sabato 25 aprile 2009

Duecento


E sono duecento. Duecento post, in un anno e mezzo. Settimana più, settimana meno. Duecento post che segnano il tempo come le briciole di Pollicino, pallido tentativo di lasciare traccia, di far sì che qualcosa -almeno - non sia vano. Duecento messaggi nella bottiglia, duecento strette di mano, duecento chiacchierate seduti ad un tavolino, duecento lettere imbucate con destinatario sconosciuto (compreso me stesso), duecento tocchi di nocca sul portone, duecento dita pigiate sul campanello, duecento sguardi che s'incrociano una domenica mattina, duecento punti di vista, duecento fette di torta distribuite alla rinfusa. Mi fossi accorto prima che si avvicinava il duecentesimo post avrei aspettato a ringraziare tutti coloro che passano di qui, uno ad uno. L'ho fatto invece qualche giorno fa, ma lo rifaccio volentieri. E' una premura, un interessarsi, un prendersi a cuore, il vostro, che m'impegna e mi onora: siamo compagni di viaggio, d'avventura.
Foto by Leonora

giovedì 23 aprile 2009

Un piccolo zoo di plastica


Entrare in doccia, a casa mia, è un'impresa. Dentro infatti c'è un leone. E un ippopotamo, un delfino, un'orca, una tigre, uno stegosauro, un triceratopo e almeno dieci, anzi dodici gormiti. Sono i giochi di Giovanni (sei anni), che prima portava avanti e indietro dalla sua camera e adesso lascia direttamente lì, ben in posa o alla rinfusa, pronti per il giorno dopo. Fino a qualche tempo fa, ogni volta li raccoglievo, ma ora non più, badando a non schiacciarli mentre m'insapono e risciacquo. Da un paio di settimane fanno parte dell'arredamento del bagno della zona notte e nessuno più ci fa caso, tanto che non mi sono stupito, poco fa, entrando in quello del piano inferiore e osservando che anche la vasca è presidiata da una lunga serie di animali, dalle misure più svariate e dai colori sgargianti, messi disciplinatamente in fila, quasi fossero in parata. Lo scrivo qui, come al solito, a futura memoria. Che Giovanni ricordi, un giorno, la pazienza dei suoi genitori nel sopportare, tra uno shampoo e l'altro, di avere tra i piedi un piccolo zoo di plastica.
Cambio argomento, per dire che l'altro giorno, martedì, un paio di ladri hanno divelto i serramenti e rotto un vetro nel tentativo di rubare. Furto andato male, poiché ero in casa e mi sono accorto di ciò che stava avvenendo. Non lo scrivo per il fatto in , bensì per la notizia che ne è stata riportata sul giornale dove lavoro. Ho sorriso per il tono usato: era tutto preciso e corretto, ma sembrava il resoconto di Aldo, Giovanni e Giacomo quando interpretano i ticinesi Gervasutti, Rezzonico e Huber: il protagonista però ero io. Isabella invece di ridere ha avuto (bonariamente) da ridire, sostenendo che tutto le pareva un po' esagerato per un tentato furto, anche se ha ammesso che la storia dei ladri messi in fuga dal padrone di casa non era male. Ad ogni modo, volevo annotare qui ciò che ho detto a lei, cioè che il giornale è ciò che ci dà il pane e che non posso lamentarmi quando qualcuno cerca di evitare la pubblicazione di notizie e poi fare io di tutto per impedirlo allorché l'interessato sono io. Questione di coerenza, diciamo. C'è dell'altro. L'anno scorso, quando i ladri riuscirono ad entrare e a razziare tutto, le denunce di colpi identici nei paesi del circondario furono decine. Dire, parlare, descrivere chi sono i ladri, come si vestono, che auto hanno, che tecniche usano, è un modo per mettere in guardia, per invitare a prestare attenzione, per evitare che episodi simili si ripetano. Visto che le forze dell'ordine latitano (quando è stata presentata ai Carabinieri la denuncia, non hanno voluto annotare il colore e il modello dell'auto, né com'erano d'aspetto e vestiti, poiché - come hanno risposto - "tanto poi si cambiano") la vigilanza, l'attenzione personale e di vicinato è l'unico modo per difendersi, senza reagire, bensì prevenendo. E c'è un terzo motivo: i ladri erano italiani e, per una volta che si sa, volevo fosse chiaro, onde evitare - com'è regolarmente successo - che saputo del tentato furto, arrivassero i commenti sui "soliti rumeni" o i "clandestini pericolosi perché non hanno nulla da perdere".

Photo by Leonora

lunedì 13 aprile 2009

Il mestiere di scrivere


Qualche giorno fa (molti giorni fa, ma il tempo vola e non ne tengo facilmente il conto) ho scritto un post sul mestiere di giornalista e su ciò che potrei dire a chi vuole fare questo mestiere. Ieri, su La Stampa, è stato pubblicata una lezione, l'ultima, che Indro Montanelli tenne in un'università ed essendo i suoi consigli assai più autorevoli dei miei, li riporto qui di seguito. Mettendo in grassetto le parti che più mi piacciono.


"So che molti di voi sono interessati al giornalismo e ai mezzi di comunicazione. Io questa passione ho cominciato a coltivarla già dal ginnasio, non ho mai voluto far altro che il giornalista, con gran disperazione di mio padre. Lui, da bravo preside di un liceo, lo considerava con molto disprezzo come un mestiere piuttosto aleatorio. Ma il giornalismo è stato la grande vocazione della mia vita. Vi confesso però che, sebbene abbia amato e continui ad amare questo mestiere, non posso consigliare a nessun giovane di intraprenderlo oggi, perché credo che il giornalismo sia ormai al capolinea. Dovrebbe trasformarsi completamente, in un senso che non so prevedere. Sono attaccato a dei ricordi e provengo da una certa scuola, e a quest’età mi è molto difficile pensare a qualcosa di diverso. Spero per voi che abbia luogo una trasformazione completa, che tenga conto dei fatti gravi accaduti nel tempo - tra cui molte colpe e deviazioni dei giornalisti -, dell’ingresso di tecnologie nuove, di tutto un ribaltamento del costume. Il giornalismo classico, dal quale non mi saprei mai distaccare, è impossibile che si possa adeguare. Quando cominciai, circa 60 anni fa, avevamo come tocco tecnologico la macchina da scrivere Olivetti Lettera 22, sulla quale continuo a scrivere. Non la producono più, per questo ne ho accaparrate presso gli antiquari cinque, che ho dislocato in vari punti. Oltre questo non posso andare. Io il fax non lo so usare, una cara persona se ne occupa per me, altrimenti non saprei neanche infilare il foglio. Noi giornalisti dobbiamo fare i conti con un nemico mortale. Anziché combatterlo, ci siamo messi al suo servizio: è la televisione. Ho le stesse idee di Popper, la televisione è la più grossa iattura che potesse capitarci, perché è stata utilizzata in modo tale da esserlo. I giornali sono diventati i megafoni della televisione, per questo troviamo titoli a otto o nove colonne su Pippo Baudo o la Parietti. La televisione potrebbe essere un grande strumento di cultura, ma non lo è. Questi però sono affari suoi. Ciò che è affar nostro è di esserci messi a fare i megafoni, copiandone anche i costumi e riconoscendone la supremazia. L’Italia, oltre ad aver sempre mescolato il serio con il futile, ha sempre preso il futile come l'unica cosa seria. E noi non facciamo che adeguarci, portando agli eccessi questa perversione del nostro costume. Ma c’è di peggio. La televisione insegna ed apre la strada al protagonismo, che portato nel giornalismo ha effetti catastrofici. La televisione aizza quel pessimo incentivo tipico dei cattivi giornalisti, la ricerca a tutti i costi dello scoop. Se qualcuno di voi vorrà fare questo mestiere, sfuggite alla tentazione dello scoop! Ricordate che esso è la scorciatoia dei somari. Consente di arrivare prima, ma male. Il pubblico è uno strano animale, sembra uno che capisce poco ma si ricorda, e se vi giocate la sua fiducia siete perduti. Questa fiducia bisogna conquistarsela seriamente e faticosamente, giorno per giorno. Questo non ci mette al riparo dall’errore, ma impone l’obbligo di denunziare noi stessi, quando ci accorgiamo dell’errore, e di chiedere scusa al lettore. Se volete fare questo mestiere, ricordatevelo bene. È un mestiere che richiede molta umiltà, molta, e il protagonismo è in contrasto con questa legge fondamentale. Oggi io vedo i direttori nuovi. Sono bravissimi, intendiamoci, hanno tra i 40 e i 50 anni, potrebbero essere miei figli. Ma non stanno in direzione, li ho sotto gli occhi, stanno nell’ufficio marketing, perché la cosa fondamentale di un giornale è la cosiddetta audience. L’audience procura pubblicità, perché un giornale non deve solo vivere, ma deve anche produrre soldi, soprattutto se vuole essere indipendente. Un giornale che deve chiedere soldi a qualcuno è per forza di cose suo servo. Io ho perso la Voce perché non riuscii a portarlo in attivo. È l’audience nelle sue forme più volgari che ci obbliga a involgarire il giornale, che per stampare deve battere questa strada. Questa strada però non ci conduce a niente. Noi avremo un giornalismo sempre peggiore perché sempre più in cerca di audience, sempre più in cerca di pubblicità e quindi sempre più portato ad assecondare i peggiori gusti del pubblico, invece di correggerli. Intendiamoci, il pubblico è sempre il nostro padrone, non si può prenderlo di petto ma lo si deve educare. Senza mostrarlo però, perché non c’è niente di peggio degli atteggiamenti da mentori. Non so se il giornalismo è capace di compiere un’evoluzione in questo senso, ma io non ne vedo i segni. Se io avessi 40 anni di meno, tenterei di nuovo di fare un giornale. Ora qualcuno si meraviglierà, ma seguirei la strada aperta dal mio arcinemico Ferrara con il Foglio. Quel giornale è probabilmente ciò che avrei dovuto fare io con la Voce, che non ebbi la forza e la possibilità di fare. Un giornale che adeguasse immediatamente i suoi mezzi ai costi, con poche pagine, che potesse fare a meno di gran parte della pubblicità, con dei giornalisti - ahimé - pagati poco. Ma noi siamo sempre pagati poco, questo mestiere non si fa per i soldi. Anzi, se incontrate un giornalista ricco, diffidatene. Il giornalismo non conduce alla ricchezza, può condurre al benessere, per carità. Io non mi lamento affatto, ho quanto mi basta e anche di più per campare bene. Ma il giornalista ricco è un giornalista che puzza perché si è servito del mestiere per raggiungere altri obiettivi. Un giornalista che si asservisce al mestiere - chiedendo scusa al procuratore Maddalena - lo fucilerei. Come vedete non vi porto buone notizie, però, a questo punto, devo dirvi anche un'altra cosa. Avrò forse fatto un mestiere sbagliato, ma non lo rimpiango. Credo che il giornalismo in Italia abbia svolto una missione, quella di strappare la cultura italiana ai suoi fortilizi, alle sue cosche mafiose. Chiedo scusa di ricambiare così male la vostra ospitalità, ma devo dirvi che il giornalismo questo compito lo ha assolto per decenni, portando la cultura in mezzo al pubblico. La cultura italiana ne aveva un gran bisogno, perché non sa parlare al pubblico. Ha un linguaggio suo, intraducibile nel linguaggio comune. Forse voi sapete che io non ho molto di che compiacermi del ‘68 e di ciò che ho fatto lì, perché porto ancora addosso i segni e le tracce, ma, i moventi lontani di quei ragazzi che mi misero addosso un bel mucchio di pallottole, forse se avessi avuto la loro età li avrei condivisi. Mi sarei certamente allontanato perché il modo in cui volevano rifare le cose era sbagliato, ma qualcosa c’era. Nella ribellione a un certo modo baronale di intendere la cultura, qualcosa di giusto c’è. Chi di voi vorrà fare questo mestiere, si ricordi di scegliere il proprio padrone, il lettore. Si metta al suo servizio e parli la sua lingua, non quella dell’accademia. Porti la cultura dell’accademia alla comprensione. Badate che questo è stato il più grave dei tradimenti commessi in Italia, e ne sono stati commessi parecchi. Volete le prove? Prendete un qualsiasi scritto di chiunque dell’Italia del ‘700 e mettetelo a confronto con le pagine dell’enciclopedia francese. Le pagine di Voltaire, di D'Alembert, sono chiare e limpide, tutto si capisce. Nelle altre non si capisce nulla: lingua togata, irreale, del principe. Lingua di cultura al servizio del signore, che poi è diventato partito. E quindi è anche peggiorata, perché era meglio servire un duca o un cardinale che un partito. Era meno ignobile, anche se era ignobile anche quello. Ricordatevi che la cultura in Italia non si è mai diffusa, quel poco che è stato fatto è stato fatto dal giornalismo. Se volete fare questo mestiere, questo è l’impegno che dovete assolvere. Per farlo non c’è sofferenza che ve ne possa sconsigliare, e questo mestiere è bellissimo. Non conduce a niente ma è bellissimo. Il giornalismo si fa per il giornalismo, e per nessun’altra cosa".

"Non c'è sofferenza che ve ne possa sconsigliare". E' vero. E' questo il crinale che distingue il successo dal fallimento, l'impresa dalla caduta. Per il resto, ha ragione il mio attuale direttore, secondo cui non è il grado, o l'amicizia, o la raccomandazione, o il contratto che conta, bensì la propria firma e la capacità di fare ogni volta un bell'articolo, un buon pezzo. Oltre ciò, per dirla con De Niro, sono solo "chiacchiere e distintivo".

domenica 5 aprile 2009

Bicchieri e radici


Non è vero che l'età porta saggezza. Me ne accorgo ogni giorno, prestando ascolto a chi mi è vicino e scrutando in filigrana me stesso, che non son più il ragazzo d'un tempo e cambio gusti e convinzioni, perdendo l'illusione che avevo d'una età adulta a immagine di un mare quieto. E' un discorso lungo, che non posso continuare poiché non è chiaro nemmeno a me stesso. Mi limito qua ad annotare ciò a cui, nella turbolenza dei giorni, mi appiglio, cioè a una passione riscoperta per la terra e dei prodotti che porta in dono, specialmente alberi e vino. Il vino lo bevo di rado e un bicchiere o due soltanto, sempre a pasto e nei giorni di festa. Fin che c'era mio padre sulla tavola non è mai mancato. Poi c'è stato il tempo di esaurire le scorte di quello imbottigliato da lui, prima che diventasse aceto, ma era un bere di chi è stato tradito e vede finire col bicchiere anche un ricordo lieto e una parentesi di vita che non tornerà più indietro. Un bere amaro. Qualcuna di quelle bottiglie le ritrovo tuttora in cantina, ma non c'è più l'ansia di evitare uno spreco. M'è venuto in mente d'un vino forte, siciliano credo, che sempre mio padre comprò a damigiana ad inizio anni Settanta. Lo imbottigliò senza berlo, poiché lui che veniva dalla bassa Valtellina ed era abituato a un vinello leggero, non aveva calibro per quel rosso forte e denso. Per caso e curiosità, ne aprì una bottiglia vent'anni dopo, scoprendo che gli anni avevano tolto a quel vino peso e di quella sorpresa mise a parte per mesi e mesi chi veniva a trovarci e gli amici del Circolo (circolo delle bocce, gente che il vino è abituata a berlo, non solo a gustarlo). Sta di fatto che da qualche settimana ho ripreso a fare scorte e la domenica, quando si mangia in famiglia, mi piace aprire apposta una bottiglia e tenere il vino per qualche istante tra lingua e palato, assaporando in quel sorso tutta una cultura di millenni, che ha fatto da compagnia all'essere umano.
Per gli alberi è un altro discorso. C'è stata un'età, la mia dai vent'anni ai quaranta, in cui le piante erano un fastidio. Fastidio di foglie cadute e tronchi d'intralcio, per cui c'è stata un'opera sistematica che ha tolto alberi e cespugli uno via l'altro, privilegiando il prato. L'anno in cui questa casa venne costruita (1971), furono messi a dimora piante da frutta, sul retro, e d'ornamento. Non ne conosco i nomi esatti, ma se chiudo gli occhi, quelle d'alto fusto le rivedo: un faggio pendulo, un'araucaria (morta quasi subito e sostituita da un faggio rosso), un abete argentato, quattro pini marittimi, un pino austriaco, un pino nero, anch'esso pendulo, un ciliegio, un caco, un filare con cinque peri, un melo, due susini, un albicocco... Di essi è rimasto solo il faggio, ampio e ombroso, a cui sono affezionato. In più, s'è aggiunta una magnolia e soprattutto l'ulivo di Prodi (chiamato così poiché era una pianticella sottile, nella primavera del 1996, quando venne messa sul palco del PalaSampietro, dove parlava Romano Prodi, che avrebbe vinto le elezioni qualche settimana dopo: alla fine del comizio, se ne andarono tutti e dell'Ulivo non se ne curò nessuno - metafora di ciò che politicamente sarebbe successo, ma allora non potevo saperlo - così Angelo Migliavada, che del palasport era il custode, me lo affidò. Lo piantai di fronte alla casa che abitavo allora, in centro Lurate, e poi l'ho trapiantata qui, cinque anni fa, quando il 16 aprile ci trasferimmo). Ieri l'altro ho comprato un libretto di Mario Rigoni Stern, che ho letto d'un fiato. S'intitola "Arboreto salvatico" ed è un elenco di alberi, ognuno accompagnato da appunti scientifici e aneddoti, riflessioni. Pagine piacevoli, che mi regalano parole nuove, d'un vocabolario misterioso e magico, e irrobustiscono la convinzione di approfondire la conoscenza e di mettere a dimora nuove piante. So che lo farò, presto.
Photo by Leonora