nemmeno i soprannomi mi entusiasmano. Ancora ancora quelli di paese, che esprimono una caratteritica, un'appartenenza (il "Gigi gemell" o "l'Ambrogio stràscee", per non parlare del "Arturo Verdùra" o del "Luigi Pùlan, ch'è appena morto). Detestabili, per me almeno, i vezzaggiativi o i nomignoli, che ho sempre associato a famiglie nobili o ricche o aspiranti all'una e all'altra condizione e che abbondano di "Lulli", "Lolli", "Chicca", "Pachi", "Tessi"...
Mi piace ciò che ha scritto da qualche parte Erri De Luca: dare nome alle persone e alle cose è un dono divino ch'è concesso all'uomo. Dice De Luca: dare nome; non ridarlo, cambiarlo, modificarlo.
Scrivo queste cose al buio, mentre ascolto "Scenes of an Italian restaurant" di Billy Joel e Giorgia (lei è un'altra eccezione: ogni tanto la chiamo Giorgina) dorme qui accanto, stringendo l'orso polare di stoffa che le ho regalato sabato scorso. L'ha chiamato Aleph, ch'è la prima lettera dell'alfabeto ebraico e il titolo di una raccolta di racconti di Jorge Luis Borges. Gliel'ho suggerito io ma a lei è subito piaciuto e, per dare un tocco che lo facesse sentire più suo, gli ha messo attorno al collo un foularino molto frou frou, bianco e nero. In questi giorni aggiorno raramente il blog, al lavoro tra malati e ferie da smaltire siamo rimasti in pochi (in cronaca, tre su sette) così i ritagli di tempo libero si assottigliano. So che sabato sera ci sarà un raduno dei blogger di Como. Io sarò di turno al giornale ma spero proprio di riuscire ad aggregarmi almeno per il dolce. Ogni volta che ci sono andato è stato un ricaricare le pile, un sorprendermi nel trovare persone così normali e così straordinarie insieme: incontrarle è dare alla speranza e all'ottimismo un volto, oltre che un nome.
Foto by Leonora

giovedì 19 novembre 2009

Sì, viaggiare


E' bastata una domanda, oggi, per indurmi a sognare. Sognare ad occhi aperti, cioè mettere la freccia e lasciare che in corsia di sorpasso corra l'immaginazione. L'ho già scritto qui una volta: debbo a mio padre, che un sognatore è stato per quasi tutta la vita, il dono di esserlo anch'io, pur se sovente me ne scordo e metto in fila giorni dopo giorni da perfetto ragioniere, senza alzare gli occhi da terra neanche per accorgermi se dove sto andando è un bel posto oppure vi sbatterò il muso, rendendomi conto troppo tardi che il tempo guadagnato in realtà era perso.

La domanda era dove vorrei vivere. Ho risposto nei paesi scandinavi, in Germania, in Irlanda anche e nella Francia del nord. Vivrei in tutti quei posti, ma d'estate. D'autunno mi trasferirei in Connecticut, dove i colori in questa stagione mozzano il fiato. In Connecticut o nel Massachusett: una bella casa di legno bianco, affacciata sull'oceano atlantico, con una vetrata ampia e un terrazzo e... il caminetto. Sì, il caminetto con stesa la pelle dell'orso. D'inverno invece Caraibi. Antille Olandesi. Ma anche Maldive. Dicembre alle Antille, gennaio Maldive, febbraio in crociera dal Venezuela a Cuba, con ritorno a casa a Natale e per sciare al primo dell'anno, che non c'è in giro nessuno. E in primavera? In primavera ogni settimana una grande città: Madrid, Praga, San Pietroburgo, Edimburgo, Palermo, Istanbul, Copenaghen, Amsterdam, Cordoba, Budapest, Helsinki, Lisbona...

E ora me ne andrò a letto, sognando questo vivere un po' qua e un po' là, proprio come facevo da piccolo, quando mettevo la testa sotto il cuscino e immaginavo di diventare un giorno esploratore o di arredare il bagno in modo che potesse diventare un modulo autosufficiente se fosse stato lanciato come navicella nello spazio...
Foto by Leonora

mercoledì 18 novembre 2009

A zonzo (sui cani, blog e dintoni)


"Chi me lo fa fare?". Se lo chiede Fuma, nei commenti al post precedente sul tenere un blog. Di fatica, delusioni, frustrazione parla anche Toto, autore di uno dei miei blog preferiti, che da scienziato qual è m'inquieta, sollevando il dubbio che tra cent'anni queste lettere possano rimanere impresse oppure disperdersi, granelli di sabbia che avevo scambiato per granito. Ricaccio i timori e mi concentro sul presente, scoprendo ogni giorno una sorpresa. Il blog di Andrea, ad esempio, che trasforma un amico di vista in compagno di strada. Lo abbino alle molte informazioni dei contatti in Facebook, che nella mia personalissima dimensione digitale ha affiancato il blog, senza sostituirlo. Nei social network (Facebook, ma anche Twitter, che "non mi finisce ancora di piacere", ma che Alessandro e Elena mi consigliano da un pezzo) trovo una dimensione più orizzontale, più relazionale, mentre qui prevale la profondità. La tiro lunga, andando a zonzo, perché sento il desiderio di scrivere ma non so bene che cosa. Perciò mi faccio guidare dall'impulso, dallo scoccare di una scintilla, ignorando se produrrà fuoco oppure non resterà che fumo. Spesso è così, anche nella vita: abbiamo il mito del progetto, ma quasi sempre è il destino, il caso a condurci per mano, a farci conoscere persone, a combinare situazioni, a far sbocciare occasioni. Pensavo ieri che da piccolo, dalle elementari fino alla scuole medie, diciamo, volevo fare il veterinario. Un desiderio nato non per caso: m'era morto il gatto (non per modo di dire, sul serio: una femmina di gatto, nera, elegantissima, ch'è durata poco più di un anno, finché era caduta nella bocca del cane del vicino) e nessuno era riuscito a curarla, perché a quel tempo di veterinari ce n'erano pochi e curavano per di più vacche da latte o maiali da riproduzione e di gatti e di cani ce n'erano un sacco e se non stavano bene li si toglieva di mezzo, portandone a casa un altro. Perciò volevo fare il veterinario, perché adoravo il libri di James Herriot e quando doveva nascere un vitello, nella stalla del Giovanni Bassi, mi chiamavano per legare i piedi del nascituro e tirarlo fuori, aiutando la mucca a sgravare, come da millenni fa l'uomo. Non ricordo l'esatto momento in cui compresi che non sarebbe stato il mio lavoro, che non avrei studiato per quello, fu un distacco graduale ma netto. Meglio così, non sarei stato gran che. E anche adesso, che pure potrei permettermelo, non ho animali, se non i due cagnolini (Ibis e Anubi) che mi ha lasciato in eredità mio padre e Silvio, il canarino che ha il privilegio di restare in casa, di notte, in inverno. Forse però un giorno ricorderò quand'ero bambino e tornerò magari quel Giorgio che sono stato, che ha pianto per le bestie che ha perduto e a cui era affezionato. Forse un giorno, quando smetterò di correre e troverò tempo per accudire per bene il prato e l'orto e il giardino, mi regalerò un bel cane, un pointer, mi piacerebbe, a pelo raso, da tenere sulle ginocchia e accarezzargli la testa e le orecchie, sentendolo respirare affettuoso.
Foto by Leonora

martedì 17 novembre 2009

Pensa un blog


Causa ferie, riposi, permessi, assenze e malattia, in redazione siamo ridotti all'osso, ma talmente all'osso che anche a bollirlo nell'acqua non fa brodo. Ce la caviamo lo stesso, aspettando che passi la bufera. Lo preciso, per giustificare il mio passare qui di rado: il tempo libero s'è ridotto ai minimi termini eppure al blog ci sono affezionato. Anche i post non sono pochi, credo quasi trecento, alla faccia di chi credeva - io per primo - che avrei mollato la presa tanto tempo or sono. Non è soltanto un punto d'orgoglio, scrivere post è starmene in compagnia di me stesso e, nel medesimo tempo, socializzare, trasformare il privato in fatto pubblico. Perciò m'è venuta un po' di tristezza, oggi, quando per caso sono tornato a curiosare tra i blog che un paio d'anni fa erano uno scoppio di vitalità e che ora giacciono più o meno abbandonati, cimitero o corsia d'ospedale d'un circuito interrotto. Ricordo lo stupore del primo pizza blog a Como, il piacere d'incontrare persone meravigliose, ricche dentro. Mi consola l'aver tenuto con la maggior parte di loro un dialogo, pur se a macchia di leopardo: so però che ci sono e ogni tanto li cerco e li trovo e loro fanno con me lo stesso. "C'è un tempo per ogni cosa" recita il Qoelet: c'è stato quello della fioritura, dello sbocciare, e c'è ora quello della conserva, dell'assestamento. I blog non sono la rivoluzione del futuro, ma neppure una parentesi chiusa troppo presto: li considero un vettore, la locomotiva d'un treno, e sbagliava che vedeva in quei vagoni il tutto, dimenticando che importante è cosa c'è dentro, ma commette un errore pure chi ha archiviato il tutto come l'ennesima moda destinata all'oblio. La base s'è allargata, l'opportunità di esprimere il proprio pensiero s'è ampliata all'infinito. Ciò che in passato era privilegio di pochi, oggi è alla portata di tutti e se è la goccia che scava la roccia, in questi anni assistiamo a una cascata continua, i cui effetti sono dirompenti. Pensiamo alla memoria che non va persa. Pensiamo alla condivisione delle esperienze. Una rivoluzione epocale, paragonabile - per portata - all'invenzione della scrittura e poi della carta stampata e all'istruzione di massa. Penso se avessi avuto la fortuna io di poter leggere ora ciò che pensava cent'anni fa mio bisnonno o il suo trisavolo: tra cent'anni un mio bisnipote o qualunque essere umano potrà leggere questo blog e farsi un'idea di chi sono, di chi era lui quando non era che un'elica genetica celata in un maschio adulto. Certo, nell'alta marea delle informazioni è facile annegare, ma è altrettanto vero che coltivare la virtù del discernimento è meglio che camminare al buio, nudi, nel deserto.
Foto by Leonora

venerdì 13 novembre 2009

Una maglia troppo lunga


E' tardi, sono stanco, mi fa male il collo per il troppo tempo passato davanti al computer e domani sarà una giornata lunga ed ardua. Prima di spegnere tutto c'è però un cruccio, un nodo che se non tento di sciogliere qui mi farà girare e rigirare nel letto. Oggi è morto il bambino di origine senegalese che non si sa ancora perché è stato male, è caduto in bagno e dall'altro giorno, la vigilia del mio compleanno, non s'è più ripreso. Kader aveva sette anni e andava a scuola con mio figlio Giovanni e insieme con lui giocava a calcio, nella squadra del Csi, all'oratorio. Lo conoscevo bene perché suo fratello Sheriff di anni ne ha dodici e a pallone era compagno dell'altro mio figlio, Giacomo. Il papà e la mamma di Kader e Sheriff sembrano usciti da un romanzo: alti, eleganti, regali persino. E con un sorriso buono, di chi domanda per ogni cosa "permesso". Non riesco neppure ad immaginare cosa proveranno stasera, non ho coordinate di spazio e di tempo per dare forma e misura al vuoto che d'ora in poi avranno dentro. Penso a loro, a Sheriff e a Ciccio, l'allenatore della squadra di calcio, che per i bambini è come un padre e a cui la vita aveva già portato via un figlio. Penso a quel bambino smilzo, dalle gambe lunghe e il sorriso bianchissimo, che qualche settimana fa ho visto per l'ultima volta giocare felice, allegro. E' così che lo voglio ricordare, mentre insegue un pallone, con una maglia troppo lunga, serenamente ignaro del dolore e del destino.

Foto by Leonora

martedì 10 novembre 2009

Nel mezzo del cammin di nostra vita


Dieci novembre, il mio compleanno. Ho ricevuto un bastimento carico carico di auguri sia di persona, sia via mail, sms e Facebook. In molti casi ho ringraziato, per gli altri recupererò, cercando di restituire una pensiero a ciascuno. Qualcuno che mi aspettavo si ricordasse non è pervenuto, ma non ne faccio un cruccio né porto il muso: non ho prime pietre da scagliare essendo io stesso pigro o sovente distratto. Non mi sento vecchio però e, come ho scritto in altre circostanze qualche giorno fa, non vorrei tornare bambino, in un'età in cui il lupo delle favole era meno reale ma assai più terribile degli ostacoli che incontro adesso. Certo, da adulto non c'è scampo alla sofferenza della malattia, della morte persino, ma è un dolore nudo, spogliato delle ombre che quando ero piccolo rendevano angosciante pure un inciampo minuscolo. E poi quando mi guardo allo specchio mi vedo più brutto di qualche anno fa, ma nel contempo più consapevole di me stesso, più sicuro, meno fragile. La vita è stata una fucina ed un tornio e la montagna dei giorni, vista da quassù, terminata l'ascesa della giovinezza e appena iniziato il pendio del tramonto, mi pare maestosa, imponente, rigogliosa, splendida. Pur avendo molto cammino da fare, ho imparato a considerare nessun pensiero certo e lasciare che tutto sia filtrato dal dubbio. Vale per i gusti banali del vivere quotidiano e per i grandi temi tipo: chi siamo, dove andiamo ("Ci sarà posto?" aggiungeva Woody Allen). Prendiamo la politica. Per fedeltà al mestiere che metà mi sono scelto e metà m'è capitato in dono, a priori non prendo la parte di nessuno, cercando di distinguere in ognuno il buono dal gramo. Unica stella polare: fare al potere il contrappunto: s'è bianco diventare nero, s'è rosso azzurro, senza cadere nel "è giusto" o "è sbagliato" a prescindere. Non avendo interessi da difendere, né padroni da adulare nella speranza di avere più soldi o più potere, scrivere ciò che mi pare, che ritengo giusto, non è atto di eroismo, bensì fare il proprio dovere impiegatizio. Sono grato piuttosto a chi me lo permette, sapendo per esperienza che non è privilegio scontato.

Quante chiacchiere. Pensare che mi ero collegato soltanto per scrivere una parola: grazie. A chi mi ha fatto gli auguri e anche a chi passa da qui e condivide i miei pensieri, facendomi ogni giorno un regalo.


Foto by Leonora

sabato 7 novembre 2009

Tre giornalisti in gamba


Sono un giornalista fortunato: ho colleghi che valgono molto. Oggi sono stato a Milano, perché al Circolo della Stampa premiavano Gisella Roncoroni, mia compagna di redazione a La Provincia e autrice dell'inchiesta sui rimborsi chilometrici all'amministrazione provinciale, che ha portato l'assessore Cattaneo a patteggiare in tribunale e ad abbandonare l'attività politica. E quell'inchiesta è soltanto la punta dell'iceberg, perché nessun altro più di me conosce il lavoro che fa Gisella, l'impegno che mette e la dedizione con cui si applica a un mestiere che in lei è al cento per cento passione, missione persino. Due altri riconoscimenti sono andati a cronisti comaschi che hanno lavorato con me fianco a fianco: Annalisa Corti, a Espansione Tv e ora a TeleLombardia, e Andrea Galli, al Corriere di Como e ora al Corriere della Sera. L'ho detto che sono stato fortunato. E da loro, da ognuno di loro, chi più e chi meno a seconda del tempo trascorso insieme, ho imparato qualcosa: per questo sono loro grato e felice due volte del premio che hanno ricevuto. Con la stessa onestà, ho cercato sempre di dire loro ciò che mi pareva giusto, critiche incluse, poiché non c'è salto di qualità senza ostacolo. La chiudo qui, suggerendo ai ragazzi che vogliono fare questo mestiere di imparare da loro, da Gisella, da Andrea, da Annalisa. Sono anch'essi giovani, hanno dovuto affrontare le difficoltà di questo mestiere e si sono ritagliati non soltanto uno spazio, ma anche una medaglia al merito. Sono proprio contento per loro.


Foto by Leonora

giovedì 5 novembre 2009

Cinque novembre, sette anni


Cinque novembre. Il compleanno di Giovanni: il settimo. Lo sarebbe stato anche di mio padre, se fosse stato ancora vivo, ma a suo tempo non l'abbiamo mai festeggiato. Tranne il settantesimo, quello che sarebbe stato l'ultimo e che s'è rivelato stupendo. C'erano tutti i suoi amici e lui che sapeva che ci avrebbe lasciato presto ma che quel giorno stava proprio bene ed era contento lo stesso. Me lo ricordo seduto sulla panchina di vimini, con gli occhi chiusi e che ascoltava le chiacchiere dell'Ambrogio, del Gigi, dell'Amelio, del Giulio, del Filippo ridendo, con quell'espressione del volto e quella mimica che ha sempre avuto e che oggi mi trovo io stesso a fare, come se parte di lui si fosse trasmessa naturalmente in me, senza chiedere il permesso. So che anche oggi, quattro o cinque volte, ho detto qualcosa e mi sono portato la mano al viso e ho scosso il capo con lo stupore, mentre lo facevo, di essere la sua fotocopia, e sembrandomi proprio lui, nell'intimo, fuori e dentro.
Giovanni ha avuto tre regali: un pacchetto di Gormiti che parlano, una bicicletta Bmx e tre scatole di Lego, una grande e due più piccole. E una pallina che si illumina, lo stavo dimenticando: gliel'ha comprata sua mamma all'uscita dalla piscina, mentre io brontolavo che si poteva evitare di spendere quell'euro, perché non è giusto abituarli che si può avere tutto. Ma era il suo compleanno e la mia è stata più scena che altro. Ora è di là, nella stanza sua e di Giacomo, che dorme, con indosso il pigiama di ciniglia a strisce nere e arancioni di Tigro; ormai gli è piccolo, ma non l'abbandona neanche morto e noi men che meno, perché vedendolo così ci sembra sempre il Giovanni piccolo piccolo. Giacomo invece ha perso la sua prima partita ufficiale quest'anno, ai rigori, contro il Sagnino. Non meritava di uscire dal torneo ma il calcio è così e la sconfitta tempra, forgia l'uomo. Io sono orgoglioso di lui perché quando l'allenatore ha chiesto chi se la sentiva di tirare i rigori, su undici solo in tre hanno alzato la mano, lui compreso. Quando si è avvicinato al dischetto volevo sprofondare ed ero sicuro che avrebbe fatto meta, tipo rugby, scagliando il pallone dritto in cielo. Invece l'ha calciato benissimo, forte e a mezza altezza, imparabile pure se in porta ci fosse stato un gatto. Peccato abbiano perso, però sono giovani, si rifaranno. Tanto domenica si replica già, a Mariano.
Foto by Leonora

Angeli e demoni


Mi si è rotto l'alimentatore del computer piccolo. Mi si è rotto l'alimentatore del computer piccolo e mi è scomodo scrivere su questo fisso. Mi si è rotto l’alimentatore del computer piccolo e mi è scomodo scrivere su questo fisso e al lavoro sono presissimo. Mi si è rotto l’alimentatore del computer piccolo e mi è scomodo scrivere su questo fisso e al lavoro sono presissimo e poi in questi giorni non saprei neanche cosa dire. Mi si è rotto l’alimentatore del computer piccolo e mi è scomodo scrivere su questo fisso e al lavoro sono presissimo e poi in questi giorni non saprei neanche cosa dire e una pausa di riflessione non ha mai fatto male a nessuno.
Sciocchezze. La verità è che Giacomo, dodici anni, mio figlio maggiore, una settimana fa s’è iscritto a Facebook e io mi sento vecchio. Vecchio davvero, vecchio dentro. Facebook era la mia riserva indiana e sapevo che prima o poi ci sarebbe arrivato, era già un paio d’anni che trafficava col computer e Messanger da mesi era un compagno fisso. Ma Facebook! Facebook no… Un campanello d’allarme, un fastidioso campanello d’allarme, era già suonato quindici giorni prima: tra le richieste d’amicizia m’era arrivata quello di un compagno di classe di mia figlia Giorgia. Nove anni! È ancora lì che aspetta, perché non ho la minima intenzione di accettare ed è inutile che continui a fissarmi insistente in fotografia, con quel suo sorriso ingenuo di angioletto, ogni volta che mi connetto. Caro compagno di mia figlia, non ti accetto, non lo accetto proprio. Giacomo però, me l’ha fatta grossa. Lui e il suo entusiasmo: "Papà come si fa qua, come si manda un messaggio di là, e questo e quello, e le foto e i link e perché non ha ancora accettato la mia richiesta". Già, perché non l’accetto? Come posso negarla a mio figlio? Non posso. E così, da una settimana il mondo non è più lo stesso, con lui che aggiunge allegramente “amici” a mazzetti di dodici per dodici e io che vorrei sparire momentaneamente, ritrovarmi in Papuasia nottetempo.
Perciò non ho scritto, in questi giorni. Perciò sono state latitante in questo blog, che pur non merita il mio broncio. E pensare che di cose ne avrei anche da dire. Tipo che non esiste solitudine peggiore di chi non ha nessuno a cui dire di sentirsi solo. O che mi disgusta tutta questa difesa d’ufficio dei crocifissi da parte di chi lo impugna come una clava e che per tutto il resto in chiesa rutterebbe persino. O che oggi ho incontrato un’amica carissima e che mi ha commosso raccontandomi di quanto amaro l’è stato quest’anno. O che la depressione è una brutta bestia e che ringrazio il cielo di avere un carattere con gli anticorpi (che a guardarli bene hanno la forma della superficialità, ma pazienza, dalla vita non si può avere tutto). O che a volte in redazione vorrei fossero gli altri a cambiare ma forse dovrei cambiare per primo io. Tante cose insomma. Lo farò in uno dei prossimi giorni, appena mi riprendo da quel colpo del coniglio che tra capo e collo m’è capitato quando Giacomo s’è iscritto a Facebook.
Foto by Leonora

lunedì 2 novembre 2009

Il popolo bue e i produttori...

Il popolo bue e i produttori di palta e tolla

Letto due sabati fa, su un sms: «Oggi scocca l’ora legale, il Pd potrà dormire un’ora in più».Qui invece si rimane svegli, non fosse altro che per i manrovesci e le pedate sugli stinchi che si assestano i principali partiti della maggioranza. Legnate non inutili per ricompattare le frange del Pdl, diviso su tutto tranne che nelle risposte alla Lega, che a sua volta contesta ogni virgola, neanche si trovasse all’opposizione nel Venezuale di Chavez e non al governo del territorio da ormai una vita. Per ogni colpa si trova il suo contrappeso: «Non vi va bene Caradonna? Pensate al vostro Peverelli. La vicenda del muro è gravissima? E allora, peggio triplicare lo stipendio al vostro Colombo». I panni sporchi si lavano fuori casa, senza pudore se si resta in mutande, tanto il popolo è bue e non reagirà. E in effetti noi, che un po’ buoi ci sentiamo, fatichiamo a stupirci delle badilate di fango lanciate a vicenda, mentre facciamo eccezione quando il sindaco, serafico, sostiene di dormire benissimo la notte e che la gente lo ferma per strada, facendogli i complimenti. Bene, bravo. Ma i complimenti per che cosa? Sono tre giorni che ci arrovelliamo attorno a questo tema e ci viene in aiuto un lettore, che scrive: «Lo fermano per strada per fargli i complimenti? Sì, soprattutto i produttori di palta e di tolla». Anche il popolo bue, se si esagera, scalcia.

La Provincia, 02.11.09

Quello che ai ragazzi...

Quello che ai ragazzi dobbiamo insegnare

Dei sette giorni, ci basta la coda. Con annesso veleno. Veleno e schiaffoni: se li danno che è uno spettacolo Pdl e Lega, come nei peggiori film di Tomas Millian, detto "Er Monnezza".Ieri i coordinatori del Popolo delle Libertà, Butti e Pozzi, dopo essersi aggiustati i polsini del frac e raddrizzato il papillon, hanno impugnato la Mont Blanc d’ordinanza e scritto alla Lega, accusandola di «dispensare demagogia per raccattare quattro voti in più». I leghisti, dal canto loro, il giorno prima avevano constatato (ma va?) «l’immobilismo in cui versa l’amministrazione comunale». Gli uni se la prendono con Caradonna, gli altri replicano evidenziando «le palesi debolezze dei colleghi leghisti». Calma, Marrazzo non c’entra: le debolezze a cui si riferiscono, più che rosso piccante, hanno color verde pubblico, regno di quel Peverelli che il Pdl - si scopre ora - sopporta per carità. E così che in Italia funziona tra alleati: figuriamoci con gli avversari.In tutto ciò Bruni sogghigna, ben sapendo che - se mandano a casa lui - il centrodestra rischia il naufragio ed è sicuro perciò di poter tirare ancora a lungo la corda. A quella corda, è bene però ricordarlo, siamo appesi noi. E pure il destino di un’intera città, bloccata ai nastri di partenza, senza soldi e con nessuna opera realizzata (o meglio, una è realizzata, ma trattandosi del muro vista lago, sono tutti concordi che va abbattuta). Ecco perché, guardato a destra e a sinistra e tirate le somme, abbiamo la tentazione di cedere, di accettare il fatto che è tutto uno schifo, che non cambierà nulla. Per fortuna ci sono gli amici, che come cantava Bennato, non fanno cadere le braccia. Ieri, ad esempio, Giorgio Bargna ci ricordava una frase dello scrittore spagnolo Fernando Savater, che dice: «Oggi insegniamo ai ragazzi che la politica è corrotta, come se gli spiegassimo che un tostapane serve a carbonizzare il pane. Invece bisogna spiegare che anche la democrazia ogni tanto si guasta, fa corto circuito e bisogna rimetterla in sesto». Iniziare da Como sarebbe un bel gesto.

La Provincia, 01.11.09

Il mezzo strappo della Lega...

Il mezzo strappo della Lega e i pugili suonati


Roberto "Mano di pietra" Duran, Thomas Hearns e Ray "Sugar" Leonard. Tre pugili, tre storie, tre modi di intendere la boxe e la vita. Cosa c’entrano con il muro sul lungolago e con la paralisi amministrativa che ne deriva? Nulla. Però erano tre fuoriclasse e in massimo dodici riprese risolvevano il problema. Qui sono settimane che ci massacriamo l’anima, in un balletto in cui molti ci hanno rimesso la faccia e nessuno la testa, senza uno spicchio di scusa. "Quousque tandem abutere, Catilina, patientia nostra?", fino a quando dunque, o Catilina, abuserai della nostra pazienza? Per la cronaca: l’abbiamo persa da un pezzo. Perciò abbiamo seguito infastiditi, nel corso della settimana, i vari ultimatum di Lega e parte del Pdl. Mezzi ultimatum. Come quei tenori che per tre ore occupano la scena cantando che devono partire, che ora davvero partono, che ecco sì, sono proprio pronti a partire, e invece rimangono sempre lì, non si schiodano di un metro. Ieri, finalmente, uno strappo. Mezzo strappo. «Mai più in giunta e in consiglio comunale finché Caradonna non se ne sarà andato e sarà chiaro il futuro di lungolago e Ticosa» ha detto la Lega. Il sindaco ha incassato con aplomb britannico: «Parlerò con il Pdl e prenderemo una decisione, senza fretta». Ci mancherebbe altro, mica da mettersi a correre d’un colpo e beccarsi una storta alla caviglia o un mal di testa.
Tutto avviene così, senza fretta. È più di un mese che sul futuro della Ticosa aspettiamo che sia aperta una lettera. E quando oggi la apriranno scopriremo, come ha anticipato ieri sera il sindaco in diretta a Espansione Tv, che dentro c’era l’acqua calda: il mercato immobiliare non è più quello di una volta, la Multi per restare nell’affare vuole di più, il Comune non sa cosa fare... Ma non potevano dirlo subito? Ma no, figurarsi. «Decideremo con calma, senza fretta». Ci viene in mente l’imitazione che Corrado Guzzanti faceva di Prodi:«Ma io sono qui, fermo, immobile, come un semaforo!». Prodi è andato a casa, Bruni al confronto è un campione assoluto di resistenza, un Cassius Clay a Kinshasa, un incassatore pazzesco insomma. Un po’ "incassati" per la verità siamo anche noi, che non vediamo sbocchi e neppure ci illudiamo nell’udire tutte le voci che danno la sua amministrazione alla vigilia imminente di una crisi. L’unica speranza la riponiamo nei cittadini comaschi, pazienti ma a resistenza limitata. Ci diceva il collega Mauro Migliavada, l’altro giorno, che i politici comaschi senza capelli (Pastore, ma anche Colombo e altri ) sono i più arrabbiati, poiché non possono avvicinarsi a Palazzo Cernezzi senza che qualche passante lanci i suoi strali, scambiando il malcapitato per Caradonna. Saranno forse loro a far capire ai Catilina comaschi che la pazienza è davvero finita.

La Provincia, 31.10.09

Tre uomini in banca e...

Tre uomini in banca, orgoglio lariano

Tre uomini in banca (per tacer della sorella di Tremonti). Il vertice economico tra i principali esponenti della finanza nazionale e il ministro dell’economia, a cui i giornali hanno dedicato ampio spazio, potevano organizzarlo in piazza Cavour e nessuno avrebbe avuto da eccepire virgola. Tre dei quattro banchieri più importanti d’Italia sono legati a doppio filo con Como. Parliamo di Giuseppe Guzzetti, presidente dell’Acri, nonché della potente fondazione Cariplo, nato a Turate, residente ad Appiano Gentile, già governatore della Regione Lombardia quando la parola "governatore" non l’avevano ancora coniata. Parliamo di Corrado Passera, figlio illustre del capoluogo, amministratore delegato di Intesa San Paolo. Parliamo di Alessandro Profumo, che prima d’esser banchiere è stato bancario, sportello proprio in centro città, Banco Lariano.Di banche comasche adesso non ce ne sono più, in compenso abbiamo i banchieri: Guzzetti, Passera, Profumo. Ieri tutti e tre avevano di diritto un posto in prima fila, a Roma, per la ottantacinquesima giornata mondiale del risparmio, una virtù che vede gli italiani eccellere, nonostante la crisi e il disfattismo. Ma il vero incontro al vertice, quello che ha appassionato i notisti economici dei fogli nazionali, si era tenuto due giorni prima, alla presenza di un Giulio Tremonti che è nato a Sondrio e che nella nostra provincia, a Cantù, per la precisione, ha una sorella. Troppo poco per spolverare le bandiere e issarle sui pennoni dei municipi, ma abbastanza per solleticare quell’orgoglio di appartanenza a un territorio sovente bistrattato, dai suoi stessi figli. Peccato che, avendo la vocazione al silenzio tipica di tutti i banchieri, strappar loro una parola che sia una risulti arduo. Siamo già fortunati piuttosto, che sia trapelata la notizia dell’incontro dai toni distesi - ci informa Francesco Manacorda, de "La Stampa", con un «Tremonti sereno e anzi impegnato sui progetti a medio e lungo termine», in contrasto palese con chi lo vorrebbe con la valigia pronta in mano. Fra tutti, almeno a prestare ascolto a quella volpe ch’è Massimo Mucchetti del "Corriere della sera", a dettar la strategia è Guzzetti, che per età ed indole s’è ritagliato quel posto al sole (all’ombra, sarebbe meglio scrivere) che un tempo era di Cuccia. Altra stoffa (l’uno banchiere puro, l’altro arrivato alla finanza dalla cruna dell’ago della politica), altra razza (uno siciliano, l’altro lombardo), ma entrambi tessitori e con un passo felpato da insegnare ad arrampicare al gatto. Chissà - se la lingua si sciogliesse - cosa direbbero i tre banchieri del muro vista lago. E di una città che da bella addormentata rischia di rimanere soltanto appisolata.

La Provincia, 30.10.09

Corvo rosso non avrai...

Corvo rosso non avrai il mio scalpo
D’accordo, la verità: per quattro giorni non abbiamo scritto, cercando ogni pretesto per staccare la spina (la stessa a cui Caradonna si aggrappa ostinatamente, come zio Paperone alla teca della mitica "Numero uno"), stanchi e soprattutto stufi di tutto questo balletto attorno al muro, del teatrino tira e molla, degli ultimatum che consentono sempre una proroga, un rimando, un "sono incinta ma soltanto un po’". Ci stanno prendendo per sfinimento e ci potrebbero pure riuscire, se non fosse i lettori che tuttora s’indignano e per quelle decine di comaschi che ancor oggi, a oltre un mese dalla scoperta del muro, vanno ancora in pellegrinaggio, per rendersi conto di persona di come sia possibile costruire una barriera di cemento tra il lago e la sua città. «Corvo rosso non avrai il mio scalpo» ci verrebbe da rispondere, a tutti quelli con i bulloni alla poltrona. Uno «Scusate» che sia uno non l’hanno ancora detto e allora noi ci ostiniamo, teniamo duro, stufi sì, ma non sconfitti.

La Provincia, 29.10.09

Far luce nell'ombra...

Far luce nell'ombra. Storie della giustizia

Qualche lettore se ne sarà accorto: da un paio di settimane a questa parte, oltre ai maggiori processi, dal tribunale siamo tornati a raccontare nel dettaglio anche le vicende comuni, di gente semplice e invischiata, sua volontà o suo malgrado, in quel rito laico ch’è la giustizia, o almeno la convenzione che se ne dà. Negli ultimi giorni è stato scritto della signora derubata che ha riconosciuto i ladri senza riuscire a mandarli in galera (udienza rimandata, per accertare le reali responsabilità), di uno straniero spiantato e maldestro che ha arraffato un portafoglio vuoto al mercato (condannato), di due poveri diavoli che per ripararsi avevano sottratto da un cantiere abbandonato un paio di assi di legno (assolti), di una vicina di casa maligna e impicciona, che si divertiva ad otturare con della colla la serratura di una giovane sposa (condannata). Storie. Cronache di amministrazione ordinaria, che prese una ad una solleticano curiosità e tutte insieme dipingono uno spicchio della città in cui viviamo. Certo il palazzo di giustizia di Como non è il Beth Din, il tribunale rabbinico che in via Krochmalna a Varsavia era presieduto dal padre di Isaac Singer e che lo stesso scrittore elegge a teatro. E nemmeno la colonia penale descritta da Kafka o il proscenio scelto da un Brecht o da un Sciascia, né la corte d’Assise che Gide descrive cruda e limpida. Non è un caso tuttavia che tanti scrittori abbiano scelto l’aula del tribunale come spina dorsale del loro narrare: c’è vita lì, in quel palazzo grigio, il cui atrio alto e immenso incute soggezione e il cui solo entrarvi ispira disagio. Raccontarlo è anche il modo di farlo sentire meno distante, meno “altro”. Dedicarvi attenzione è altresì la scelta di accendere la luce dove cova l’ombra. Ecco perché siamo contrari a qualsiasi tentativo di privatizzare, di rendere segreta – pur con nobili intenzioni - l’amministrazione della giustizia: raccontare, in questo senso, non è rispondere a un prurito, bensì dare pieno compimento ad una garanzia.

La Provincia, 25.10.09

Attenti a quei...

Attenti a quei due
Nei giorni scorsi abbiamo fatto di tutta l’erba un fascio, definendo la classe politica nel complesso mediocre. Qualcuno per la verità ha cercato di trarsi fuori da sé, come naufrago che per salvarsi si aggrappa ai marosi. Un paio di nomi. Mario Lucini (Pd), che s’è studiato il progetto con la meticolosità di uno studente alla tesi di laurea. Ma anche Lionetti (Lega), accusato in passato dal suo stesso partito di opportunismo, ma dimostrando nella circostanza di avere una faccia sola e di parlare chiaro.

Giovedì Gnorri
Qualcuno potrebbe chiedersi perché con alcuni siamo duri e con altri meno. Semplice: alcuni (leggi Cosenza, amministrazione provinciale) quando vengono tirati in ballo, telefonano e convinti delle proprie ragioni accettano di rispondere alle domande, mettono le cose in chiaro; altri (leggi Viola, comune di Como) alla richiesta di spiegazioni tacciono, scrivendo al più due righe, per dire di stare attenti e di essere molto precisi, altrimenti quereleranno.

La finestra sul cantiere
Ieri abbiamo ironizzato sul capo ufficio stampa del Comune, Marco Fumagalli, che si è eclissato sul più brutto, cioé quando l’arrosto delle paratie è diventato fumo (un fumo denso denso, quanto un muro). Se quel che dice è vero, gli va però dato atto che fu lui a volere le finestre in plexiglas che hanno permesso al pensionato di curiosare e lanciare l’allarme. Se è così, è giusto riconoscerlo. Senza dimenticare però che qualcuno del cantiere ha provveduto a oscurarne buona parte con dei fogli di giornali, senza che nessuno del Comune muovesse un dito e questo la dice lunga su come a Palazzo Cernezzi abbiano a cui la trasparenza, il giudizio schietto del cittadino.

A misura di piede
Ci scrive un amico, ingegnere e imprenditore: «Perché a Como non adottiamo come unità di misura (invece del metro) quella del muro a lago? Potremmo chiamarla “piede comasco” (nel senso di fatto coi piedi)».

La Provincia, 24.10.09

Innocente e...

Innocente. E umile
In principio fu Innocente Proverbio, il pensionato meticoloso che ha lanciato l’allarme, in lizza per l’Abbondino. Avevamo un timore: che con l’improvvisa notorietà si montasse la testa. Perciò abbiamo spulciato con attenzione le cronache, temendo di vederlo parlare in pubblico, tenere comizi o vestire i panni del capopopolo. Dubbi spazzati via quando lo abbiamo sentito su Rai Tre, con Frizzi che gli chiedeva della mega manifestazione in piazza e lui che se n’è candidamente uscito con un: «Mi spiace, non posso dire niente, non ho partecipato». Una frase che fa il paio con l’ombra in cui è restato e che ci ha rincuorato, convincendoci d’un fatto: Innocente Proverbio quell’Abbondino se lo merita sul serio.

La forza della televisiùn
Il consiglio comunale in diretta su Espansione tv è stato davvero meritorio, permettendo a migliaia di persone di trarre dei nostri amministratori un giudizio avveduto, mai a senso unico. Ce ne siamo accorti leggendo i commenti dei telespettatori che usano anche i social network: l’intervento di questo o quel politico che a noi pareva ridicolo o borioso, veniva da altri apprezzato e viceversa. Sappiamo che ciò che stiamo per scrivere comporterà il duro monito («Giorgio, i cavoli tuoi mai?») di Mauro Maggi, responsabile tecnico della tv, e di tutti gli altri amici che lì vi lavorano e che non hanno bisogno di un impegno aggiuntivo, ma la proprietà di Etv e il direttore del tg, Mario Rapisarda, dovrebbero pensarci: sarebbe utile mandare in onda tutti i consigli comunali in diretta, come si faceva un tempo. E visto che le trasmissioni hanno un costo, il Comune invece di spendere in spot e campagne promozionali sulla stessa tv, potrebbe investire contribuendo a un servizio davvero pubblico.

Dov’è il soldato Marco?
Quanto sono lontani i giorni in cui, armato di microfono e caschetto, il capo ufficio stampa del Comune, Marco Fumagalli, intervistava sul cantiere delle paratie l’assessore Caradonna per dire «Ma quant’è buono!», «Ma quant’è bello!». Da quando è scoppiato il caso, Fumagalli s’è eclissato. Prima era a Bilbao, poi «si sta occupando d’altro», così - su una vicenda tanto delicata - sono i suoi collaboratori a tenere banco. E noi ci chiediamo: è giusto? Ma forse la nostra è soltanto un’inutile malignità, forse vorrebbe esser più presente e forse il capo ufficio stampa ricomparirà, appena si sarà ricordato dove diavolo ha appoggiato il caschetto.

La Provincia, 23.10.09